Ascendenze peculiari per un popolo riottoso. Per quanto le origini remote di qualunque nucleo sociale siano difficilmente decifrabili, è consuetudine che ciascun popolo immagini una situazione o una vicenda di eccezionale portata che sarebbe alla base dell’atto fondativo della realtà che lo riguarda, spesso con influssi o presenze soprannaturali dovuti al diretto intervento degli dei, oppure connessi all’operato di una personalità eroica fuori dal comune. Le principali città dell’antica Grecia si consideravano sotto la protezione esclusiva di uno degli dei dell’Olimpo, mentre Roma con Virgilio ha trovato il suo capostipite eccellente nel- l’eroe troiano Enea, esule in Italia dopo la distruzione della sua città. La Francia celebra le sue origini cavalleresche nell’epopea della Chanson de Roland, e parimenti il popolo tedesco si avvale della saga nordica dei Nibelunghi, come pure la Gran Bretagna esalta le proprie ascendenze nel poema epico di Beowulf e nel leggendario Re Artù con i Cavalieri della Tavola Rotonda.

La Palestina al tempo di Gesù

Possiamo dunque notare che, qualunque sia l’elaborazione mitico-letteraria prodotta, gli autori (a volte più di uno per ciascuna opera) hanno sempre cercato di evidenziare una motivazione portentosa alla base delle proprie origini etniche, focalizzando l’attenzione su personaggi reali o immaginari che possedessero doti sovrumane, figure eccellenti che per i posteri avrebbero dovuto costituire dei modelli da imitare. Abbastanza stranamente per lo stato di Israele non è così. Vale quindi la pena di provare a intenderne le ragioni. Per quanto risulta dalle esperienze storicamente documentate, la popolazione insediata nell’area geograficamente definita dai Romani come Palestina1 rivela una permanente condizione interna di frazioni- smo settario-tribale e contemporaneamente di ribellione verso qualunque ingerenza esterna. Tali caratteristiche di risoluta ostilità si riferiscono non solo alle popolazioni confinanti con Israele e in competizione per il controllo del territorio, ma anche alla suprema potenza di Roma imperiale, che agli inizi dell’era cristiana dominava incontrastata su buona parte del mondo civilizzato, spingendo le sue legioni sino ai confini dell’Europa,il Medio Oriente e l’Africa Settentrionale.

La distruzione dello stato di Israele e la diaspora. Nella concezione dominante e conquistatrice di Roma imperiale lo stato di Israele ha sempre rappresentato  una spina nel fianco rispetto alla possibilità di controllo di tutto il Medio Oriente, a causa di frequenti azioni di forte contrasto da parte di un popolo sempre riottoso e assai difficile da sottomettere. Se prima dell’era cristiana Erode il Grande era riuscito a regnare sulla Giudea col beneplacito di Roma per quasi 40 anni (precisamente dal 40 A.C. al 4 A.C.), non altrettanto avvenne con i suoi discendenti, che dovettero affrontare una fiera opposizione contro l’occupazione romana, con una tenace resistenza sostenuta in particolare dalla setta degli Zeloti, che decisamente si rifiutavano di sottostare al dominio di Roma, una prospettiva di servitù ritenuta incompatibile con l’idea di servire il Dio d’Israele anche a costo della vita.

Questo atteggiamento di aspra contrapposizione sarebbe durato per oltre mezzo secolo, finché nel 66 D.C. si verificò una ribellione generalizzata in tutto il paese, tanto che l’imperatore Nerone decise vi inviarvi Vespasiano, uno dei suoi migliori generali, per porre fine alla rivolta una volta per tutte. Vespasiano, che sarebbe divenuto imperatore a sua volta proprio sulla scia dei successi conseguiti durante la Prima Guerra Giudaica, giunse in Palestina con un esercito forte di tre legioni e circa trentamila truppe ausiliarie, per un totale di sessantamila soldati, una forza militare incontrastabile per qualunque popolo.Com’era inevitabile, nel volgere di pochi anni qualunque forma di opposizione al dominio imperiale venne repressa con inesorabile durezza, anche se, una volta proclamato imperatore, Vespasiano fece ritorno a Roma, lasciando la conduzione della guerra al figlio Tito, il quale pose fine alla resistenza israelita nel 70 D.C. con l’assedio e la conquista di Gerusalemme. Alla resa degli insorti seguirono la distruzione del Tempio, lo sterminio di molti israeliti e la riduzione in schiavitù dei superstiti. In tal modo ebbe inizio la diaspora (esilio forzato) per coloro che riuscirono a fuggire lontano, mettendosi in salvo e finendo dispersi  per secoli in varie parti del mondo.

Fortezza di Masada

Gli irriducibili e il rifugio di Masada.Vi furono tuttavia degli strascichi di resistenza, che durarono fino al 73 D. C. concentrandosi principalmente nella fortezza di Masada. Originariamente questa struttura, che sorgeva nella Giudea meridionale a circa 100 chilometri di distanza a sud-est di Gerusalemme, era un avamposto militare sperduto nel deserto di fronte al Mar Morto. Ma Erode il Grande, nella sua mania di grandezza, aveva deciso di farne una agguerrita fortezza ritenuta inespugnabile sia per le sue alte torri e la poderosa cinta muraria, che per il suo posizionamento su una rocca elevata fino a 400 metri di altitudine. Inoltre il sito era raggiungibile con estrema difficoltà, dovendo percorrere un sentiero stretto ed impervio, denominato appunto “sentiero del serpente” per i suoi numerosi tornanti che lo rendevano pressoché impraticabile per la fanteria romana. Naturalmente la postazione era stata ben fornita di armi, viveri e scorte di acqua, tali da permettere agli occupanti di resistere a qualunque assedio. Agli inizi della guerra giudaica (agosto del 66) Masada era presidiata da una guarnigione romana inviata da Vespasiano. Però era stata proditoriamente conquistata da un gruppo di ribelli Zeloti, che passò per le armi i soldati romani. Tuttavia ben presto all’interno degli occupanti israeliti si verificarono accesi contrasti, che videro prevalere il gruppo agguerrito dei Sicari, che presero il potere impadronendosi delle armi fatte immagazzinare a suo tempo da Erode il Grande. L’intento preminente dei Sicari era quello di combattere, più che i Romani, i giudei che si mostravano disposti a collaborare con i romani o almeno ad accettarne il predominio.

L’assedio e il suicidio collettivo. Le soverchianti forze romane, guidate dal generale Flavio Silva, incontrarono inizialmente notevoli difficoltà a condurre un assedio efficace, in quanto la configurazione del territorio era tale da impedire non solo una rapida avanzata a ridosso della fortezza, ma anche i necessari rifornimenti per la sopravvivenza delle truppe. Che infatti impiegarono tre anni per avere ragione di un limitato numero di israeliti ostinati a resistere sotto la guida di Menachem, figlio di Giuda il Galileo, che era stato il fondatore della setta degli Zeloti. I romani dapprima fecero terra bruciata intorno alla fortezza, poi iniziarono la costruzione di una lunga rampa su un costone laterale del fortilizio, in modo da colmare il dislivello (133 metri) tra il campo romano e la fortezza, permettendo l’avanzata di torri lignee, con cui potevano attaccare la rocca, portandosi all’altezza delle mura di difesa e usando un grosso ariete per demolirle. Ma quando quest’attacco definitivo avvenne, con sorpresa i soldati romani trovarono all’interno solo un mucchio di cadaveri. I difensori avevano compiuto un suicidio collettivo, sacrificando non solo i guerrieri ma anche donne e bambini, famiglie intere.

L’ebreo errante

A lungo si è speculato sulle modalità di tale eccidio. Ne riferisce ampiamente il comandante Giuseppe Flavio, un israelita passato alla collaborazione con i Romani, che, avendo partecipato a tali eventi, li raccontò nella sua opera intitolata La guerra giudaica. Secondo la narrazione di Giuseppe Flavio la conferma del suicidio collettivo fu fatta agli increduli soldati romani dai pochi superstiti (due donne e cinque fanciulli), che erano scampati al massacro nascondendosi nei sotterranei della fortezza2. Alcuni studiosi di recente hanno osservato che nell’ebraismo il suicidio è severamente condannato, dato che spetta a Dio dare la vita o la morte. Tuttavia la prospettiva di essere uccisi dai soldati romani o, in caso di sopravvivenza, di essere venduti come gladiatori da circo per gli uomini e come prostitute per le donne, per gli assediati era certamente una alternativa ben peggiore3. Nel suo racconto Giuseppe Flavio afferma che nel tragico eccidio di Masada morirono 960 israeliti e le modalità furono le seguenti: vennero sorteggiate dieci persone che uccisero tutti i difensori, poi uno di loro uccise gli altri nove e alla fine si suicidò. Invece secondo una versione successiva, attribuita a un anonimo cronista ebreo del Medioevo, gli occupanti di Masada avrebbero ucciso mogli e figli, dopodiché avrebbero combattuto contro i romani morendo da eroi.

L’epopea di Masada in ottica sionista e durante l’Olocausto. Per un popolo condannato ad un esilio perenne, con il passare del tempo la resistenza e il tragico epilogo di Masada finirono con assumere una valenza quasi mitica, rivolta ad esaltare lo spirito di estremo sacrificio dimostrato in modo collettivo da un gruppo rappresentativo di un intero popolo per la difesa della libertà della propria terra. Risulta opportuno a tal riguardo fare alcune precisazioni di carattere storiografico.In primis va riconosciuta la cattiva fama che la nazionalità israelita si porta dietro da sempre, ossia il fatto che “l’ebreo errante” è stata una espressione metaforica che ha connotato ben due millenni di storia, con esiti fortemente discriminatori verso un gruppo etnico ritenuto diverso per sua scelta e quindi non assimilabile alle popolazioni degli stati ospitanti. Va poi ricordato che l’antisemitismo persecutorio, come attualmente lo si intende, non è un fenomeno esclusivo del Novecento, con le leggi razziali promulgate prima dal regime nazista e quindi da quello fascista che seguì a ruota, con deportazioni e stermini nei vari lager europei. Basti ricordare i principali decreti di espulsione di tutti gli ebrei praticanti emanati in vari stati europei a partire dal Medioevo: in Francia nel 1182, in Inghilterra nel 1290, in Spagna nel 1492, in Portogallo nel 14964. Né vanno dimenticati nel periodo della controriforma (sec. XVII) i numerosi processi per eresia intentati contro gli ebrei dai tribunali della Santa Inquisizione, con  la minaccia di condannarli al rogo e con il fine recondito di farsi pagare enormi riscatti per salvare la vita degli accusati.

Giuseppe Flavio

Per secoli in tutta l’Europa, e non solo, un antisemitismo ferocemente preclusivo si è alimentato di clichés discriminanti e corrosivi, mirati a screditare persone considerate diverse per etnia, religione, cultura e attività esercitate, spesso il commercio, a volte anche l’usura, una forma di peccato ritenuta meritevole di una severa condanna morale, quasi al pari del furto. È quindi comprensibile che l’antisemitismo della diaspora abbia poi generato un movimento di reazione, il cosiddetto sionismo5, basato su un progetto di riconquista della terra dei padri da parte dei discendenti degli ebrei della diaspora. Nato alla fine del XIX secolo nell’Europa centrale e orientale, il sionismo si inserisce in un più vasto fenomeno di nazionalismi moderni. Sin dai primi del Novecento il movimento sionista incoraggiò  vari flussi migratori di ebrei verso la Palestina ottomana, finché nel secondo dopoguerra, anche in conseguenza della terribile azione di sterminio prodotta dall’Olocausto, le potenze mondiali convennero sulla decisione di dichiarare nel 1948 la nascita dello Stato di Israele. Questo naturalmente provocò l’esodo forzato dei Palestinesi che da millenni vivevano nella terra d’Israele, generando un insanabile conflitto col mondo arabo, di cui anche ai nostri giorni non si intravede una qualche forma di composizione, che permetta una pacifica convivenza fra due popoli e due etnie che dovrebbero trovare il modo di condividere lo stesso territorio, come di fatto avviene in molte parti del mondo.

Mai più Masada. Una annotazione significativa ci permette di chiudere con un riferimento alquanto rilevante sull’argomento oggetto di questo saggio. La vicenda di Masada nel 1927 ha ispirato Ytzhaz Lamdan (1899-1954), un emigrato ucraino a Tel Aviv, a comporre un intero poema epico, proponendolo come elemento letterario capace di richiamare un’esperienza indubbiamente fondamentale nella individuazione ed esaltazione di una ampiamente riconosciuta affermazione di identità nazionale. Non per nulla Masada è stata successivamente riscoperta anche come sito archeologico, fino a diventare il simbolo stesso della causa sionista. A dimostrazione di ciò valga il fatto che, a tutt’oggi, le reclute dell’esercito israeliano vengono condotte sul luogo di quell’antica fortezza per pronunciare il loro giuramento di fedeltà. E lo fanno solennemente, al grido di: “Mai più Masada cadrà!”.                ●

NOTE:

  1. Il nome Palestina fu inizialmente usato dagli scrittori greci antichi (Erodoto) per indicare la regione tra la Fenicia e l’Egitto. Successivamente il termine fu adottato in epoca imperiale romana nel 135 D.C. dopo la sanguinosa fine della Terza Guerra Giudaica e la definitiva cancellazione dello stato di Israele per volere dell’imperatore Adriano. Cfr. Everyman’s Encyclopaedia, London, Dent & Sons, 1995, Vol. 7, Voce “State of Israel”.
  2. Cfr. GIUSEPPE FLAVIO, La guerra giudaica, Ed. Harmakis, passim.
  3. Vedi al riguardo, PAOLO MIELI, “Il difendibile suicidio di Masada” in Il Tribunale della storia, Milano, Rizzoli, 2021, pp. 237-44.
  4. Cfr. Wikipedia, alla voce “Storia dell’antisemitismo”.
  5. Il sionismo deve la sua forma moderna a Theodore Herzl (1865-1909), un ebreo viennese che nel 1897 fondò in Svizzera un’organizzazione internazionale (World Zionist Organization) per il ritorno del popolo ebreo in Palestina e il riconoscimento di un nuovo stato nazionale. Un passo importante in tal senso fu la Dichiarazione Balfour (1917), con cui la Gran Bretagna si impegnava a sostenere la costituzione di uno stato ebraico in Palestina, impegno poi sancito dalla Società delle Nazioni nel 1922, ed infine realizzato nel 1948 subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Cfr. ESMOND WRIGHT and KENNETH STAMP, Illustrated World History, New York – London, McGraw-Hill, 1989, pp. 465-66.