La più grande tragedia dimenticata del Mediterraneo
Il piroscafo Oria
Tra gli oltre 4100 caduti anche sei vittime galatinesi
di Salvatore Chiffi
Aristotelis Zervoudis, un appassionato ricercatore subacqueo greco, nel 1999 era impegnato in alcune immersione intorno all’isolotto di Patroklos 25 miglia nautiche a sud di Atene. Fraternizzando e chiacchierando con i pescatori locali attinse da questi informazioni sulla probabile presenza di un relitto poco a sud di Capo Sunio, un promontorio poco distante.
Il subacqueo si fece accompagnare sul luogo dagli esperti pescatori nelle cui reti molto spesso incappavano oggetti di provenienza militare e, dopo una serie di immersioni, individuò le tracce di un relitto. Era quello del piroscafo Oria e grazie a questa scoperta fu fatta luce su quello che si rivelerà essere stato il più grande disastro marittimo del Mediterraneo.
La nave Oria era un piroscafo da carico norvegese di proprietà della compagnia di navigazione Fearnley & Eger di Oslo, adibito al trasporto di carbone.
All’inizio della seconda guerra mondiale fece parte di alcuni convogli inviati in Nord Africa, e fu lì, a Casablanca, che fu internato nel giugno del 1940, poco dopo l’occupazione tedesca della Norvegia. Un anno dopo la nave fu requisita dalla Francia di Vichy, ribattezzata Sainte Julienne e data in gestione alla Société Nationale d’Affrètements di Rouen e, successivamente, cominciò ad operare nel Mediterraneo. Nel novembre del 1942 fu formalmente restituito al proprietario e ribattezzato col nome originale Oria; subito dopo fu requisito dai tedeschi ed affidato alla compagnia Mittelmeer Reederei GmbH di Amburgo e da questa adibita a trasferire le decine di migliaia di prigionieri dall’isola di Rodi verso il continente nei campi di prigionia nazisti.
Era appunto a Rodi l’11 febbraio 1944 quando alle 17,40, appena ultimato l’imbarco di 4.115 militari italiani internati (43 ufficiali, 118 sottufficiali, 3885 soldati di truppa)1 e un piccolo carico di olii minerali e materiale per le motociclette dell’esercito tedesco, il comandante ricevette l’ordine di partire alla volta del Pireo. Oltre ai prigionieri italiani a bordo si trovavano 19 marittimi norvegesi che costituivano l’equipaggio e 90 soldati tedeschi di scorta.
Il comandante, il norvegese Bearne Rasmussen, era alquanto riluttante sia perchè aveva avuto notizia che pochi giorni prima il piroscafo Petrella era stato silurato e affondato nei pressi dell’isola di Creta dal sommergibile inglese Sportsman causando la morte di oltre 2.500 soldati italiani prigionieri dei 4.000 che trasportava, sia per le condizioni metereologiche preannunciavano una imminente burrasca.
Il piroscafo Oria, originariamente battente bandiera norvegese e il Petrella francese, come tanti altri natanti, erano stati requisiti dai tedeschi e adibiti al trasporto di prigionieri verso i campi di detenzione in Germania; la loro unica colpa: aver mantenuto fede al giuramento di fedeltà verso la Patria e non aver aderito alla repubblica di Salò.
Purtroppo gli ordini impartiti dal comandante tedesco Wilhelm Wegener erano perentori e non ammettevano scusanti e così il piroscafo Oria, ex nave carboniera, prese il largo alla volta di Atene con i prigionieri ammassati nelle stive al punto tale che non potevano nemmeno muoversi. Ai prigionieri, ma non a tutti, durante l’imbarco venne distribuito solo un quarto di litro di acqua e una pagnotta avanzata dal pasto precedente.
Le già cattive condizioni del mare il mattino seguente peggiorarono ulteriormente tanto da indurre il comandante Rasmussen a mantenere un rotta vicino alla costa per limitare gli effetti del moto ondoso e soprattutto nel tentativo di mantenersi lontano dagli agguati dei numerosi sommergibili inglesi che affollavano quel tratto di Egeo, inglesi che, nonostante sulle fiancate delle navi fosse scritto ben visibile a caratteri cubitali con vernice bianca POW (Prisonners of War), siluravano senza pietà tutti i natanti che incrociavano.
La decisione di navigare sottocosta si rivelò però disastrosa. La violenta mareggiata in atto non consentiva di manovrare agevolmente e la carboniera con il suo carico umano finì con l’impattare contro i rocciosi bassi fondali dell’isolotto Patroclo nei pressi di Capo Sunion a circa 25 miglia da Atene.
Nell’impatto lo scafo, a causa del sovraccarico, si fratturò imbarcando acqua. Fu una catastrofe immane. I prigionieri intrappolati e chiusi dall’esterno nelle stive, in maniera che non potessero uscire sul ponte di coperta e scappare tuffandosi in mare, non ebbero scampo e morirono affogati lentamente uno dopo l’altro. A nulla valsero i tentativi di soccorso delle tre torpediniere di scorta e le navi partite da Atene arrivarono il solo giorno dopo quando ormai la più grande e dimenticata tragedia del mare si era consumata.
A bordo, oltre ai prigionieri, persero la vita parte dei marinai norvegesi, 84 soldati tedeschi.
Solo 48 persone che si trovavano in una porzione di nave rimasta a galla sopravvissero al naufragio: 37 italiani, 6 soldati tedeschi e 5 marinai norvegesi che facevano parte dell’equipaggio, compreso il comandante Rasmussen e il primo ufficiale di macchina.
I corpi di 250 vittime furono ritrovati nei giorni successivi sulle spiagge e fra gli anfratti rocciosi dell’isola di Patroclo, raccolti e pietosamente seppelliti dalla popolazione locale furono poi traslati nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari.
Il relitto del piroscafo rimase lì, semi-affondato. Nessuno si curò di recuperare le vittime del naufragio fino a quando 11 anni più tardi il governo greco affidò ad una ditta lo smantellamento del relitto allo scopo di recuperare il ferro.
Lo spettacolo che si presentò agli occhi delle maestranze durante le operazioni di recupero del ferro fu orripilante e ciò che rimaneva delle migliaia di esseri umani periti così atrocemente fu gettato in mare.
Alle onde e alle correnti fu affidato il pietoso compito di disperdere nel mare prospiciente Capo Sunio le spoglie degli oltre 4.100 caduti costituendo di fatto un grande Sacrario degli Abissi.
Aristotelis Zervoudis, dopo aver individuato le poche tracce rimaste del relitto del piroscafo Oria, organizzò una serie di immersioni e ricerche di tale importanza da spingere il presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, a nominarlo nel 2017 cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia, una delle più elevate onorificenze che concessa dallo Stato Italiano ad un cittadino straniero.
Un monumento in memoria delle vittime del disastroso naufragio è stato costruito nel 2014 sul promontorio di Capo Sunio per iniziativa della “Rete dei familiari” e grazie alla disponibilità delle autorità elleniche.
I cittadini galatinesi che persero la notte fra l’11 e 12 febbraio 1943 la vita nelle fredde stive del piroscafo Oria furono 6.
Antonio De Lorenzis, nato il 14 aprile 1914; Otello Donno, nato il 26 ottobre 1916; Rocco Greco, nato il 23 luglio 1923; Angelo Pizzolante, nato il 27 marzo 1923; Antonio Rizzo, nato il 9 marzo 1916; Mario Scalese, nato il 31 ottobre 1923.
Insieme a questi caduti galatinesi sul piroscafo Oria è doveroso ricordare anche due caduti su Nave Petrella (2.669 caduti, 428 superstiti): Antonio Congedo, nato il 15 novembre 1916; Salvatore Greco, nato il19 settembre 1917.
Antonio Musca, nato il 4 gennaio 1906, caduto su Nave Sinfra (2.089 caduti, 807 superstiti).
- Dopo la proclamazione dell’armistizio dell’Italia avvenuta l’8 settembre 1943 molti soldati italiani furono rastrellati e deportati nei campi di concentramento. A tutti loro fu proposto di continuare a combattere tra le fila dell’esercito tedesco. Solo il 10% accettò la proposta, il restante 90% vennero dapprima considerati prigionieri di guerra (POW) e successivamente internati. Con lo status di internati persero i diritti e le tutele riconosciute dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra e utilizzati come operai civili per la manodopera nelle fabbriche tedesche.