Storia veramente accaduta tanti anni fa a Nardò

LA CAPU TI MUERTU

La stupidità di certa gente non conosce limiti, così come l’arguzia di tanta altra.

di Emilio Rubino

 

Questo aneddoto – trasmesso alcuni anni fa da Radio Nardò Uno, e ora riproposto ai lettori de “Il filo di Aracne” – non è un racconto immaginario partorito dalla fervida fantasia di un buontempone, ma un avvenimento realmente accaduto nelle campagne neritine all’inizio dello scorso secolo.

Vi era un giovane contadino, che, sobbarcandosi a enormi sacrifici quotidiani, era riuscito a impiantare un orto nel suo piccolo podere. L’uomo, infatti, dopo aver scapulatu” da altri fondi, cioè dopo aver compiuto una faticosa giornata di lavoro presso terzi, soleva recarsi ogni giorno presso il suo appezzamento di terra. Senza neanche passare da casa a consumare un frugale piatto di legumi, il buon contadino preferiva prendersi cura delle proprie piantine, sarchiarle, annaffiarle, concimarle con del buon letame almeno una volta al mese e farle crescere rigogliose e sane, come se stesse allevando un proprio figliolo.

Ogni giorno la stessa canzone, ogni giorno lavorava per oltre tredici-quattordici ore. Una vita dura, la sua, un’esistenza da povero diavolo!

D’altra parte, che cosa non si fa per la propria famiglia?

Ma una vita così stressante non poteva certamente durare a lungo. Infatti, il bravo contadino, tutto casa e lavoro, ben presto si ammalò gravemente. Il verdetto non poteva che essere infausto: broncopolmonite cronica, giunta ormai all’ultimo stadio! La malattia era stata contratta quasi sicuramente nel suo podere durante le ore di lavoro straordinario. Il poveretto morì in capo a una settimana tra tanto dolore e disperazione della giovane sposa, che portava nel ventre il frutto del loro amore. La donna rimase vedova e sola, senza l’aiuto di parenti (non ne aveva), con quella creatura che stava per nascere e che sarebbe rimasta orfana per tutta la vita, con quel podere abbandonato, con lo spettro della miseria e della solitudine eterna.

Era terribile al solo pensare: una tragedia del genere non poteva finire così. E non finì così, perché ci fu un altro giovane, anch’egli contadino, che, sebbene non avesse mai osato dichiararsi a una donna per via della sua innata timidezza, decise, tra molti tentennamenti e perché spinto da un parente che gli prospettava l’imperdibile occasione, di fare il difficile passo. La donna, pur tra tanto rossore e vergogna, accettò la proposta, giacché il dichiarante era per davvero un bell’uomo.

E si nsurara (si sposarono) subito, anche perché a quei tempi, a differenza di quelli attuali, non era necessario attendere che trascorressero i trecento giorni di lutto vedovile. Il matrimonio si poteva contrarre immediatamente con la sola condizione che, qualora entro i predetti trecento giorni, fosse nato un bambino, questo doveva considerarsi figlio del defunto.

Nel frattempo l’orto era stato abbandonato a se stesso, le erbacce lo stavano infestando, le pianticelle stentavano a crescere. Un provvidenziale acquazzone, seguito da un caldo rigenerante, fece rinvigorire meravigliosamente l’orto, tanto che i due sposi previdero un raccolto eccezionale. Quando, poi, i pomodori, le zucche, le melanzane, i peperoni e le angurie iniziarono a ingrossare e a suscitare la meraviglia dei vicini e dei passanti, i due sposi decisero di non limitarsi a sporadiche visite di controllo, ma di stabilirsi definitivamente nel campo, al fine di evitare eventuali furti.

Il giovane sposo, allora, realizzò, nel punto centrale del podere, una pagghiara (un pagliaio), dalla quale si poteva controllare l’intera zona.

In quel piccolo ambiente i due coniugi vissero giorno e notte per tutta l’estate, senza mai abbandonarlo un solo istante per non vanificare ogni attesa. Nella pagghiara i due avevano fissato la propria dimora, confortati soltanto dai servizi necessari alla famiglia: due conci di tufo su cui appoggiare la pignata o la firsòra, sotto alla quale si accendevano dei rami secchi per cuocere i cibi, una fossa rudimentale ove compiere i bisogni più intimi, la menza e lu “mbile (recipienti) per conservare l’acqua, una bottiglia di vino, una di olio, una sacchetta appesa quanto più in alto possibile, dentro cui era custodito il pane, lontano da mosche, lucertole e formiche.

Nel piccolo podere, lavorando duramente per diverse ore al giorno, sotto i raggi martellanti e implacabili del sole estivo, i due vivevano una vita meravigliosa fatta di sudore e di tanto amore.

E intanto le piante crescevano e mettevano in mostra i frutti della loro breve esistenza. Troppi occhi estranei, però, ogni giorno puntavano sempre più vogliosamente lo sguardo verso quelle succulente e invitanti leccornie.

Ci fu chi organizzò con inganno un furto a regola d’arte.

Una notte, mentre i due coniugi dormivano profondamente nella pagghiara, alcuni ladri scesero da due traini e, dopo aver superato il piccolo steccato, s’intrufolarono furtivamente nel podere. Uno di questi raccolse una grossa zucca e con un coltello la svuotò dei semi e della polpa; poi intagliò gli occhi, il naso e la bocca con la perizia del provetto artigiano. Accese una grossa candela e la inserì nell’interno, simulando il volto di una strega o di un fantasma. L’uomo cominciò a dondolarla fra le mani e a emettere con la bocca strani suoni, mentre intanto si dirigeva lentamente, seguito dagli altri ladri, verso la capanna. Dopo qualche minuto i due coniugi avvertirono una voce cavernicola che sembrava giungere dall’oltretomba. Preoccupati, si vestirono in tutta fretta, si affacciarono all’esterno della pagghiara e, sorpresa delle sorprese, videro una testa illuminata ondeggiare lentamente e sempre più avvicinarsi alla capanna. Quando ormai era giunta a pochi metri da loro, ai due sembrò certo che si trattasse di un teschio umano illuminato dall’interno. I coniugi rimasero senza parole per qualche attimo; non sapevano cosa fare, anche perché pietrificati da quell’immagine terrificante. Tutto a un tratto la la capu ti muertu (la testa di morto) smise di ondeggiare e di lanciare suoni lugubri e iniziò a parlare, mantenendo alla voce un tono cupo e profondo.

“Io so’ lu pathrunu ti l’uertu

no’ mi l’àggiu cututu de vivu

mo’ ‘ògghiu mi lu cotu de muertu!”[1]

Quella voce lugubre non poteva che appartenere al primo marito, il quale era venuto a vendicarsi con i due: con la moglie, che aveva osato tradirlo subito dopo la sua morte, e contro chi gli aveva usurpato il posto accanto alla sua ex-donna, appropriandosi del raccolto, frutto dei suoi sacrifici. Quindi, non c’era alcun dubbio: quella capu ti muertu apparteneva al fantasma del primo marito e quella era la sua voce, che intimava perentoriamente ai due fedifraghi di allontanarsi da quel posto.

Marito e moglie si guardarono terrorizzati per alcuni istanti negli occhi e, senza proferire parola alcuna, se la diedero a gambe levate, maledicendo l’uertu e cinca l’era chiantatu (l’orto e chi lo aveva piantato).

Mentre i due lasciavano precipitosamente il podere, i ladri continuavano a ripetere il ritornello con voce sempre più alta e profonda.

Una volta al sicuro, i marioli fecero man bassa di tutto quel ben di Dio, caricandolo sui traini.

Sulla via del ritorno, ormai contenti per il colpo riuscito, uno di loro si mise a cantare.

“Io no’ so’ lu pathrunu muertu

ma so’ queddhru ca si mangia l’uertu!”[2]

[1] Io so’ lu pathrunu… – “Io sono il proprietario del podere / non me lo sono goduto da vivo / voglio godermelo da morto”.

[2] “Io no’ so’ lu pathrunu… – “Io non sono il proprietario morto / ma son quello che si mangia l’orto”.