Li fae ti Caitanu Marzu

LI FAE TI CAITANU MARZU

di Emilio Rubino

La “storiella” narra la vicenda di Caitano Marzu, un semplice contadino, della Nardò di un tempo ormai remoto, titolare di un piccolo podere situato sulla via per l’Avetrana che, ogni mattina, alle prime luci dell’alba era solito raggiungere scazzatu, a piedi nudi per essere precisi.

Zappa da 7 chili in spalla, una piccola bisaccia di tela a tracolla contenente una frugale colazione costituita da qualche fetta di pane mpruscinutu, qualche pomodoro ti pendalora o, a volte, qualche stuezzu ti scorza ti casu, per companatico, Caitano, di buon passo, raggiungeva la sua destinazione.

Arrivato al podere, dopo circa un’oretta di marcia sostenuta, Caitanu, com’era logico fare avendo egli superato abbondantemente gli “anta”, era solito riposare qualche decina di minuti seduto su un masso situato accanto all’unico albero di fichi del fondo; un masso enorme e pesante che nemmeno l’omerico ciclope Polifemo sarebbe riuscito a sollevare e spostare e da dove poteva dominare con lo sguardo l’intero appezzamento.

Da lassù, il nostro Caitano, sceglieva il punto da dove cominciare a dar di zappa per dissodare il terreno. A quei tempi la meccanizzazione dell’agricoltura non era nemmeno concepibile dalla fervida immaginazione di Jules Verne e non essendo stato ancora inventato nemmeno il trattore, tutto doveva essere fatto a braccia. Caitano non possedeva nemmeno un aratro di legno e anche se l’avesse avuto non avrebbe potuto usarlo perché il suo impiego prevede il possesso di un cavallo o un bue che lui naturalmente non aveva né avrebbe potuto permettersi. Inoltre, essendo il podere disseminato da cuezzi di roccia affioranti e una trentina di centimetri, in altezza, di terra coltivabile, il sogno del nostro contadino di piantare alberi o vigne era veramente irrealizzabile.

Comunque, il bravo Caitano, lavorando instancabilmente di zappa, di piccone e paletto di ferro, era riuscito a ricavare tanto di quel pietrame da consentirgli di recingere i confini della proprietà con un muro a secco di adeguata altezza.

Di quel muro, realizzato con le proprie mani, Caitano era orgoglioso e compiaciuto, sentiva che il suo fondo era diventato “impenetrabile”, protetto da presenze indesiderate, sguardi indiscreti e indagatori, per cui, quando era lontano, riteneva di poter dormire tranquillo ritenendo che il fondo era al sicuro da ogni “infiltrazione”.

Ma così non era. Infatti, là dove lo spessore di terra lo consentiva, Caitanu aveva interrato delle piante di unguli (fave) e fu per lui grande gioia e soddisfazione osservare i primi germogli, crescere le prime verdi piantine, spuntare i primi teneri baccelli e già pregustava il sapore delle fave mangiate accompagnate con qualche muzzicata di formaggio pecorino.

Il susseguirsi di belle giornate di sole, dopo le abbondanti piog- ge primaverili, diedero un rapido impulso alla naturale maturazione delle piantine e quando giunse il momento giusto Caitanu provvide a svellere tutte le piante e in un angolo del fondo, ben protetto dalle intemperie, le sistemò a ruesciu (in cerchio) con le radici all’insù per farle essiccare meglio e più rapidamente.

Nonostante il muro di cinta costruito con tanta pazienza e fatica dal laborioso Caitanu, avvenne che un povero disgraziato morto di fame adocchiò quel bel mucchio di fave messe a maturare e, servendosi di una funicella, ne legò un sostanzioso fascio e lo portò via indisturbato.

Il ladruncolo, vista la facilità con cui si era procurato il bottino, ritornò sul luogo anche il giorno successivo e si procurò un altro bel fascio di piantine.

Il nostro Caitanu, quando andò a controllare lo stato di maturazione del raccolto, rimase esterrefatto nel constatare che degli estranei avevano violato la sua proprietà asportando una parte abbondante delle fave, ma intuì che il malfattore non si sarebbe accontentato e che sicuramente sarebbe tornato per trafugare il resto.

Decise quindi di nascondersi dietro il masso accanto all’albero di fico ed aspettare lo sconosciuto ladruncolo.

Costui arrivò puntualmente, legò un altro bel fascio e cominciò a canticchiare:

 

Oh, Diu ruesciu

so’ bbinutu cu tti esciu,

so’ bbinutu cu lu ruagnu

cu ndi caricu quantu tandu

e, terminando la legatura del malloppo, continuò con la sua giaculatoria con un generoso augurio:

 

Ah, fae fazza

centu tumini cu ndi fazza!

 

Caitanu rimase sbalordito, ma fu felice e commosso per l’augurio fattogli dallo sconosciuto ladruncolo e sperando che l’anno successivo avrebbe potuto veramente raccogliere oltre 4 quintali di fave (un “tuminu” pesa infatti 41 chilogrammi) lasciò che il ladro portasse a termine la sua malefatta e ritornato a casa raccontò tutto alla moglie che rimase .

Il giorno dopo la scena si ripetè e anche stavolta il ladruncolo fece la medesima invocazione, ma non fece parola dell’augurio dei 100 tumini di fave, per cui Caitanu, indispettito, uscì dal suo nascondiglio, agguantò per il collo della camicia il povero sconosciuto, e disse: anche lei contenta del furto subito e dell’augurio pregustando una provvista per tutto l’anno

 

Iò so Caitanu Marzu,

e mo viti comu ti caricu

sta capu ti cazzu!

… e furono mazzate.