Modi di dire e…

Modi di dire

e vecchie Storielle

di Piero Tre


 

  • “Sciucamu a ppathrone?”. “Giochiamo a Passatella?” Era un gioco caratteristico delle locande, osterie e del retrobottega di alcuni bar. Si giocava utilizzando le carte napoletane. Generalmente i giocatori erano numerosi, almeno sette-otto. La posta in palio non era il denaro, bensì vino o birra, servito/a secondo quanti erano i partecipanti al gioco. Ogni giocatore partecipava versando l’equivalente del costo di una birra o di un quarto di vino. In seguito Il mazziere distribuiva quattro carte per giocatore. Per vincere il giocatore doveva realizzare “Primera”, nel senso che le quattro carte rappresentavano semi diversi. Se ci fossero due o più primere, vinceva colui che aveva realizzato il valore più alto. Il valore era determinato assegnando i seguenti punti: il sette valeva 21 punti, il sei 18, l’asso 16, il cinque 15, il quattro 14, il tre 13, il due 12, ogni figura 10.

              Una volta stabilito il vincitore iniziativa la seconda parte della ‘passatella’. Il vincitore era chiamato “Padrone”, il quale nominava il suo vice, cioè il “Sotto Padrone”. Erano i due che alternativamente comandavano il gioco. Tra di loro si stabilivano altri sotto-poteri: la cosiddetta “Villeggiatura”, la “Spìngula”, i “Tacchi” e, a volte, la cosiddetta “Fèmmana Prena” (Donna gravida).

             L’oste o il barista metteva sul tavolo (abbastanza lungo in modo da contenere comodamente i giocatori) le bottiglie di birra o i boccali di vino e i relativi bicchieri.

             A questo punto iniziava la parte più importante del gioco. Iniziava il Padrone che invitava il suo vice a bere un bicchiere di vino o di birra. Scolato il contenuto, i due si scambiavano le parti. In pratica era il ‘Sotto Padrone’ a invitare il ‘Padrone’ a bere il suo bicchiere. Questa prima parte del gioco era quasi sempre fissa, almeno nelle prime “Passatelle”. Finita questa fase si procedeva alle varie “onoranze”. Il “Padrone” riempiva un bicchiere di vino o di birra e l’offriva a uno dei giocatori. Se il “Sotto padrone” era d’accordo, il bicchiere passava al giocatore nominato, il quale beveva solo se erano d’accordo le altre figure della Passatella, in ordine d’importanza la “Villeggiatura” e la “Spìngula”. Se nessuna delle due figure si opponeva, l’onorato aveva facoltà di bere. Però doveva bere in fretta, altrimenti sarebbe potuta intervenire la “Fèmmana Prena”. A volte succedeva che quest’ultima figura lasciava bere il giocatore onorato, ma solo per metà bicchiere, per poi dire: “Sta mme ndora” (mi sta odorando). In tal caso la seconda metà del bicchiere doveva essere ceduto alla “Fèmmana”. L’ultima figura, rappresentava dai “Tacchi” interveniva solo quando uno qualsiasi dei giocatori, per rifiatare, staccava le labbra dal bicchiere. A quel punto il “Tacchi” interveniva alzando il braccio, chiedendo il bicchiere e dicendo “Tacchiii!”.

             Il gioco procedeva alternando le onoranze a un “sciamu e bbenimu, cumpare!” (andiamo e troniamo, compare!) tra il Padrone e il Sotto padrone, ma badando a stare attenti a non staccare le labbra dal bicchiere per non incorrere nell’intervento del “Tacchi!”.

             Spesso accadeva che durante le onoranze, s’intromettesse la “Villeggiatura” e, se questa non fosse intervenuta, la “Spìngula”.

             A volte il Padrone e il Sotto Padrone stabilivano, prima che iniziassero le varie bevute, la regola che la “fèmmana prena” non avesse diritto di ‘odorare’ i due. Se ciò non fosse stato stabilito, le due ‘padronanze’ correvano il rischio di rimanere “all’urmu”, cioè “a bocca asciutta”, specialmente se, in giocate precedenti di Passatella le due padronanze avessero lasciato deliberatamente la “fèmmana prena”.

             Di giocate si facevano sette-otto e anche più, sino a quando alcuni giocatori, ormai sbronzi e pieni di fiumi di birra o di vino, si ritiravano per mancanza di… spazio intestinale o, soprattutto, perché accusavano nausea a bere un solo goccio.

 

  • Quandu chiove fiche e ppàssule.

          (Quando piove fichi e uva passa) – Anche questo modo di dire è fantastico, frutto di una sagezza infinita. Lo si diceva per far capire al diretto interessato che quell’evento, nel quale ci sperava tanto, era del tutto impossibile che si verificasse.

Fuochi d’artificio

  • Para la festa ma nu spara li fochi. (Addobba la festa, ma non spara i fuochi d’artificio).

             Come dire che, dopo aver lavorato tanto oppure dopo aver compiuto una grossa impresa, non partecipa agli onori che gli sarebbero tributati. Generalmente si comportano in tal modo le persone che non amano trovarsi al centro dell’attenzione pubblica.

  • Spara li fochi senza cu aggia paratu la festa. Viceversa (Spara i fuochi d’artificio facendo credere di aver compiuto qualcosa di eccezionale e senza però aver fatto nulla di eccezionale o, al limite, per aver fatto qualcosa di molto modesto).

Questo modo di dire è di attualità nei giorni nostri. 

Ih…ih!

   5)      Ah!… Ah!… Ah! – Era il comando che il carrettiere dava al cavallo per muoversi in avanti.

 

   6)      Ih!… Ih!… Ih! – Era il comando che il carrettiere dava al cavallo per arrestarsi.

             Questi due termini non hanno un etimo certo. Nell’addomesticamento dei puledri si insisteva nel dare il primo comando per far procedere il cavallo in avanti, mentre il secondo per farlo arrestare. Molto probabilmente bisognava perseverare molto, prima che l’animale capisse ed eseguisse gli ordini a lui impartiti.

   

    7)     Ardià!… Ardià! –  Meglio “Arrià… Arrià. Era il comando che il carrettiere dava al cavallo per farlo indietreggiare. Questo strano modo di comunicare con il proprio cavallo ha una derivazione spagnola. Infatti il verbo arriar significa “Indietreggiare”. Anche questo termine proviene da molto lontano, sin dalla dominazione spagnola del Meridione d’Italia.

 

8)         “Comu la faci, la sbaji “.

             “In qualsiasi modo ci si comporta, si sbaglia sempre”.

     Il proverbio sta ad indicare che, a volte, pur comportandosi in diversi modi, si è sempre criticati o derisi.

     Si racconta che un commerciante tunisino soleva recarsi ogni sabato dal suo villaggio al paese più vicino per fare degli acquisti. Gli facevano compagnia la moglie, il figlio di dodici anni e un cammello. La strada era alquanto lunga e accidentata.

Cammello

     Per non affaticare troppo l’animale, dal momento che al ritorno lo si doveva caricare di merci, i tre decisero di non montarlo.

     Dopo un centinaio di metri incontrarono un gruppo di uomini che ebbero a ridacchiare nel vedere i tre a piedi e il cammello senza alcun peso addosso.

     “Guarda un po’ quei tre…” – esclamò uno di loro – “… Sono proprio dei cretini… Pur avendo un cammello a disposizione, nessuno lo sta montando”. E ridevano a crepapelle.

     Allora il padre, avendo udito ogni cosa, pensò bene di far montare il figliolo in groppa all’animale.

     “In questo modo non rischiamo più di essere derisi…” – disse tranquillo il marito alla moglie.

     Dopo mezzo chilometro incontrarono un altro gruppo di persone, che iniziarono a lanciare contumelie nei confronti del figliolo.

     “Ma guarda un po’ quello screanzato di figlio!…” – proruppe uno, alquanto indignato – “… Il padre e la madre a piedi, mentre lui se ne sta bello e comodo in sella!”.

    “Forse ha ragione quel Tizio a contestarci…” – replicò il marito, rivolgendosi alla moglie – “… Sarebbe più opportuno che fossi tu a salire sul cammello”. La moglie acconsentì.

  Duecento metri più avanti i tre incontrarono altre persone, una delle quali, vedendo la donna in groppa al cammello, ebbe a criticarla.

   “E sì, le donne sono sempre quelle più avvantaggiate…” – dichiarò quello con rabbia – “…Pa- dre e figlio a camminare a piedi sotto il sole cocente e lei se la gode stando in groppa al cammello!”.

             “Forse ha ragione quel Caio a rimproverarti. Perciò cedimi il posto, in quanto sono il più anziano. Così facendo nessuno può sollevare alcuna obiezione”.

             Così fu fatto. Andando più avanti i tre incontrarono un ulteriore gruppo di persone, le quali, iniziarono ad inveire contro il marito per aver lasciato a piedi la moglie e il figlio.

             “Che uomo ingrato quello lì!…” – gli si scagliò contro uno del gruppo – “… Lui sta comodamente sul cammello, mentre quelle povere creature faticano tanto a camminare!”.

             Il marito non sapeva più a quale santo rivolgersi. Per stare tranquillo e non subire più invettive, fece salire sul cammello anche la moglie e il figlio.

             La povera bestia, però, sbuffava, faticava e ansimava a portare quei tre sulle spalle.

            “Ora nessuno potrà più dirci nulla!” – sentenziò l’uomo.

            Ma non avevano ancora fatto i conti con l’oste.

            Stavano per entrare in città, quando incontrarono un ulteriore gruppo di persone, le quali all’unisono bacchettarono i tre.

             “Guarda un po’ quei tre farabutti stanno massacrando quel povero cammello!… Povero animale quanta fatica!”.

             Morale della favola: “Comu la faci, la sbaji!!!”.