DONATO DISO TRA SACRALITÀ E CROMATISMO

di Giorgio Pannunzio

È storicamente un dato definito che l’acclimatarsi dei pittori nel loro “milieu” culturale (o trans-culturale, ché le opere di Donato Diso acquistano valore intrinseco solo se viste in una dinamica interpretativa internazionale) deriva da una decisione autonoma: se la ricerca delle “nuances” e delle tonalità armoniche trova pur qualche indefinito limite, ecco che l’artista – forte di una sua radice folklorica e di un suo ordinamento personale – ricerca nell’indefinito succedersi delle ere (e delle fasi vitali) la sua più profonda ragion d’essere. Intendiamoci: un discorso del genere, nel caso delle opere del Diso, non può esser sganciato dalla robusta matrice religiosa che le anima. Certo, la pittura di Donato Diso trova la sua peculiare vitalità in un assenza di figurativismo espressivo, ricercando in una sorta di “primordialismo classico” – e non ce ne vogliano gli estimatori di Capogrossi e Melli – la sua dimensione più compiuta. La vena poliforme di Diso, pur in assenza di una diretta contaminazione con la luminosità, coinvolge sia il tessuto semantico del cromatismo (anche attraverso l’uso di atmosfere indiziarie rimontanti a Chagall), sia l’intensità del sentimento metafisico. L’accavallarsi di forme rotondeggianti sembra quasi voler richiamare una sostanziale partenogenesi del vissuto, dove la vita è colta nel suo svolgersi, dalla naturalità del nascere fino alla dimensione funebre e terminale che l’esistenza assume nel suo esplicitarsi. Il dolore, l’amore, la morte: ecco alcune tematiche facilmente intuibili nell’impasto creativo del Diso pittore. Casolari desolati che sembrano tratti da una Demolizione del Mafai si intersecano con precisi elementi neo-testamentari; dissolti in un’esplosione di colore, i volti si mescolano tra loro a rappresentare lo scorrere delle stagioni e l’instancabile lavorio operatoda tempo sugli esseri umani.

È evidente che la pittura di Donato Diso non rappresenta fedelmente e oggettivamente la realtà, e non perché l’artista rifiuti il reale in nome di immaginarie fughe in una fantasia indefinita e inconoscibile; qui, invece, siamo messi di fronte a una percezione modificata dell’oggetto che si configura come una evoluzione personalistica della realtà medesima, anche in nome di un complesso sistema di rimandi e di acculturazioni localistiche affatto banali. La visione prospettica è qui mancante, eccezion fatta per quelle situazioni narrative in cui vi è una partecipazione affettiva forte (si veda in proposito la già citata Crocifissione).

 

Né si mostra assente il sostrato materico, sempre in un’ottica che potremmo collocare tra il gusto del “collage” e la puntuale, e puntigliosa, artificiosità delle figure mosaicate. In questa fase, l’intervento geometrico (le summenzionate curve e i cerchi, i quadrati e i rettangoli) parrebbero rimontare a certe esperienze del suprematismo russo;a tal proposito verrebbero in mente Malevič e Lissitzky, se non fosse che il gusto verso l’artificio grafico fine a se stesso in Donato Diso è del tutto assente. Semmai, si riscontra un’attenzione verso l’arte informale, laddove passioni, tensioni e disagi sono espressi nell’arte dell’autore salentino nel modo più libero, nell’accezione più spontanea e drastica possibile, al di fuori di qualsiasi schema precostituito e contro ogni regola normalmente accettata. Sottovoce, con il mormorio di chi ha un enorme rispetto per l’artista, si sarebbe tentati di dire: Mirò? L’aggressività gratuita di questa congettura è resa meno improponibile dalle intersecazioni che le figure e le tonalità assumono in un contesto progressivo, in quella che si potrebbe definire una catena emozionale costruita attraverso il colore.

Se dunque l’ispirazione ed i sostrati a cui Diso attinge sono molteplici e non facilmente definibili (perché oggettivamente contaminati l’un l’altro in una sapiente costruzione polimorfica), è comunque possibile integrare l’interpretazione dei contenuti che l’artista veicola ai suoi fruitori attraverso una verticale e intensiva meditazione sulle sue opere. Le tele di Diso fanno pensare ai grandi squarci coloristici  di Mario Schifano (altro “deus ex machina” evidente nella pittura del nostro), generando una pittura che è un vero e proprio “laboratorio umano”, nel senso che tutti i palpiti e le tensioni dell’umanità vi vengono descritti con mano ferma e con icastico senso delle proporzioni, a voler quasi intuire un senso nascosto che ogni cosa possiede al suo interno, come connotazione misterica e magica che non può più essere elusa in una disamina complessiva della realtà.

Non può essere revocata in dubbio un’impressione radicale, cioè che la pittura di Donato Diso sboccia e cresce – appunto – nel vasto territorio dell’emozionalità, magari nascosta sotto un velame solenne e partecipativo che in altri non si reperisce: l’incontro scontro con la materia, che in Diso è quasi come una battaglia sotterranea e fisicamente probante, si mostra soprattutto in quelle atmosfere di rigoglio metafisico, un “oltre” che non è opposto ai vissuti di cui ogni uomo si nutre, ma sorge come elemento unificatore, capace di unire in un solo, tormentoso ganglio l’umano e il divino. La pittura di Diso attraversa sentieri nascosti, in cui il ricordo del passato si congiunge alla tessitura vitale che da quel ricordo è generata, in modo da formare un’indispensabile e composita struttura narrativa che si dissolve e si rimargina un istante prima di codificarsi come messaggio davanti ai nostri occhi. Diso, grazie al suo talento visionario e all’amore per le tinte forti e definite, ci notifica un mondo pieno di fede, con una sicurezza interiore che, pur non rifiutando o peggio abolendo il male che dimora nel mondo, riqualifica la “conditionhumaine” attraverso una visione solidaristica e concettualmente vicina all’ontologia del cristianesimo più vivo.

La pittura di Diso dunque, nel suo dimensionarsi cristiano, rappresenta una catechesi universale, o almeno universalmente accettata, come unico territorio per dir così teologico su cui costruire le basi di un futuro a noi – per ora – del tutto ignoto (e si veda l’uso di certe atmosfere che si potrebbero definire quasi timbriche e che sono facilmente reperibili nell’operazione di dissoluzione dei confini della realtà operata dall’artista); l’arte, sembra dirci Donato, deve oltrepassare gli angusti confini del nostro mondo, deve trascendere non solo la materialità, ma financo il nostro stesso considerarci come unica controparte del dialogo divino. In ciò, lo sforzo di Donato Diso (encomiabile per dedizione ed acutezza) ci sembra sia quello di ricondurre a radici umanamente com- prensibili un destino di ricettività universale.

Un discorso analogo, ma opposto, va fatto sul Diso scultore. Qui i suoi crocifissi, veri e propri simboli del calvario a cui tutti gli esseri umani, almeno una volta nella vita, sono costretti a sottostare, nascondono la necessità di preconizzare uomini di ferro per tempi di ferro, come se la forza di sopportazione che in ogni individuo scaturisce dall’accettare le controverse vicende dell’esistenza dovesse ancor più sostanziarsi attraverso una totale alleanza con il sacro. Intendiamoci: la morte, intesa come cumulo di sofferenze dopo una vita sovente torturata e trascorsa nella vana attesa d’una gioia mondana, non viene elusa dal Diso; le sue fusioni hanno la solidità e la saldezza di chi ha messo a dura prova il valore orgiastico della realtà, defilandosene in nome di principi e valori che si rifanno a una legge più alta e fatale. Le crocifissioni in ferro battuto (accanto ad altre e diverse creazioni, ma vogliamo soffermarci soprattutto sulle prime) hanno una tradizione forte nel Salento. Il recente lavoro di scavo critico operato dal Lezzi, dal Fumarola e dal Paticchio ha messo in evidenza quali siano le radici iconiche a cui i nostri forgiatori si rifanno, e dunque non è questa la sede per riproporre strade già percorse. Ciò che si vuol mettere in evidenza qui è la forza di carattere che emerge nelle creazioni disiane, come se l’artista avesse voluto tentare di rappresentare, assieme alla sofferenza del Nazareno, anche la propria anima, dolente e forte.

Tra le creazioni artistiche, quelle afferenti alla sfera sfera religiosa risultano possedere una valenza tipica, perché cercano di esprimere visivamente il legame che esiste tra uomo e Dio. Negl iultimi anni è stato finalmente cancellato un diffuso pregiudizio inerente l’arte sacra (e quella in ferro battuto in particolare), pregiudizio che rimonta alla sua facile commerciabilità e che tuttavia non tiene conto del valore salvifico che tali icone di fede rappresentano  per coloro che vogliono trovare anche nella dimensione artistica un compatto riferimento spirituale. L’arte fusoria del Diso trova proprio in questa ricerca della misticità una sua precipua importanza; i Cristi di Diso si caratterizzano per la quasi totale mancanza della croce, intesa essa come elemento che dal legno vien tradotto nel nudo metallo;la croce è assente, spesso, quasi che l’oggetto soteriologico portato dal Salvatore sul Golgota non fosse bastevole, di per se stesso, a rappresentarne le sofferenze e l’afflizione.

L’arte di Donato Diso non può evitare di rappresentare ed esprimere il sacro in quella che per il fedele – parafrasando Rudolf Otto – è la sua accezione più oltraggiosa (la morte del Redentore); nel cuore dell’artista abita un riflesso d’alterità, una presenza favolosa e inafferrabile, e assai ardua da ridurre a tema, che è rappresentata dall’oscuromistero insito in ogni uomo. Donato Diso è in grado di trasporre, attraverso l’energica vitalità del ferro, un “élanvital” che ci parla di un sentimento cosmicamente assoluto, trascendente.Varrà la pena ricordare qui, a livello meramente storiografico, che il tema del Crocifisso era presumibilmente presente nell’iconografia già nel I secolo d.C., come dimostrerebbe la presenza dell’impronta di una croce in una casa degli scavi di Ercolano, ed un’altra, andata distrutta, su un edificio di Pompei. Soppressa da Teodosio il Grande, la pena della croce, il Concilio di Costantinopoli, nel 696, ordinò di rappresentare il Cristo nella sua umanità sofferente. Si ebbero da allora due tipologie di rappresentazioni: il Christustriumphans ed il ChristusPatiens, il secondo dei quali, ovviamente, è prediletto dall’artista nostro. A tal proposito, ci piace ricordare un’immagine, quella di un Gesù che – a differenza delle crocifissioni classiche, che presentano una scena statica, monoscopica, e dunque non sempre di elevata presa – china il volto in avanti (e dunque non alla sua destra, come accade normalmente; né alla sua sinistra, come in altri casi più rari, e si citerà il famoso Crocifisso cinquecentesco di Taddeo Curradi): l’uomo ha qui quasi il sopravvento sul dio, in una finale accettazione del suo destino che si inscrive in un ambito trinitario dove la croce è rappresentata simbolicamente da un triangolo isoscele rovesciato.

Va però ribadito che anche in queste sue composizioni in ferro è presente, talvolta, il richiamo alla natura e agli antichi mestieri, con la presenza di aratri (verrebbe da dire, modificati geneticamente in nome di una resa alla modernità) o di telai, che vogliono quasi rappresentare – anche qui – la tensione verso un’esistenza che è vista come un continuo intessersi e intrecciarsi di altre vite e altre voci, in un contrappunto di attivismo che si potrebbe definire poderoso come lo stesso metallo, se non fosse per l’immobilismo, e dunque il tramonto, della prospettiva vitale che essi pur rappresentano.

A voler dare un’interpretazione conclusiva, si può certamente dire che le creazioni artistiche di Donato Diso si muovono (prendendo a prestito una terminologia cara ad Aby Warburg) all’interno di coordinate cronotopiche e concettuali di largo respiro, dove la memoria del passato e l’impulso metafisico e religioso si con-fondono e si contaminano attra-verso una metamorfosi che ha, come stadio finale, la ricerca dei valori umani. Ed è bene sottoli-nearlo ancora una volta: in un’ottica trasversale e contrad-dittoria come quella in cui si muove l’arte di oggi – dove l’illusorietà e il vacuo narcisismo di tanti pittori e scultori portano a rimpiangere tempi più antichi e più autorevoli –ciò ha un’importanza senz’altro superiore ad ogni altra.