Non dimenticate, ragazzi, non dimenticate!

FORCA E GHIGLIOTTINA

Dopo la caduta della Repubblica Napoletana del 1799, sono in molti i repubblicani giustiziati dai Borbone. Tra costoro vanno ricordati alcuni eroici personaggi salentini

di Mauro De Sica

Ad eccezione degli storici e di qualche appassionato di vicende meridionali, sono in poche le persone che conoscono i tragici fatti legati alla caduta della Repubblica Napoletana del 1799, che durò poco meno di sei mesi.

Pertanto, prima di entrare nel vivo della trattazione, è necessario fare un po’ di chiarezza al fine di presentare bene la situazione storica e non ingenerare confusione e fraintendimenti nel lettore.

Sull’onda della Guerra d’Indipendenza Americana (1775-83) e della Rivoluzione Francese (1789) nasce spontaneamente in tutto il continente europeo un movimento di idee liberali e repubblicane, che sconvolgono non poco la vita sonnacchiosa in cui sono immersi i vari Stati. I sovrani intervengono reprimendo ovunque focolai d’insurrezione.

Tra il 1796 e il 1799 le truppe francesi dilagano in gran parte dell’Italia e riportano importanti successi; nel nord proclamano la loro indipendenza la Repubblica Ligure e quella Cisalpina, mentre al centro la Repubblica Romana e, in seguito, quella Tiberina e Anconitana. Lungo l’intero stivale, i repubblicani rumoreggiano, raddoppiano le loro forze eversive e puntano al rovesciamento dei sovrani.

Nel Regno delle Due Sicilie ben presto filtra il pensiero giacobino e si afferma soprattutto nelle fasce medie della popolazione, costituita da intellettuali, artigiani, commercianti, uomini di media cultura, mentre il popolino, ignorante e facilmente influenzabile, rimane in disparte e continua a subire passivamente le prevaricazioni della classe dominante. Questa discrasia tra i due strati della popolazione sarà importante e comporterà, in seguito, il fallimento della Repubblica Napoletana.

Si costituiscono due sette segrete: la prima è chiamata Lomo (Libertà o Morte), la seconda Romo (Repubblica o Morte). Entrambe creano non pochi problemi alla gendarmeria borbonica, che fa fatica a contenerle.

Sul finire del 1798, il Regno delle Due Sicilie entra in guerra contro i francesi e trova negli inglesi, guidati dall’ammiraglio Horatio Nelson, validi alleati. L’obiettivo è di rovesciare la Repubblica Romana e riportare papa Pio VI sul soglio di Pietro. Forte di un esercito di 70.000 uomini, i Borbone entrano a Roma e ristabiliscono l’ordine, senza incontrare eccessive resistenze. La loro è però una vittoria effimera, poiché dopo pochi giorni i francesi si riorganizzano e ricacciano i Borbone, costringendoli ad una precipitosa ritirata. Rientrando a Napoli, re Ferdinando trova un clima ostile e pericoloso, per cui preferisce proseguire per Palermo.

Cacciati i Borbone, il 23 gennaio 1799 è proclamata ufficialmente la Repubblica Napoletana. Nel governo provvisorio troviamo il fasanese Ignazio Ciaia con mansioni di prim’ordine. La Repubblica Napoletana, non essendo stata ottenuta da una totale insurrezione popolare, stenta ad affermarsi e a radicare nella società. Il popolino, infatti, non dà mai il suo completo appoggio, anche perché è continuamente manovrato e ricattato dai vescovi, i prelati e i tanti uomini di chiesa, che ovviamente stanno dalla parte dei Reali deposti. Oltretutto, il cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo organizza nelle campagne della Calabria e della bassa Campania numerose scorrerie per opera della setta dei “Sanfedisti”[1] e di bande di briganti asservitesi alla corona, tra cui quella famigerata di Fra Diavolo. L’intento è di aizzare le masse dei contadini contro i repubblicani e creare una controrivoluzione. L’organizzazione è perfetta e si fa sentire. Con una manovra di accerchiamento, i Borbone costringono i repubblicani a indietreggiare verso Napoli. Inoltre, si dà il caso che le truppe francesi, distaccate a Napoli, siano richiamate da Napoleone Bonaparte in altre zone di guerra, per cui la capitale partenopea rimane indifesa e, quindi, esposta a facili attacchi. Di ciò, ovviamente, approfittano i Borbone e gli inglesi per sferrare un’azione di guerra rapida e risolutiva.

I rivoluzionari napoletani riescono a malapena a contenere i furiosi attacchi dei Realisti, ma, dopo alcuni giorni di strenua difesa, sono costretti ad asserragliarsi nel castello di Sant’Elmo e lì morire da uomini liberi.

Il cardinale Ruffo, essendo un uomo di chiesa e non volendo spargere ulteriore sangue, offre loro una resa onorevole, promettendo un salvacondotto per l’estero a ciascuno degli assediati. I rivoluzionari accettano la proposta, sicuri che il cardinale onorerà l’impegno assunto, e quindi si arrendono, deponendo le armi e aprendo le porte del castello. Horatio Nelson, che è un acerrimo nemico dei giacobini e dei loro sostenitori, propone con insistenza a re Ferdinando di revocare la promessa del cardinale. Il re, in un primo momento, non accetta per non contrariare l’alto ecclesiastico, anche perché gli ha conferito massimi poteri. Poi, su istigazione della moglie Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, la cui sorella Maria Antonietta era stata ghigliottinata qualche anno prima a Parigi, finisce col cedere alle pressioni e dichiara gli insorti colpevoli di alto tradimento e quindi processati. I rivoluzionari vengono incarcerati, torturati e sottoposti a sommari processi.

Finiscono nelle carceri di mezza Campania ben ottomila repubblicani, dei quali molti saranno liberati ma sottoposti a stretta sorveglianza. Infatti, queste persone sono obbligate a non allontanarsi dal luogo di residenza e periodicamente a presentarsi al comando zonale di gendarmeria.

I personaggi di spicco sono condannati alla pena capitale, per impiccagione o per ghigliottina, in qualche circostanza anche per fucilazione. I nobili e gli alti ufficiali sono ghigliottinati, mentre la gente comune è impiccata e solo alcuni militari fucilati. Con il diverso tipo di esecuzione capitale si vuole dare al nobile o all’alto ufficiale la possibilità di trapassare senza accorgersene.

Nel giro di un anno sono giustiziati ben 124 repubblicani, mentre 222 sono condannati all’ergastolo, 288 alla deportazione, 67 in esilio, 322 a pene minori, 6 graziati.

Le condanne a morte sono eseguite a Procida, nell’attuale Piazza dei Martiri, e a Napoli nella Piazza Mercato, celebre, nella storia partenopea, per le tante esecuzioni capitali.

La gloriosa Repubblica Napoletana, nata il 23 gennaio 1799, cessa ufficialmente di vivere l’8 luglio dello stesso anno: sono trascorsi soltanto cinque mesi e mezzo.

I Borbone regneranno a Napoli sino al 1806. In seguito sarà Gioacchino Murat a governare per quasi dieci anni. Dopo i fatti di Waterloo, i Borbone ritorneranno a Napoli per poi essere definitivamente cacciati, a seguito della famosa (?) spedizione dei Mille.

Tra i giustiziati spiccano i nomi di grandi personaggi dell’epoca come l’ammiraglio Francesco Caracciolo, prima amico e poi acerrimo rivale di Nelson, e, per questa ragione, impiccato (si badi bene non ghigliottinato) all’albero di bompresso della nave inglese Minerva. Il corpo rimane appeso per oltre un giorno e poi gettato in acqua con dei pesi legati ai piedi perché vada a fondo. Il cadavere, strano a dirsi, rimane a galla. La mano pietosa di un prete lo sottrae a quell’ulteriore ludibrio.

Ricordiamo, inoltre, l’esecuzione di altre importanti figure, come quella di Michele Natale, vescovo di Vico Equense; di Raffaele Montemayor, tenente di vascello; quella di Luigi de Cesbron, cavaliere e comandante di fregata; quella di Pasquale Baffi, docente di Letteratura greca all’Università di Napoli, e, su tutti, quella di Raffaele Lossa, un giovane di appena diciott’anni anni.

Non vanno sottaciuti i casi di Luisa Sanfelice de Molina e di Eleonora Fonseca Pimentel. La prima è una nobildonna napoletana, amica dei Reali. È l’ultima repubblicana ad essere giustiziata, perché dichiara di essere incinta, grazie ad alcuni medici compiacenti, che confermano il suo stato interessante. Svelato l’arcano, è ghigliottinata a Napoli, in Piazza Mercato, l’11 settembre 1800, nonostante le continue suppliche di grazia rivolte da numerosi nobili. Gioacchino Toma le dedica una bella pittura, mentre Alessandro Dumas un romanzo.

La seconda, d’origini romane, è direttrice del periodico “Il Monitore napoletano” e viene impiccata il 20 agosto 1799.

Tra i giustiziati ci sono, purtroppo, anche cinque personaggi salentini.

Francesco Antonio ASTORE, nato a Casarano il 28 agosto 1742, dotto in letteratura, retorica e lingua greca, si laurea a Napoli in giurisprudenza. Durante la breve Repubblica Napoletana svolge l’incarico di Giudice di Cassazione e di membro del Comitato di Polizia. Viene giustiziato a Napoli il 30 settembre 1799.

Ignazio CIAIA, nasce a Fasano il 24 ottobre 1762 ed è attratto, sin dall’infanzia, dalla poesia e dagli ideali di giustizia e libertà. Viene chiamato dal generale francese Jean Étienne Championnet quale membro della rappresentanza nazionale nel primo governo provvisorio della Repubblica Napoletana, carica che manterrà per oltre un mese, per poi entrare nella Commissione Esecutiva della Difesa. È giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1799.

Ignazio FALCONIERI, nasce a Monteroni di Lecce il 16 febbraio 1755, sacerdote, è nominato rettore del Seminario di Nola e, in seguito, docente universitario di eloquenza. Il 31 ottobre 1799, dopo aver additato per molti anni ai giovani allievi la via della saggezza e della virtù, dà esempio di fierezza e di coraggio ed affronta la forca inneggiando alla libertà.

Oronzo MASSA, duca di Galugnano, nasce a Lecce il 18 agosto 1760, maggiore di artiglieria, viene fucilato dall’ammiraglio Horatio Nelson a Napoli il 14 agosto 1799;

Antonio SARDELLI, nasce il 18 aprile 1776 a S. Vito de’ Normanni, studioso, viene impiccato a Napoli il 7 dicembre 1799.

Le drammatiche vicende appena narrate non sono state mai studiate dagli studenti, perché non hanno mai fatto parte dei libri storia, se non sommariamente. Ha ben ragione Serena Viva quando afferma, in un suo recente articolo, che ci è stata negata gran parte della nostra storia. Ed io aggiungo che il popolo che non ha una memoria storica è destinato a rimanere ai margini della stessa storia e a subirla, non certamente a scriverla. In questa situazione si è trovato e si trova tuttora il Meridione d’Italia.

Quest’articolo, pertanto, è dedicato esclusivamente alle distratte e fuorviate menti dei giovani d’oggi, perché si fermino a riflettere su quanto sia difficile vivere da uomini liberi e su quanto sia difficile mantenere integra la libertà di cui oggi godiamo e che è stata costruita, nel corso dei secoli, grazie al sacrificio di tanti martiri, subito dimenticati o fatti dimenticare.

Siate vigili e solerti, ragazzi, non trascurate la libertà, difendetela a denti stretti, non rinunciate ad essa, se non volete ritrovarvi a vivere una vita piena di sofferenze, di umiliazioni, di prepotenze, allo stesso modo di come furono costretti a vivere i nostri antichi Padri. Siate gli artefici della vostra vita e non permettete che siano gli altri a decidere per voi.

Non dimenticate, ragazzi, non dimenticate: la Storia, il più delle volte, si ripete!

[1] I “Sanfedisti” sono una forza paramilitare voluta dal cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo, completamente finanziata da re Ferdinando. E’ anche chiamato Esercito della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo. Un’organizzazione del genere fa presa facilmente sulle coscienze dei contadini, i quali l’appoggiano senza battere ciglio, anche perché , rifiutandosi, temono di incappare nella possibile “vendetta eterna di Nostro Signore”.