Giuseppe Castiglione

NESSUNO A GALLIPOLI LO PIANSE

GIUSEPPE CASTIGLIONE

di Augusto Benemeglio

Copertina del libro

1.Nessuno a Gallipoli pianse la morte di Giuseppe Castiglione, avvenuta il 14 luglio 1866, nella sua povera casa sita sul versante di scirocco della “città bella”, alle spalle della cattedrale, dopo lunga e dolorosa (atroce)  malattia, per un cancro alla gola che gli impedì, negli ultimi giorni, non solo di parlare, ma perfino di deglutire: soffriva in modo tale che scrisse su un bigliettino al medico, Emanuele Garza, che ogni tanto lo veniva a visitare: “ Dottore, se lei non mi uccide, commette un delitto”.

Non lo piansero neppure le donne che lo assistettero fino all’esalazione dell’ultimo respiro: la moglie Fortunata Lucia Cingoli, una popolana che aveva sposato segretamente nel 1842 (il matrimonio fu reso pubblico solo quindici anni dopo), e la figlia Ernestina, magra, smunta, misera, sfiorita, già minata dalla tisi, che morirà l’anno dopo, a soli venticinque anni. E forse nemmeno il figlio Emilio Andrea, che se ne era scappato di casa anni prima per arruolarsi volontario nei garibaldini, e morirà a Digione, nel 1870, combattendo per i francesi.

 

2.Non lo piansero nemmeno i parenti nobili, i Briganti (sua nonna Vincenzina era figlia del famoso Tommaso, giureconsulto di statura  europea, che aveva dato lustro a Gallipoli e all’Italia), a partire dal cugino Domenico che, da Sindaco di Gallipoli,  aveva fatto di tutto per farlo uscire dal suo endemico stato di bisogno economico, senza riuscirvi, per assoluto menefreghismo da parte di Castiglione, che si considerava un bohemien, un artista, e voleva vivere come tale, pur avendo moglie e figli da mantenere. Certamente non lo rimpiansero gli altri intellettuali dell’aristocrazia gallipolina, per i suoi continui cambi di bandiera, dal punto vista politico. Politica che non aveva mai ben compreso, tanto da far dire a Emanuele Barba – che pure lo stimava come poeta – che in lui “non albergarono mai gli alti sentimenti di carità verso il prossimo, e di fraterno affetto”, alludendo al fatto che non si era allineato con un partito progressista e umanitario di quel tempo.

E men che meno lo pianse il popolino, verso cui si era dimostrato democratico solo per chiedere soldi in prestito, o far crediti dai fornitori. Era debitore verso tutti, dal lattaio al verduraio, dal panettiere al macellaio, aveva chiesto soldi perfino al bidello della scuola dove di tanto in tanto faceva qualche lezione. Tutti, o quasi, a Gallipoli, vantavano un piccolo credito nei confronti di “don Pippi” Castiglione. Insomma era riuscito nella non facile impresa di essere da tutti considerato un fallito e un parassita, a trecento sessanta gradi.

Gallipoli fontana greco-romana

3.Eppure Giuseppe Castiglione è stato senza alcun dubbio uno dei pochi scrittori di talento dell’Ottocento gallipolino. Ha scritto romanzi importanti come “Roberto il Diavolo”, dramma storico nel pieno filone romantico dei maggiori scrittori del tempo (Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Giuseppe Guerrazzi, per non parlare del Manzoni che sicuramente il Nostro conosceva bene tanto da dedicargli un’ode assai enfatica e mediocre), che rievoca il famoso assedio dei veneziani a Gallipoli avvenuto nel maggio del 1484. Il romanzo era stato pubblicato dalla più importante casa editrice napoletana, la Vaspandoch, che aveva messo in stampa in tre tomi – odi, odi! – nientemeno che i “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni (va detto che allora non esistevano i diritti d’autore) ed aveva ottenuto un buon successo di critica e di pubblico, tanto da far scrivere al Castiglione, – che sembrava ormai avviato verso una luminosa carriera di romanziere – :“Ecco, vedo coronato il mio sogno, vivere solo di letteratura”. Ma allora sperare di vivere facendo lo scrittore era pura utopia: perfino Leopardi non ci riuscì, ma anche lo stesso conte Manzoni, che non aveva problemi economici, quando volle stampare in proprio, ci rimise di tasca una somma piuttosto cospicua, ben centomila lire di quell’epoca.

Ma la validità del romanzo di Castiglione è rimasta intatta nel tempo, se è vero come è vero che anche un secolo dopo, ai tempi nostri “La vendetta gallipolina”, piéce teatrale che il canonico Don Sebastiano Verona aveva tratto pari pari dal romanzo, e messo in scena negli anni 1974-1977, ottenne uno storico strepitoso successo, con numerosissime repliche, a cui partecipò praticamente l’intera popolazione di Gallipoli e dei paesi limitrofi. E successivamente, siamo già al terzo millennio, il maestro Enrico Zullino ne ha tratto un’opera lirica assai robusta ricalcando certi schemi tipici del romanticismo verdiano.

4.Giuseppe Castiglione era nato nel 1804 nella casa materna, tra le colline odorose di timo di Sannicola, allora frazione Gallipoli. Ricordò sempre quelle campagne natie, con l’occhio che spaziava per chilometri e chilometri sulle distese di maestosi olivi, il percorso delle antiche edicole votive, le vecchie cisterne che raccoglievano la preziosissima acqua piovana, i vitigni, il frumento dei campi. (“Non nominare le cose, indovina le cose, suggerisci le cose, ecco la cosa segreta, ecco il sogno, la poesia”), ma era da sempre vissuto a Gallipoli e non volle mai staccarsene “come l’ostrica dallo scoglio” per tutta la sua tribolata esistenza, nonostante avesse coltivato ambizioni e sogni di gloria letteraria, soprattutto dopo la sua iscrizione d’ufficio, per alti meriti letterari, all’Arcadia, e la nomina a corrispondete dell’Istituto di Francia. Erano solo voli pindarici, sogni che gli avevano fatto sperare che un giorno avrebbe potuto emulare (e magari superare) le gesta del suo concittadino Pasquale Cataldi, grande poeta improvvisatore, considerato un aedo sublime in tutte le corti europee, da Napoli na Vienna, da Parigi a Mosca, città che Castiglione poté vedere solo sui libri di storia e geografia. Ormai aveva fatto la sua scelta totalizzante, si sarebbe dedicato solo alla storia favolosa della sua amata città, che infatti sarà fonte di ispirazione di tutti i suoi vari scritti , dalla biografia del prozio Filippo Briganti, alle prose “Il ponte di Gallipoli”, “Un naufragio a Gallipoli”, fino all’ultimo suo romanzo,”La Cingallegra”, in cui sono molti elementi autobiografici, per giungere alla monografia “Gallipoli” che, ristampata nel 1985 per i “Quaderni” di  “Nuovi Orientamenti”, volle donarmi il compianto giudice Michele Paone, che ne aveva curato l’introduzione,  con questa dedica: “Ad Augusto Benemeglio, con augurio e cordiale ricambio” (gli avevo donato l’anno prima una copia del mio ”L’ isola e il Leone”, che rievoca in modo surreale le vicende dell’assedio veneziano a Gallipoli).

Gallipoli Casa di Giuseppe Castiglione

 

5.Bene, in questo libro, che è una sorta di bozzetto-guida, una mini enciclopedia storico-geografica e antropologica di Gallipoli, scritto nel 1856, Giuseppe Castiglione rivela senza infingimenti (ed è un gran merito, tenuto conto che l’opera storica gli fu commissionata dal Comune) il suo rapporto vero con Gallipoli e i gallipolini. “Il bozzetto – scrive Paone nell’introduzione – fu pensato e composto da chi della città conosceva tutti i segreti delle virtù, i guasti, le corruttele, di chi sapeva le voci e i volti dei concittadini, i suoi malesseri, i suoi ritardi, le sue miserie, le sue speranze”.E’ lo scritto di uno che ama molto la sua città, ma con “rabbioso amore, con il risentimento di un poeta che aveva finito per identificare la sua vita in quella della sua città e l’osmosi di questo rapporto lo esaltava e lo avviliva al tempo stesso”. E la cosa straordinaria è che molte cose riferite alla Gallipoli dicentocinquanta e più anni fa sono ancora in certi casi dolorosamente attuali.

Prendiamo, ad esempio, il capitoletto sui bambini assai trascurati dai loro genitori: “Esseri infelicissimi, abbandonati dai genitori, che li lasciano razzolare per le strade tutto il giorno con risultati assai dannosi, non ultimo il poco rispetto che questi sogliono avere per i genitori”. O sul carattere dei gallipolini, che,  se da un lato sono molto versati nella  poesia, nel teatro e nella musica ( “Sono  tutti poeti. Qualsiasi cosa avvenga che colpisca l’immaginazione, eccoti una canzone naturalmente bella…Amantissimi del teatro, di qualunque condizione o istruzione sieno, rappresentano perfettamente qualsivoglia farsa o dramma; ardentissimo è il genio per la musica, che in ogni età si è coltivata con vera passione”), dall’altro essi sono imprevidenti, vanesi, dissipatori come cicale (“Sono spensierati, cattivi massai; l’avvenire non ha giammai turbato i loro sonni. I travagliatori quindi sprecano in un giorno il guadagno di una settimana. I ricchi commercianti sciupano tutto nel lusso fine a se stesso, per vanteria; i poveri nelle gozzoviglie da taverna…Appena isterilisce il commercio e manca il lavoro, ecco la miseria con l’orrendo codazzo di cento mali opprimere quei lavoratori che non seppero serbare una briciola del pane che sovrabbondantemente mangiarono”).

 

  1. E poi si parla del rapporto, inesistente, tra i gallipolini (uomini di mare) e la terra: “Gallipoli non ha agricoltori. Niuno dei suoi abitanti sa versare una stilla di sudore sulla terra per chiedere il compenso di un pane”, e dellapiaga dell’usura: “scaturigine di ogni miseria … vero flagello per gli sventurati che, tratti da imperiosa necessità, qualunque condizione accettano per aver denaro…questo vampirismo esiziale che si nutre del sangue dei poveri e riduce in miseria le classi operaie assorbendo ogni loro guadagno.

Castiglione parla anche dell’attaccamento viscerale che i gallipolini hanno per la loro piccola patria che “amano d’amore infinito, da cui, se per circostanze imperiose talvolta si allontanano, restano vittime della nostalgia” edella loro religiosità, che ha sempre qualcosa di superstizioso, barocco, teatraleggiante e pagano: “Il popolo gallipolino è sempre intento a compiere i suoi religiosi doveri; solo non è commendevole qualche usanza che sa alcun poco di superstizione. Continue sono le festività religiose che vengono celebrate con ogni sontuosità. Nelle processioni fanciullette di tenera età, vestite con peripli, cantano le laudi. Belle come angioletti, ricche di chiome che in folte ciocche scendono sugli omeri, redimite dai fiori, dotate di voce armoniosissima, colla melodia dei loro canti t’infondono nel cuore una misteriosa dolcezza, che al pianto t’invita”…

delle congregazioni religiose che gareggiano tra loro “nel tributare a Dio col culto esterno, nel frequentare i rispettivi oratori e nell’addobbare le chiese col lusso maggiore che possono…e non sai se sia maggiore lo zelo, o la munificenza nell’adornare la loro chiesa di preziosi suppellettili e nel celebrare le feste sontuosissime”.

… dei pregiudizi dei suoi concittadini: “Si crede alle streghe e alle malie: per salvare i fanciulli da malefici influssi de’ malocchi si caricano di cento cianfrusaglie, e di cornetti di corallo.”

Gallipoli Scalo delle barche pescherecce

  1. E, infine, con sorprendente attualità, si sofferma sulla carenza di insegnanti degni di questo nome (sic!) e sulle fosche prospettive per i giovani di quel tempo (doppio sic!!)“Gallipoli avrebbe meritato in altra età il nome di Atene della provincia, ma ora l’istruzione manca, e la gioventù non così facilmente trova una guida che la conduca sicura a traverso le spine e i mali triboli che ingombrano il sentiero de’ buoni studi. Dove sono i precettori? La gioventù fruga e rovista invano per rinvenirle, desolata nell’inutile ricerca, resta per lo più abbandonata ad una fatale ignoranza.”

E su quest’ultime condivise parole chiudiamo il nostro glossarietto di Giuseppe Castiglione, sulla sua città odiosamata, Gallipoli, che è stata il suo tutto, inferno e paradiso.

“Gallipoli” è un pamphlet modernissimo, sembra che sia stato scritto ieri, e non centosessant’anni fa, ma evidentemente un vero scrittore riesce sempre ad essere attuale, anche quando scrive la cronaca del suo tempo. E poi chi l’avrebbe mai detto – ironia della sorte – che uno scioperato bohémien, un artista sfaticato come Giuseppe Castiglione dovesse essere ricuperato “anche” come moralista?