Non sempre gli asini sono testardi, a volte superano in intelligenza lo stesso uomo

Nah, fatìa, nah

L’episodio è accaduto realmente a Nardò alla fine dell’800

di Emilio Rubino

È luogo comune ritenere l’asino un essere quasi privo di intelligenza e, soprattutto, un testardo incallito. Ma non sempre è così.

A tal proposito, seguitemi in questa curiosa vicenda raccontatami da mio padre, quando ancora ero un ragazzino di otto-nove anni.

Innanzitutto devo precisare che l’episodio è accaduto durante la prima guerra mondiale nella mia graziosa Nardò, a quei tempi per buona parte arroccata su una civiltà contadina retrograda e poco incline al cambiamento.

Entriamo nel vivo del discorso.

Ogni santo giorno di quei tempi oscuri, dopo una frugale colazione a base di frisella, pomodoro, olio, sale e peperoncino, Cricoriu, un bravo ma tirchio contadino, si recava in un piccolo podere di sua proprietà, distante qualche chilometro dal paese, sulla strada che porta ad Avetrana. S’incamminava prima che si levasse il sole, per arrivarci quando ormai era già alba inoltrata e lavorare sin quasi al tramonto. Per Cricoriu ogni giorno di ogni anno della sua vita era sempre la stessa musica. Non c’erano feste comandate, né malattie che gli impedissero di recarsi a zappare, sarchiare, mondare, seminare, piantare e raccogliere qualcosa da portare a casa. Tutta la vita a scandire sempre lo stesso motivo, ma lui non se ne curava, anzi era orgoglioso e contento che, da quel pezzettino di terreno, traeva quant’era necessario per la sua famigliola.

Sua moglie, invece, oltre ad accudire alle tante faccende domestiche, si recava quotidianamente per un paio d’ore a Palazzo Personè a lavorare come lavandaia per donna Maria. Con quei soldi in più la famiglia di Cricoriu poteva acquistare l’indispensabile per vivere con dignità.

Cricoriu si faceva aiutare da un’asina, ormai vecchia e malandata, alla quale aveva scherzosamente appioppato il nomignolo di “Fatìa” (fatica).

Ed allora lo sentivi dire: “Nah, Fatìa, nah!”. E gli dava, a prima mattina, un pugno di paglia per colazione. L’asinella non si accontentava di quel poco che il tirchio padrone le dava e perciò si metteva a ragliare per ottenere un’altra manciata. Cricoriu, un po’ imbronciato, solitamente l’accontentava concedendole solo un pugnetto di avena, accompagnandolo con un perentorio richiamo: “Mo’ ti basta, ca ci ti sazzi throppu, poi no’ tti coddhra cu ffatichi!” (Ora ti basta, perché se mangi troppo, non ti va di lavorare).

L’asinella accettava suo malgrado, ma un raglio di diniego glielo faceva sempre pervenire.

Quella povera bestia ogni giorno veniva caricata a dovere sia all’andata e, maggiormente, al ritorno. Zappa, zappone, zappetta, mazza, pala, forcone, ceste, panari e quant’altro, tutti sistemati in groppa alla povera Fatìa, che, lemme lemme e con gli occhi ancora chiusi, s’incamminava sulla strada per l’Avetrana, che ormai conosceva a menadito.

Lungo il percorso, Cricoriu solitamente discorreva con Fatìa su tanti argomenti. Episodi di famiglia, di lavoro, di vita cittadina e, in modo particolare, si soffermava a parlare della “vitaccia” che menava da sempre. Spesso le poneva delle domande e da Fatìa pretendeva delle risposte, ma quella, scocciata per tanto parlare, se ne usciva sempre con dei lunghi ragli, come a volergli dire: “E quandu la spicci!“ (E quando la smetti!).

Al ritorno da campagna i due discorrevano poco. Cricoriu era stanco morto dalla fatica; Fatìa era sovraccaricata di legna, sarmente, ceste, panari colmi ed inoltre tutti gli attrezzi da lavoro.

“Ahi, ahi, no’ ‘nci lla fazzu cchiui, Fatìa mia!” (Ahi, ahi, non ce la faccio più, Fatìa mia!)” – diceva l’uomo con un filo di voce.

E quella, come risposta, gli lanciava il solito lungo raglio di contestazione: “E sta tti lamenti tu, e iò cce era ddire?” (E ti stai lamentando tu, ed io cosa dovrei dire?)

Cricoriu, invece, continuava indisturbato con la sua tiritera.

“E no’ ‘mbole lla sènte!… Mena, sbrìcate e azzha lu passu, ca sta ccecu pi’ lla fame!” (E non la vuol sentire!… Dai, sbrigati, cammina più in fretta, perché non ci vedo dalla fame!) – rispondeva l’animale, sempre con un raglio stizzito.

Una mattina l’asina decise di scendere in sciopero: non se la sentiva più di lavorare per tante ore. Pretendeva, giustamente, di essere collocata in pensione. Ma come dirlo a Cricoriu?… Con un lungo, anzi con lunghissimo, raglio. Se non fosse stata accontentata, allora avrebbe puntato le zampe per terra e non si sarebbe mossa di un solo centimetro.

“Ancora stisa stai?… mena, sbrìcate, ca mo’ llucisce!” (Stai ancora distesa?… Dai, sbrigati, fra poco è già alba!” – disse l’uomo, più che mai arrabbiato per il notevole ritardo.

La povera Fatìa non s’era del tutto ripresa dal lavoraccio del giorno precedente e stentava a rialzarsi. Le zampe la sorreggevano a malapena, ma, nonostante tutto, si tirò su, consentendo al padrone di caricarla a dovere e di ricevere come contropartita il solito pugno di paglia. Dopodiché i due si diressero verso campagna. Attraversando la piazza cittadina, Fatìa pensò bene di fermarsi e reclamare un po’ di avena, perciò emise il solito lungo raglio, sperando che quell’animale del suo padrone l’accontentasse. Ma quello tirò dritto, perché l’avena costava un occhio di fronte. Ed allora scattò il piano preventivato nella mente della bestia, che s’impuntò di colpo sulle zampe.

“Ah, ah, ah!… ma cce sta tti pigghia stamatina?!?… ‘Uei ccamini, sì o no?”. (Ah, ah, Ah, ma che ti sta prendendo stamattina?!?… Vuoi muoverti, sì o no?) – esclamò l’uomo, molto infuriato.

Niente di niente. Fatìa non si decideva a fare il ben che minimo movimento. Ormai aveva deciso di ribellarsi ad ogni costo.

Cricoriu aveva fretta, per cui iniziò a darle calcioni nelle zampe, ma Fatìa era irremovibile, anzi si distese per terra.

“Mena, brutta disgraziata, àzzhate e ccamina!” (sbrigati, brutta disgraziata, alzati e cammina!”).

Fatìa non voleva più saperne di subire le solite angherie e perciò… altro raglio prolungato.

Intanto, attorno ai due s’era riunita un po’ di gente, incuriosita dall’insolita sceneggiata.

Dai calci Cricoriu era passato alle frustate, ma ormai l’animale s’era incaponito, continuando a ragliare più che mai.

“Ih ah!… ih ah!… ih ah!” – ripeteva con maggiore convinzione, ma l’uomo la sferzava sempre di più.

Qualcuno dei presenti gli fece capire che per la bestia non c’era più niente da fare, perché era vecchia ed ormai scarnita.

“Stae cchiù ti ddhra cca de cqua!… Làssala stare, nu’ lla murtificare!”. (Ormai sta per morire!… Lasciala perdere, non la mortificare!”).

S’intromise nel discorso un’altra persona che suggerì a Cricoriu un sicuro espediente.

“Pigghia nu peperussu uschiante e mintilìlu ‘n culu. Ci non’è mmalata, si azzha subbitu e zzacca a caminare”. (Prendi un peperoncino piccante e mettiglielo nell’ano. Se non è malata, s’alzerà subito e comincerà a camminare).

Cricoriu di peperoncini ne aveva a iosa, perché era abituato da sempre a condire ogni tipo di pasto con la piccante verdurina. Perciò, ne prese un paio in modo da ottenere maggiore effetto, li spaccò in due e glieli inserì nell’ano, nella speranza di convincere l’animale a sollevarsi da terra.

L’effetto desiderato non tardò a manifestarsi. Un raglio senza fine ad altissima intensità di voce si propagò per tutta la piazza, tanto da svegliare molta gente e costringerla ad affacciarsi.

“Ih ah!… ih ah!… ih ah!” – ragliava rabbiosamente l’animale, in preda ad un forte uschiore (dolore acuto e persistente).

Fatìa si dimenava per terra, sbraitava, ragliava come un’indiavolata. Finalmente decise di alzarsi da terra, ma il dolore era insopportabile, tanto acuto da spingere l’animale a correre alla ricerca spasmodica della vasca pubblica o di un pilaccio (pila d’acqua), che l’avrebbe senz’altro attenuato l’uschiore. In poco tempo Fatìa era già molto distante da Gricoriu.

“E mo’ comu fazzu cu lla ‘rrìu?” (Ed ora come faccio ad arrivarla?) – disse l’uomo alquanto preoccupato.

“Sai cce tti dicu?… Mìntite nu peperussu puru te e bbidi ca la ‘rrìi!” (Sai che ti dico?… Utilizza anche tu un peperoncino e di sicuro l’arriverai!)”.

Cricoriu seguì alla lettera il consiglio. Prese tre peperoncini per ottenere maggiore effetto, li tagliuzzò e li mise nel profondo del suo ano.

Immediato l’effetto. L’uomo sembrava una Maserati otto cilindri, ma intanto Fatìa era molto lontana. Altro peperoncino ed altra maggiore spinta. Finalmente la ritrovò stanca morta nel grande pilaccio del suo fondarello.

“Iessi ti ddhra, ca sta schiattu pi’ ll’uschiore!” (Esci da lì, che sto morendo dal dolore) – strillò l’uomo.

I due si ritrovarono un’altra volta uniti… ma nell’acqua, a godere di un ritrovato e provvidenziale ristoro. Quando ormai era tempo di ritornare a Nardò, Cricoriu, ancora in preda a dolori acuti ed insistenti per quei quattro peperoncini, chiese a Fatìa di essere accompagnato a casa. Le salì in groppa e piano piano arrivarono in paese, sebbene l’animale fosse stanco morto e ancora sotto l’effetto attenuato del peperoncino.

“Crazzie, Fatìa mia, ti ‘ogghiu tantu bene comu a ‘nna figghia mia!” (Grazie, Fatìa mia, ti voglio tanto bene come ad una figlia mia!).

Lei emise un raglio moderato e rauco, come a volerlo ringraziare.

Da quel giorno Fatìa fu trattata con maggiore affettuosità.