I racconti della Vadea

 

L’ADOLESCENZA

di Pippi Onesimo

“Per tornare nel mio passato – mi raccontava Chicco durante un periodo di ferie di qualche anno fa – devo rovistare nell’archivio polveroso della mia memoria, fra ricordi sbiaditi e frammenti di emozioni“.

Ma non gradiva tanto quel ritorno.

Principalmente perché aveva paura di incontrare i suoi errori, “che erano molti – diceva -, e soprattutto testimoni inesorabili di tanto tempo perduto“; odiava, in fondo, i ricordi proprio perché fredde “registrazioni“ del passato e quindi senza l’immediatezza e l’emozionante calore del vissuto quotidiano.

Però, quando lo assaliva la nostalgia, anche se raramente, si rivedeva adolescente nella casa di campagna e di questo mi raccontava.

Fra i ricordi, per primo, riaffiorava quello di suo padre con la sua figura forte e penetrante, con i suoi lineamenti ruvidi, il volto eternamente corrucciato, ma con un cuore immenso, carico di amore e di passione spontanea, genuina, immediata, a volte imprudente, a volte invadente, ma pur sempre sincera e, soprattutto, senza condizionamenti.

Quel carattere, una volta, gli costò l’onta del confino in una regione limitrofa, perché fu ritenuto colpevole di aver mancato di rispetto, nel pieno fulgore del ventennio, al gerarchetto di turno, impomatato di arroganza e di untuosa, colpevole ignoranza e alla banda dei suoi malefici “portandùci” (delatori).

La figura paterna ha avuto un ruolo importante sulla sua formazione morale e spirituale, perchè era il riferimento di tutto: delle obiezioni criticamente valutate, dei dissensi lealmente manifestati, ma soprattutto dell’ammirazione incondizionata per la sua capacità professionale di contadino saggio, capace e lungimirante innovatore.

Fu sempre accorto e attento nella gestione dei cicli produttivi e sapientemente informato e documentato sulle novità dell’“arte agraria”.

Mi raccontava, non senza una malcelata punta di orgoglio, che suo padre era soprattutto un abile e incontestato “stimatore“ (colui che possiede la capacità di determinare la quantità di prodotto, ancora sulla pianta, con calcoli approssimativi e molto vicini alla realtà) e proprio per questa sua “virtù“ spesso veniva chiamato a stabilire il valore di mercato del fondo posto in vendita col prodotto pendente (olive, uva, angurie, grano ecc.).

Era anche un esperto “innestatore” e veniva incaricato, di tanto in tanto, a tenere corsi di formazione a giovani contadini inesperti.

Fra i difetti (pochi in verità) aveva uno che in particolare gli rinfacciava: la castima” facile (bestemmia) che sistematicamente saliva in cielo ad ogni, anche pur piccola, contrarietà: era una sua cadenza espressiva costante a tal punto da rischiare di… fare l’abitudine e a non scandalizzarsi più di tanto col passare degli anni… ma Chicco non ci stava!.

Sua madre, dal canto suo, tollerante per carattere, dolce e delicata nei rapporti umani, semplice, disponibile e generosa, ma mai sottomessa, né succube, con dignitosa fermezza coglieva, saggiamente e con studiata diplomazia, il momento giusto per richiamare suo marito a più miti consigli, senza urtare la suscettibilità di nessuno.

In disparte poi chiedeva a Chicco considerazione e comprensione per suo padre e lo esortava a guardare al di là della sua scorza ruvida, ispessita dalle avversità, dalle ingiustizie, dalle umiliazioni, dal cruccio di sentirsi impotente di fronte agli eventi più forti di lui, ma soprattutto dal lavoro massacrante.

Per cogliere gli aspetti positivi, doveva guardare più a fondo nel suo animo, dove risiedevano i sentimenti più belli e genuini: l’amore per la famiglia e l’aspirazione, quasi maniacale, mai venuta meno, di assicurare ai suoi un avvenire migliore, più umano, più civile e, comunque, diverso dal suo.

Per questo Chicco gli era e gli è eternamente grato e riconoscente, perché senza di lui e la delicata assistenza di sua madre e soprattutto senza i loro sacrifici e indicibili privazioni non sarebbe mai arrivato a “leggere (anche se poco) di greco e di latino” ed avere “molte altre virtù”.

Pensando a suo padre, diventava quasi inevitabile ricordare tutto il lavoro pesante, continuo come il pane quotidiano, ma sopratutto più grande di lui, che aveva svolto in campagna…. non ricorda da quando… forse da sempre.

Non c’era un periodo dell’anno che non fosse segnato dalla fatica; ma la primavera- estate era quello più duro, senza distrazioni, senza un attimo di tregua (i contadini, come le bestie, non avevano diritto alle ferie, né ad un riposo dignitoso; erano macchine, senza infanzia e senza vecchiaia, che si fermavano una sola volta nella vita, senza più ripartire: al capolinea della morte!).

Dopo un inverno di preparativi del terreno, di progetti, di speranze sopite, di sogni dissolti già prima di nascere, si cominciava a lavorare sodo sin dal mese di aprile col mettere a dimora le piantine di tabacco e, da metà giugno, con la sua raccolta.

Si continuava, fra luglio e agosto, col dissodamento e concimazione del terreno per trasferirvi dalle “ruddhre” (semenzai) diverse centinaia di piantine di cicoria, di rapa, di cavoli, di cavolfiori, di verza, di finocchio.

Ma ciò che rompeva maggiormente la schiena era il logorante via vai, ”scazzatu” (a piedi nudi) fra le “paddrhotte”, dal “pilacci” (grosso recipiente rettangolare di pietra leccese, posto vicino al pozzo di acqua sorgiva), dal quale si attingeva l’acqua per innaffiare le piantine una ad una, ogni giorno fino al tramonto inoltrato, con due “menze” (recipienti di rame zincata – a forma di anfora con due

manici – che, pieni d’acqua, pesavano circa dieci chili ciascuno).

Questo andirivieni lento, continuo, snervante, con una litania di passi cadenzati, noiosi, banali, sempre uguali, si protraeva per tutto settembre e ottobre e, comunque, fino a quando le prime piogge non preannunciavano l’arrivo dell’autunno.

Il riposo coincideva con lo “schiaccu“ (pausa breve del dopo pranzo, proprio nel momento più assolato della giornata), dedicato velocemente a mezz’ora di sonno soltanto dai suoi genitori, distesi su un sacco di juta all’ombra di un frondoso albero di noce (suo padre russava così rumorosamente come la sega di un falegname, che anche le cicale erano costrette a zittire o a sloggiare cambiando

albero).

Chicco, invece, insieme con i suoi cugini non riposava, anche se era sveglio dalle quattro della mattina, tirato giù dal letto per la raccolta del tabacco; approfittava proprio della pausa-pranzo (non c’erano altre durante tutta la giornata!) fucili di legno costruiti da lui stesso con abile maestria.

Altri pomeriggi di “schiaccu“ venivano trascorsi, con una disarmante incoscienza, in lunghe sfide a duello con spade costruite con nervosi e flessibili “vinchi” (germogli) di “mèndula” (albero di mandorlo) o di “cutùgnu” (albero di melo cotogno): il lato più robusto veniva avvolto con un panno per impugnatura, sulla quale, di traverso, si applicava una fascia di rame ricurva come paramano, ricavata da qualche “menza”, ormai fuori uso.

La scelta del tipo di battaglia da ingaggiare dipendeva quasi esclusivamente dal genere di rappresentazioni teatrali o di film che venivano proiettati nel Teatro Lillo, posto, allora, in una sala a piano terra del Palazzo comunale (la quale, nonostante il cambio di destinazione d’uso dal dopoguerra in poi a “sala delle adunanze consiliari”, continua con vanitosa civetteria ad influenzare, ancora oggi, certe riunioni istituzionali, con la sua antica e nobile “vocazione teatrale”).

Il Teatro ”Cavallino Bianco” era ancora di là da venire! (nacque nell’immediato dopo guerra e… nessuno poteva mai sospettare che, dopo tanti, fervidi, intensi anni di intelligente gestione, opere liriche, rappresentazioni teatrali, leggendari Veglioni della stampa, della Caccia, degli Studenti e, per ultimo, le manifestazioni del Teatro pubblico pugliese, sarebbe rimasto lì, chiuso e abbandonato come contenitore… (culturale!), intanto, de “li rucchi” (piccioni); e ancora oggi, come un sinistro maniero, che incombe, accusatorio, sulla placida e preoccupante sonnolenza di questa Città.

Ma, più di tutto, infiammavano la fantasia i film che don Giovanni Tartaro programmava per il fine settimana nel suo bello, elegante, accogliente e accattivante “cinema teatro”, ormai oggi irrimediabilmente perduto.

Di esso, purtroppo, rimangono solo i ricordi (ricchezza personale, gelosamente conservata, che nessuna ruspa, fortunatamente, può demolire e disperdere!) di un romantico passato, fatto non solo di tradizione e di cultura, ma anche di costume, di momenti sentimentali, di primi amori adolescenti, vissuti e… sofferti furtivamente fra l’entrata e l’uscita dal cinema o durante l’intervallo dei tempi di proiezione, quando uno sguardo appena accennato e “scurnùsu” (pudico) andava ad intercettare gli occhi di Lei, seminascosti da splendidi capelli neri, colorandole di rosso-fuoco il pallore roseo delle sue gote, mentre rimaneva seduta, custodita e protetta fra la madre e la sorella maggiore.

Quando non era possibile andare al cinema per mancanza di soldi (e mancavano spesso!), si accontentava di assistere agli spettacoli dei burattini, che raccontavano favole antiche e storie semplici ed ingenue a bambini disincantati e si concludevano sempre con solenni, vicendevoli bastonate fra Arlecchino e Pulcinella.

Due instancabili e simpatici pupari, “lu Naticeddhru e lu Picinèra”, li offrivano gratis in Piazza S.Pietro, in quasi tutti i pomeriggi domenicali, nascosti in un precario e semplice teatrino di legno pieghevole e semovente, montato su una sgangherata giardinetta, con su scritto “Carro di Tespi”.

Se durante la proiezione dei film nel Cinema Tartaro i baci degli attori erano brevi e furtivi, nel buio tombale della sala essi venivano sottolineati con un “undici”, urlato da una solitaria voce cristallina; se duravano un attimo di più, faceva eco un’altra voce, che aggiungeva…. “e na cazzosa”; ma se il bacio diventava lungo e appassionato, gli spettatori chiamavano in causa il titolare con “acqua, don Giuvanni”, invitandolo a raffreddare i bollenti ardori… della scena, cui seguiva subito una fragorosa risata di tutta la sala.

Alla fine dello spettacolo domenicale, verso l’imbrunire, tornava a casa e diventava quasi inevitabile, strada facendo, di rivivere le scene del cinema e, fantasticando, sostituirsi al protagonista principale del film.

Subito dietro l’angolo di una strada, insufficientemente illuminata da un asfittico lampione, che emanava una tremula luce color ruggine, immaginava di intravedere un pellerossa che gli puntava contro una freccia con l’arco teso, che precedeva di un soffio, fulminandolo con la sua colt, velocemente estratta da una fondina immaginaria.

Se più in là gli si parava di fronte un moschettiere cattivo e sanguinario, che con la spada sguainata tentava di trafiggerlo, lo evitava con una rotazione del corpo a destra, per rientrare sul fianco sinistro e annientarlo con un fendente preciso della sua.

Così fantasticando, arrivava fuori città a ridosso ormai della casa colonica, dove Fido, il suo cane lupo possente, lo riportava alla realtà, mentre abbaiava nervosamente alla luna, forse infastidito da un suo rivale in amore.

Già al momento di imboccare il vialone di campagna, intravedeva la luce giallastra e tremula del lume a petrolio, che attraverso la finestra della cucina stentava a contenere le ombre pesanti del buio della campagna circostante.

Sua madre lo aspettava per la cena (a volte resti del pranzo di mezzogiorno, a volte “cranu cottu” spulato nello “stompu” (blocco rettangolare di pietra leccese, incavato nella parte superiore, nella quale si brillava il grano con un robusto bastone di legno d’ulivo a forma di battaglio), che Chicco consumava seduto sul “pazzùlu”(sedile grezzo di pietra leccese), accanto alla porta della cucina; cenava al chiaro di luna non per civetteria romantica, ma per “sparagnare carzettella e petròju” (risparmiare stoppino e petrolio).

Il lume serviva altrove, nello stanzone accanto, per preparare i letti per la notte.

Poi subito a letto… in attesa di una sveglia assassina, alle quattro del mattino, (per la fretta finanche i sogni erano vietati!), per raccogliere le foglie di tabacco ancora turgide, prima che il sole infuocato le afflosciasse e prima che venisse meno il respiro fra le piante giallo – verde della “zzacuvìna”, dai fiori grassi e appiccicosi che emanavano un odore denso e penetrante.

Non c’era tempo nemmeno per fare colazione (pane e pomodoro!)… e il caffè, quello d’orzo tostato con “lu bbrustulìnu” (tostacaffè), si prendeva solo la domenica mattina, dopo che sua madre tornava dalla Messa.

Su quel ricordo, il volto di Chicco si rabbuiò, mentre un‘ombra di malinconia spegneva il suo sguardo.

Diventò, poi, serio e pensieroso… e lì si fermò.