Il pastorello e gli scarponi

di Rino Duma – Il fatto che sto per raccontare è realmente accaduto poco dopo l’Unità d’Italia a Picerno, un paesello dell’alta Basilicata, che a quei tempi contava appena tremila anime. Erano gli anni in cui il Regno delle Due Sicilie era stato invaso dalle truppe piemontesi e annesso al Regno d’Italia, nonostante la strenua ed impari lotta della popolazione fedele a re Francesco II. Ho appurato questa triste storia leggendo “La conquista del Sud”, un appassionante romanzo di Carlo Alianello [1], che ha descritto il “Risorgimento meridionale” con inusuale dovizia di particolari e con un singolare ed impareggiabile trasporto emozionale. Il libro è pieno di episodi di struggente ed inaudita crudezza, ma – credetemi, amici lettori, – questo che sto per narrarvi supera ogni altro per il modo con cui si è svolto e per il crudele epilogo.

L’antefatto

Il personaggio di questo patetico e sconcertante avvenimento è un pastorello, orfano di entrambi i genitori, che conduce una vita grama alle dipendenze di una famiglia di pastori in un casolare di campagna ad un chilometro dal paese. Il suo nome è Pasquale Pagliuca, la sua età si aggira tra i sedici e i diciassette anni, forse di più, forse di meno. Il ragazzo è un tipo macilento, bruno di carnagione, alquanto grossolano negli atteggiamenti e misero nel vestire, di poche parole ma gran lavoratore, buono come il pane e dolce come il miele. Cammina scalzo sin da quando è nato. Alla sua giovane età, Pasquale ha già la pianta dei piedi dura e nodosa come il legno, più tenace della terra che calpesta, ma lui non se ne cura, non avverte alcun disagio a muoversi su terreni accidentati, scivolosi e pieni di rovi. Solo raramente usa i “sandali fasciati” [2] per recarsi a Picerno in occasione dell’annuale mercato boario, per partecipare alla festa patronale di San Nicola e per assistere, almeno una volta al mese, alla santa Messa domenicale e comunicarsi.

Il fatto

Siamo entrati da poco nel mese di dicembre 1863. Pasquale ha conosciuto, nella chiesa matrice di Picerno, tramite l’amico Gennaro, Maria Gerarda, una bella ragazza della sua stessa età, molto schiva e contenuta, ma dagli sguardi seducenti ed ammiccanti. Il ragazzo rimane estasiato dal fascino che emana e non smette mai di sognarla e di immaginarsi suo sposo. Per tale motivo si reca ogni domenica a Picerno per incontrarla in chiesa e farsi, almeno con gli occhi, un’abbuffata di cotanta bellezza. La Messa scivola via senza essere seguita minimamente dal ragazzo. I suoi occhi sono puntati costantemente su di lei e ne ammira le grazie e le movenze.

Anche Maria Gerarda si volge spesso verso il ragazzo e gli lancia fugaci sguardi e sorrisi appena abbozzati. Pasquale non ce la fa più: ormai ha deciso di affrontarla e di fare il passo dovuto. Rompe ogni indugio, ferma la ragazza appena fuori dalla chiesa e, seppure con il cuore che gli sobbalza in petto, le esterna con poche ed insicure parole il messaggio d’amore. Maria Gerarda, che altro non si sarebbe aspettata, riesce a malapena a contenere la gioia; vorrebbe gridargli in faccia i sentimenti che prova per lui, ma, come prassi vuole, non può farlo, non può pronunciarsi subito e quindi rimanda la sua risposta al prossimo incontro.

Pastore e gregge

Trascorre un’altra interminabile settimana.

E allora, Maria Gerarda, cosa hai deciso?” [3] –  esordisce Pasquale con il cuore in gola.

Beh, non posso prendere una decisione così su due piedi… io… io ti conosco da poco” – gli risponde la giovane, a testa bassa per la vergogna, tipica delle ragazze di quei tempi.

“Se cominciamo a frequentarci, possiamo conoscerci meglio… Io sono disposto a presentarmi subito ai tuoi genitori… Le mie intenzioni sono serie, molto serie”.

“Sì, però…”.

Però!… però, cosa?!” – la incalza Pasquale.

Ecco, devi essere un po’ più ordinato nel vestire, devi curare meglio quei capelli arruffati e poi… e poi, se veramente vuoi chiedere la mia mano, non devi presentarti scalzo a mio padre. Lui, ne sono certa, non ti accetterebbe!”.

Ti prometto che comprerò un paio di scarpe… le migliori scarpe, a costo di lavorare anche di notte per un intero anno!… Te lo prometto, amore mio!”.

E corre via per l’enorme contentezza, senza neanche salutarla.

All’indomani mattina, ottenuto il permesso da Nicola [4], Pasquale ritorna a Picerno ad incontrarsi con Gennaro per aggiornarlo su ogni cosa.

Perciò, Gennaro, tu che vivi qui a Picerno conoscerai senz’altro un calzolaio a cui rivolgermi per un paio di scarpe”.

Lascia fare a me, conosco un tizio che ha tanti indumenti, come pantaloni, cappelli, pastrani, maglie, camicie ed anche un paio di scarponi di media misura, per i quali pretende, se ben ricordo, sette carlini d’argento oppure una pelle di capra in cambio” – gli risponde di rimando l’altro.

Sette carlini?!… mai visti tanti soldi in vita mia!…” – gli ribatte Pasquale senza troppo pensare – “…Caso mai posso fare un tentativo con la pelle di capra, ma prima devo sentirmi con Nicola. Tu, intanto, parla pure con quel tizio e mantieni caldo l’affare”.

Nicola, che non vuole tradire le aspettative del ragazzo, gli offre la migliore pelle di capra in suo possesso, ma con l’impegno di dover cardare e filare una grande quantità di lana, dopo essere tornato dal lavoro. Pasquale accetta.

Dopo un paio di giorni il pastorello conclude l’affare; finalmente possiede i tanto agognati scarponi e, in più, ha un coltellino, avuto in omaggio da quel tizio. Ora può presentarsi ai genitori di Maria Gerarda per averla in sposa.

Prima di salutare Gennaro, inforca gli scarponi e, fischiettando, se ne torna verso il casolare. Poco fuori dal paese incontra una pattuglia di quattro carabinieri che rientrano a Picerno.

Ehi, tu, ragazzì, cosa porti ai piedi?” – dice un po’contrariato uno dei quattro.

Sono i miei scarponi nuovi!” – risponde innocentemente il ragazzo.

Quelli non sono tuoi, non ti appartengono… li hai rubati ad un carabiniere!…”- ribatte il militare

in modo burbero – “…Conduciamolo in caserma, questo qui deve appartenere ad una banda di briganti!”.

Io brigante?!… ma vi state sbagliando… io sono un pastorello che non ha fatto mai male a nessuno!”.

Pasquale, nonostante le continue insistenze e resistenze, viene ammanettato e condotto in caserma. All’indomani mattina, è trasferito a Potenza per essere giudicato dal Tribunale militare.

Una volta in aula, il presidente legge il verbale dei carabinieri e, dopo essersi sentito brevemente con il segretario, interroga il ragazzo.

Voi siete Pagliuca Pasquale di Picerno?”.

Sì, signore, sono Pasquale Pagliuca ed abito nel casolare di Nicola Settembrino, ad una ventina di minuti da Picerno”.

Quanti anni avete?”.

“Non lo so, signore… io… io non ho mai conosciuto i miei genitori”.

E nel mentre abbassa istintivamente il capo.

Come siete venuto in possesso di quegli scarponi?… Lo sai che appartengono all’arma dei carabinieri?”.

“Io… io non sapevo che fossero di un carabiniere, altrimenti non li avrei acquistati”.

Chi te li ha venduti?”.

“Non lo so, signore… non l’ho mai visto quel tizio. Io gli ho dato una pelle di capra e lui mi ha consegnato in cambio gli scarponi e, in omaggio, mi ha regalato anche un coltellino”.

“Nonostante l’evidenza dei fatti, avete una bella faccia tosta a negare ogni cosa!…” – conclude il presidente, con tono severo.

Dopodiché si allontana dall’aula insieme al giudice a latere e al segretario per discutere e scrivere la sentenza. Non passano cinque minuti che i tre sono già di ritorno.

“In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio e volontà della nazione […] a norma dell’art. 2 della legge sul brigantaggio, avendo il qui presente Pagliuca Pasquale opposto resistenza alla Forza Pubblica, essendo stato trovato in possesso di due scarponi appartenenti all’Arma dei Carabinieri ed inoltre di un coltello in dotazione alla stessa Arma, il Tribunale di Guerra di Potenza, oggi, 23 dicembre 1863, riunitosi collegialmente nell’edificio del Distretto, condanna l’imputato alla pena capitale mediante fucilazione da eseguirsi in giornata”.

Pasquale, che non ha capito un’acca di quello che è stato letto, viene condotto in cella.

Avanti un altro brigante!” – ordina il segretario.

Ma, invece di un brigante, entra in aula un delegato della Pubblica Sicurezza, il quale ha un dispaccio della Soprintendenza di Napoli. Il Presidente, dopo aver tolto i sigilli, legge il contenuto della missiva e strabuzza gli occhi man mano che prosegue nella lettura. Si tratta di un’informativa rivolta ai Tribunali di Guerra e contenente ulteriori istruzioni per quanto riguarda l’esecuzione dei condannati alla fucilazione o all’impiccagione.

Bella questa!…” – dice ridacchiando il Presidente.

Presidente, cosa c’è di tanto strano?”  – domanda il segretario.

Il sovrintendente pretende che, prima di ogni esecuzione, il condannato sia vestito con un abbigliamento signorile e successivamente fotografato, in modo da dimostrare, attraverso la stampa nazionale ed estera, che “i briganti” appartengono anche alla classe borghese e che non tutti sono degli straccioni”.

“…Ed allora iniziamo dal Pagliuca!” – gli risponde di getto il giudice a latere.

Ben detto… iniziamo proprio da lui!” – conclude il Presidente.

Pertanto dà ordine ad un carabiniere di prendere dal magazzino quanto occorre per vestire il condannato, come richiesto dall’ordinanza.

Ehi, ragazzo, oggi t’agghindiamo a festa… sei fortunato, figliolo!…” – dice con molta ironia l’uomo – “…Su, tìrati su… Ti vesto da capo a piedi… Ti faccio bello e poi usciamo per il paese a fare una passeggiata. Intanto tira fuori quei luridi e puzzolenti stracci e inizia ad indossare questi mutandoni, poi metti anche i pantaloni”.

Pasquale non capisce, è frastornato… Però l’idea di vestirsi a nuovo gli piace. Dopo aver indossato anche il camiciotto, il ragazzo chiede al militare se sia possibile riavere i suoi scarponi. Pasquale è accontentato. Inoltre, gli viene data una giacca un po’ larga ma profumata e nuova. Per ultimo, il carabiniere gli porge un cilindro ed uno specchio in cui rimirarsi.

Pasquale non crede ai suoi occhi. È però ancora dubbioso e sconcertato.

“Giovinò, siamo pronti?…” – conclude con molto sarcasmo il militare – “…Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria. C’è un sole meraviglioso e due fotografi sono pronti ad immortalarti per l’eternità… C’è anche una parata di militari!… Tutto solo per te!”.

Pasquale è ancora di più disorientato, non riesce a farsi una ragione di ciò che gli sta accadendo. Si riguarda nello specchio e s’accorge di essere diventato un bel ragazzo.

Poi pensa e dice fra sé e sé: “Chissà se fuori non incontrerò Maria Gerarda?”.

Esce scortato da sei militi, che si dirigono al centro del paese.

Appena arrivati nella piazza principale, Pasquale nota una decina di militari armati di fucile, disposti uno accanto all’altro, e due fotografi che si trovano rispettivamente ai lati. C’è anche della gente, tanta gente, che è stata “obbligata” ad assistere a quell’indecente spettacolo. Tutti, però, sono tristi e bisbigliano tra di loro. Di fronte ai militari, a non più di dieci metri, c’è una sedia, poggiata ad un muro e un prete accigliato che prega a voce sommessa. Ora Pasquale capisce ogni cosa. Prende il cilindro e lo lancia per aria, urlando qualcosa di indecifrabile in perfetto dialetto lucano; poi, in preda ad un’irrefrenabile convulsione, si leva da dosso la giacca e la camicia, si strappa i pantaloni e i mutandoni, ma gli scarponi, no, quelli sono suoi.

E poi urla ai presenti: “Voglio morire nudo, come mi ha fatto mammà!”.

Alcuni militari lo bloccano e lo legano alla sedia, lui si dimena. Il prete, in lacrime, gli unge la testa con gli oli sacri e, allontanandosi, continua a pregare a testa bassa.

In un ultimo momento di lucidità, il ragazzo trova la forza di esternare alcuni pensieri.

San Nicola mio, aiutami tu!… Maria Gerarda, ti amoooooo!”. E si mette a piangere.

Una scarica di proiettili lo investe in pieno, ma solo sette arrivano a segno. Tre militari, forse perché meridionali, hanno preferito non colpirlo.

Vecchi scarponi militari

Conclusione

La storia di Natale che ho testé raccontato è una delle tante accadute nel Meridione d’Italia durante i primi otto anni di Unità. Ve ne sono altre, alcune note, altre (le tante) subito dimenticate. Ce ne sono a centinaia, a migliaia, per descrivere le quali non basterebbero alcuni corposi volumi. Fra le più eclatanti voglio ancora una volta riprendere le stragi di Pontelandolfo e Casalduni, che mai, in tanti di anni di storia, sono state ricordate dalle istituzioni pubbliche, se non da quelle locali. Come se quei morti fossero diversi da quelle anime innocenti che perirono a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzena, a Cefalonia, alle Fosse Ardeatine o nei campi di sterminio! La differenza, signori miei, sta nella diversa nazionalità di chi commise quelle efferate esecuzioni. Nel primo caso furono gli stessi italiani ed i morti vennero immediatamente dimenticati, nel secondo furono i tedeschi ed i morti sono ogni anno ricordati.

Quanto è strana la vita!…

Nonostante tutto, da queste colonne rivolgo un augurio di Buon Natale a tutti voi, amici lettori, dovunque vi troviate e chiunque siate. Allo stesso tempo non posso non formulare, anche se a distanza di centocinquant’anni, i miei migliori auguri al giovane pastorello Pasquale, tradito da un paio di scarponi che mai avrebbe immaginato di calzare, se non si fosse innamorato di una bella ragazza.

Buon Natale anche a te, Maria Gerarda.

Note

[1] L’ultima edizione di quest’interessante libro è stata edita da Rusconi editore nel 1971.

[2] I “sandali fasciati” erano delle calzature molto grossolane, usate dalla gente umile e povera. Erano costituiti da un plantare di cuoio o, in mancanza, di corteccia spugnosa e da una striscia di tela o di lana che si avvolgeva, ben stretta, intorno al plantare, sino ad arrivare all’altezza del ginocchio. Per certi aspetti richiamavano la struttura dei calzari degli antichi romani.

[3] Ovviamente il discorso intrattenuto dai due giovanetti è in dialetto lucano (quasi simile a quello campano), che omettiamo di riportarlo per non creare difficoltà nei lettori, ma anche per rendere più scorrevole la lettura.

[4] Nicola è il pastore che ha accolto Pasquale sin da quando è rimasto orfano.