Il Salento delle leggende

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni. Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

Ogni terra ha le sue leggende.

Nascono quasi tutte dalla tradizione orale. E a generarle e perpetuarle è soprattutto il popolo, che spesso, e molto più dei dotti e dei sapienti, possiede innato il senso della fantasia, associato all’arte della suggestione e del mito.

Peraltro, come affermava Albert Einstein, “La più bella e profonda emozione che possiamo provare è il senso del mistero: sta qui il seme di ogni arte, di ogni vera scienza”. E per l’abate Jacob Cristillin, “La leggenda non è poi così lontana dalla verità: essa è la storia non ancora messa a punto”. Con il pregio – si potrebbe aggiungere – che, rispetto alla storia, la leggenda ha in più l’irresistibile fascino del verosimile sul vero. Come appunto accade nei vecchi “cunti” e nelle fiabe, ma perfino in alcune cronache di tutti i giorni, che d’istinto preferiamo strabilianti e sorprendenti, quando non addirittura impossibili.

Soleto

Al popolo infine, si addicono l’incredulità, la magia, il prodigio. Qualità che in qualche misura lo affrancano dalle fatiche e dai dolori della cruda realtà quotidiana, e lo proiettano in una dimensione quasi di sogno, e quindi di riscatto.

Sicché, è dalla notte dei tempi – e la notte certamente più del giorno si confà ai misteri – che le leggende sono parte significante della vita e della storia dell’uomo.

Questa dimensione fantastica è altresì particolarmente appropriata al nostro Salento, terra emarginata e tuttavia densa di movimenti, che il mai dimenticato giornalista, divulgatore ed amico Antonio Maglio, in uno ‘speciale’ sull’argomento, curato per il Quotidiano di Lecce, definì accortamente “crocevia del mondo” (e direi anche del tempo), volendo rimarcare la massiccia congerie di passaggi e presenze, sul nostro territorio, di re e imperatori, di cavalieri ed eroi, di filosofi e crociati, di poeti e monaci sapienti, che hanno stratificato indelebili ed epici segni nella nostra memoria civile.

Fra le più note leggende salentine è certamente quella che riguarda il famoso campanile o guglia di Soleto, autentico gioiello dell’arte gotica del XIV secolo, degno di competere, per eleganza architettonica, con le consimili maggiori opere del tardo Medioevo italiano.

Più che da motivazioni religiose, la torre – ultimata nel 1397 – fu voluta dal conte di Soleto e principe di Taranto Raimondello Orsini Del Balzo come segno della propria potenza, significativamente ubicata al centro della penisola salentina, con l’ambizioso e in parte velleitario intento di renderla visibile, con i suoi 40 metri d’altezza, sia dalla costa orientale adriatica di Otranto che da quella occidentale jonica di Gallipoli.

La guglia di raimondello dai tetti di soleto

Ebbene, proprio per la straordinaria eleganza ed armonia delle forme, il popolo di Soleto creò la leggenda che quella splendida struttura fosse frutto di un incantesimo, insomma un’autentica “opera del diavolo”, realizzata in tutta la sua magnificenza (e in una sola notte!) per l’appunto da demoni, streghe e satanassi, al servizio del dotto umanista filosofo medico e astronomo Matteo Tafuri, particolarmente esperto in esoterismo ed occultismo, tanto da essere considerato una sorta di tenebroso negromante, e infatti noto al suo tempo con l’appellativo di “mago di Soleto” .

Come nel più classico degli incipit, la leggenda riferisce di “una notte buia e tempestosa”, nella quale messer Tafuri aveva arruolato legioni di spiriti infernali perché costruissero, a testimonianza dei suoi grandiosi poteri, una torre monumentale di suprema bellezza, con l’obbligo che l’opera fosse assolutamente completata prima del sorgere dell’alba.

In un turbinio vertiginoso di voli, urla, schiamazzi, ordini e formule magiche, tutto andò per il verso giusto, meno che per quattro giovani demoni-grifoni, aiutanti ancora inesperti e ingenui, i quali furono sorpresi dal canto del gallo e dai primi raggi del sole proprio mentre stavano completando il trasporto degli ultimi capitelli, restando così fatalmente pietrificati ai quattro angoli della torre, dove sono ancora oggi, seicento anni dopo l’accaduto.

La leggenda, di per sé molto suggestiva, è anche clamorosamente incongruente, non essendo stato tenuto in debito conto che la costruzione della guglia, ultimata nell’anno 1397, non poteva comunque attribuirsi a Matteo Tafuri, nato invece quasi un secolo dopo, nel 1492! Ma tant’è: “Vox populi…”.

Altrettanto affascinante – e nondimeno un po’ macabra – è la leggenda degli “scogli dannati” di Leuca.

Tutto comincia, nientemeno, che dalla mitica impresa della conquista del Vello d’oro da parte di Giasone, aiutato dagli Argonauti, e con la complicità di Medea, figlia del re della Colchide, esperta di arti occulte e dotata di poteri magici.

Medea-dipinto di Feuerbach

È noto che Medea, innamoratasi perdutamente di Giasone, lo sposò ed ebbe da lui due figli. Tuttavia, come spesso accade ai volubili eroi della mitologia greca, dopo alcuni anni Giasone s’innamorò a sua volta di Glauce, figlia del re di Corinto, con la quale si congiunse, abbandonando al proprio destino la sua vecchia sposa.

Sommossa da un furente spirito di vendetta, Medea decise allora di non lasciare a Giasone alcuna discendenza, e con l’intento di sgozzare e fare a pezzi i figlioletti, li portò con sé su una galea, fuggendo per mare.

Allorché Giasone fu informato dagli dei della terribile vicenda, si gettò precipitosamente all’inseguimento della snaturata madre, e stava quasi per raggiungerla, quando, nelle vicinanze della costa di Leuca, Medea diede compimento al suo crudele proposito: trucidò i figlioli e si liberò del lugubre carico, gettando in mare i resti dei corpi. I quali, appena toccata l’acqua, si pietrificarono e si trasformarono in scogli.

Sono appunto gli “scogli dannati” affioranti nel tratto di mare prossimo a Leuca, e precisamente vicino a punta Ristola, dai quali – come testimoniano tuttora i pescatori del luogo – nelle notti di vento e di tempesta si odono risalire vibranti gemiti e lamenti, e si intravedono convulsi movimenti di strane ombre misteriose…

 Vere o no che siano, è un fatto che di macare e macarìe ancora oggi si parla nelle nostre contrade, e specialmente nella zona della Grecìa salentina, da Soleto a Sternatia a Zollino… Chi non ha qualcosa da raccontare, a tale proposito?

Storie, saghe, canti, filastrocche: sulle macare (o “figlie della notte” come le chiamò poeticamente Petronio) c’è un’ampia letteratura, e moltitudini di testimoni fedeli che possono giurare di averle vedute in azione, quando si riuniscono e ballano al fuoco dei falò nei loro orgiastici “sabba” sotto il magico noce, o nell’atto di attraversare i cieli nei pleniluni d’estate a cavallo di scope, rapide come fulmini, o si trasformano in gatti o volpi o uccelli notturni per spaventare e irretire i comuni mortali…

Ma la loro specializzazione sono le macarìe, le fatture.

Della più semplice e diffusa – infallibile per ritrovare l’amore perduto – vi posso perfino dare la ricetta originale, garantita dalla vecchia zia Teresina, che quand’eravamo piccoli qualche volta ci raccontava, con grave solennità, prima di addormentarci. Con l’effetto, peraltro, che noi non ci addormentavamo più, e se ci addormentavamo era una notte di sogni mirabolanti.

Allora: procuratevi una ciocca di capelli dell’amato (o amata), e un’arancia (simbolo del mondo). Con la cera di una candela accesa fate un buco al centro dell’arancia e dentro sistematevi la ciocca. Avvolgete il frutto con uno spago, e dopo avervi fatto un nodo ben stretto, appendetelo ad un bastone di legno, e finalmente conficcate aghi o spilli sulla buccia, facendo attenzione a declamare ad ogni puntura gli opportuni scongiuri e le  rituali formule magiche. Dopodiché, custodite con cura l’arancia sotto il materasso: essa diventerà un potente talismano, che in poco tempo farà tornare il desiderato (o desiderata) amante, legandolo a voi come lo spago annodato all’arancia.

Sarà infine utile chiarire un piccolo dettaglio: se non conoscete gli scongiuri e le formule magiche da recitare (che la zia Teresina conosceva a menadito, ma che io ho purtroppo dimenticato), l’unica alternativa valida è quella di rivolgervi ad una macara di professione.