LA NASCITA NEL MONDO CLASSICO

L’ingresso nella vita e nella società

di Tullia Pasquali Coluzzi e Luisa Crescenzi

Il momento più importante del percorso umano è quello del passaggio dal seno materno al seno della famiglia, ma è anche il più difficile, tanto che la sua pericolosità, sottolineata oggi dal detto popolare “Lascia il fuoco ardente e corri dalla partoriente”, veniva percepita già dai primitivi: al momento del parto uomini armati presidiavano la porta della capanna e con sonagli vari tenevano lontani gli spiriti malvagi.

La donna greca e quella romana partorivano sedute, generalmente, su una sedia con un’apertura a mezza luna nel fondo; la levatrice poteva, così, intervenire manualmente, durante la fase dell’espulsione, per favorire la dilatazione del collo dell’utero, per tagliare il cordone ombelicale (con una lama, come suggeriva il medico orientale del II secolo dc., Sorano di Efeso, o con attrezzi più contaminanti, come frammenti di

vetro o di canna) e, infine, per raccogliere il neonato.

Se la sedia non aveva braccioli sui quali la partoriente potesse fare forza, si posizionava dietro di lei un’assistente della levatrice per sorreggerla (posterior).

Assisteva alla nascita, per raccogliere il frutto del parto, una donna anziana chiamata in greco maia, in latino obstetrix .colei che sta davanti… Che il suo ruolo rivestisse grande importanza lo afferma Platone: la levatrice deve essere «intelligente, pronta di memoria, attiva, robusta, pietosa, sobria, paziente» e Muscione, scrittore bizantino, proponeva a costei una sorta di decalogo e cioè: «tranquillizzare le partorienti, esortarle a spingere verso il basso trattenendo il respiro». Le ostetriche, come ci precisa Marinella Corridori, provenivano probabilmente dall’Oriente ellenistico molto più progredito nell’arte medica esercitata anche dalle donne. Ce lo testimonia un’iscrizione funeraria del I-II secolo ac. dedicata ad una donna medico, tale Mousa, e conservata nel museo di Istanbul. Esse percepivano una somma per nulla disprezzabile ma erano guardate con una certa diffidenza come persone che, non controllate dagli uomini, potevano procurare aborti oppure introdurre dolosamente nella famiglia un bastardo aiutando la donna a fingere una gravidanza. Nel mondo antico il neonato che, secondo arcaiche credenze, proveniva dall’aldilà, per essere accolto nella famiglia doveva essere liberato dalla sua natura demonica con vari riti iniziatici. Ad Atene ciò avveniva in un arco di tempo che andava dal quinto al decimo giorno dalla nascita, durante la cerimonia chiamata Amphidromia (gr. Amphì “ intorno” – dromos  “corsa”): il padre o le due donne che avevano fatto da levatrici, sollevato il bambino e tenendolo tra le braccia, correvano per tre volte intorno al focolare pronunciandone il nome. Il fuoco aveva per gli antichi una funzione rigeneratrice e, nel caso di neonati mitici, serviva per una sorta di rito di iniziazione. Nell’inno omerico A Demetra, la dea, tentando di dare l’immortalità al figlio del re Celeo, lo immerge nella fiamma ma è impedita dal portare a termine l’operazione dalla madre di lui terrorizzata. Se il padre non compiva l’atto di sollevare il figlio, condannava lo sfortunato – più spesso la femmina – ad un destino di schiavitù e di prostituzione. Di ciò erano talvolta responsabili le stesse levatrici che denunciavano le malformazioni invalidanti dei neonati. Ma è anche esposti per vari motivi sulle acque o sui monti, sono stati consegnati dalla tradizione biblica o mitica a una fama straordinaria: Mosè, Paride, Ciro il Grande, Romolo e Remo e altri. Essi vivono a contatto con la natura, allattati spesso da animali selvatici o da povere donne e emarginati dalla società civile a cui ritornano dopo avere rapidamente acquisito abilità straordinarie. Per la nascita di un figlio i greci adornavano i battenti delle porte con ghirlande di ulivo, se maschio, o con bende di lana, se femmina; questi elementi erano legati rispettivamente al mondo virile e a quello muliebre. Anche a Roma il neonato veniva deposto in terra dall’ostetrica che ne aveva in precedenza constatato la sanità; il pater familias aveva la facoltà di riconoscerlo con l’atto di sollevarlo invocando la dea Levana e di prenderlo in braccio (tollere liberos da cui il nome Tullio o Tullia .riconosciuto. e quindi .amato. dal padre), o di esporlo. Per la femmina ci voleva qualcosa di più per essere accolta in seno alla famiglia: il pater familias doveva ordinare di allattarla e, mentre comportava una sanzione esporre un maschio o la primogenita, il reato di abbandono delle bimbe nate successivamente non veniva contemplato dalla legge; che le raccoglievano era un ottimo investimento avviarle alla prostituzione o alla schiavitù. Subito dopo la nascita, il neonato veniva lavato, per tergerlo dal sangue materno, con acqua e sale o con vino, come usavano fare gli spartani9, o, come facevano i greci, bagnandolo con rugiada, e ungendone con l’olio il corpo, gli occhi e le narici per aumentarne il vigore. I romani mettevano sulle labbra la mola salsa (potrebbe questo rito richiamare quello del sale usato, prima della riforma del rito romano, durante il battesimo, sale che nella simbologia biblica è utile farmaco che preserva dalla corruzione, segno di sapienza e di ospitalità). Il cordone ombelicale, cosparso di miele o di sale, ricoperto con tessuto imbevuto di olio o di strutto, veniva stretto da una fascia. Quando esso cadeva, si metteva sull’ombelico una rondella di piombo tenuta ferma da una striscia di stoffa. L’uso della fasciatura per proteggere il corpicino da malformazioni e da cattive posture risaliva a tempi lontani: nel santuario di Vulci, in Etruria, sono state trovate, come ex voto, statuine in terracotta di neonati avvolti da bende a spirale, col capo coperto e con la bulla apotropaica attaccata al collo; nel museo archeologico di Atene una statuetta rappresenta un piccino avvolto da un panno tenuto ben stretto da un lungo nastro che gira intorno al corpo (particolare curioso: la fasciatura lascia scoperto il culetto per permetterne la pulizia); inoltre monete romane ci mostrano infanti, stretti da fasce, in braccio alla dea del parto, Giunone Lucina. Ma, come testimonianze di un tempo ancora più lontano, ci restano rozze statue osche, provenienti da un santuario e conservate nel museo archeologico di Capua; raffigurano la dea della fecondità Mater Matuta con in grembo più neonati in fasce. Furono offerte da madri antiche in voto per una desiderata o ottenuta nascita. Le fasce dei figli dei ricchi romani erano talvolta di colore rosso porpora forse per motivi apotropaici; dopo qualche tempo, ne erano liberate le braccia con la priorità di quello destro perché il piccolo non diventasse mancino, cosa molto temibile. Il suddetto Sorano di Efeso prescriveva nel suo trattato Perì epidèsmon (Sulle fasciature), fornito spesso di pratici consigli, che la fasciatura fosse di lana; il corpicino doveva essere preventivamente unto ben bene di olio, poi dovevano essere stretti nelle fasce prima le braccia separatamente, poi il busto, e infine le gambe una per una e poi unite; il tutto, coperto da un fasciatore dai piedi al collo, doveva essere ancora fermato da una lunga benda girata intorno a spirale. Nove giorni dopo la nascita per il maschio e otto per la femmina (primordia), si procedeva, anche per le persone che avevano assistito al parto, alla purificazione attuata con l’acqua (dies lustricus corrispondente al rito greco dell.Amphidromia). Al rito presiedeva la dea Nundina (nome proveniente appunto da nono die). In tale occasione il neonato era ammesso solennemente nella comunità e riceveva il nome (triplice se maschio, unico se femmina); per lui si invocavano i Fata preposti al destino. Fino a quel momento la puerpera e il piccolo venivano protetti da tre uomini che, impersonando le divinità Intercidona, Pilumnus e Deverra, tenevano lontano dalla soglia Silvano, rozza divinità dei boschi: la prima colpiva la soglia con una scure, il secondo con un pestello, la terza la spazzava. Lo strano rito aveva evidenti fini apotropaici ed era messo da Varrone Reatino in connessione con l’arcaico mondo agricolo: «Gli alberi si potano col ferro, il farro si tritura col pestello, poi si ammucchia con la scopa». Era uso che si recassero al piccino doni in tale quantità da far sostenere a quel maligno di Giovenale che «una moglie sterile è molto apprezzata da amici e parenti10». Erano o graziosi oggettini da attaccare al collo o giocattoli costituiti da bamboline, amuleti vari, specie sonaglini di terracotta in forma di animaletti con all’interno un sassolino (crepundia da crepo “risuono”); servivano, oltre che da trastullo, ad allontanare, una volta a contatto con la pelle, gli spiriti11 e, talvolta, da riconoscimento per i bimbi esposti. Costituiva un regalo apotropaico anche un pendente col numero 13 che aveva . e ha tuttora . una duplice valenza: protettiva se attaccato al collo, del tutto negativa se riguardante i convitati. L’appartenenza alla classe sociale dei liberi era sottolineata dalla bulla, amuleto di forma sferica, in oro per i ricchi, in cuoio per i poveri, che, nel rito di passaggio per il compimento della maggiore età celebrato durante le feste dei Liberalia, veniva dai ragazzi abbandonato, insieme alla toga pretesta, e dedicato alle divinità curotrofe (nutrici di bambini). A tale proposito lo storico greco Plutarco sostiene che questo amuleto aveva una sua valenza morale perché suggeriva la purezza dei ragazzi liberi che non doveva essere offesa. In seguito poterono indossare la bulla anche i figli dei liberti. Solo per i maschi troviamo testimonianza della bulla. Nei corredi funebri delle femmine, invece, sono state rinvenute le pupae, bamboline di avorio o di osso dall’aspetto di piccole adulte (talvolta con gli arti, del tutto o parzialmente, snodabili) che avevano, secondo alcuni, virtù apotropaiche. Ne troviamo qualche esemplare anche nel Museo Nazionale Romano (la più famosa è quella della tomba di Grotta Rossa dove fu trovata la mummia di una bambina). Esse, ornate spesso di miniature di gioielli, venivano dedicate a Venere dalle ragazze che si accingevano al matrimonio. Molti dei ninnoli erano di ambra, resina fossile conosciuta fin dal neolitico e apprezzata nel mondo antico per la sua trasparente bellezza e per proprietà magiche e terapeutiche che vengono ricordate anche da Plinio il Vecchio. Nel mondo classico l’ambra, come principio di vita e fecondità, veniva collegata con la figura della Dea Mater. D’altronde, fino ai nostri tempi si è creduto al potere apotropaico dell’ambra contro mali, come le affezioni delle vie respiratorie e contro gli incubi notturni per i quali si usava anche cospargere le tempie dei neonati con olio, oppio, aceto e seme di papavero. Bisogna ricordare che nel mondo antico, e poi in quello moderno, in campo umano erano attribuiti poteri di magia apotropaica nei confronti dei loro protetti anche alle levatrici e alle nutrici. Ad Atene veniva dedicata una certa attenzione al mondo dell’infanzia nel secondo giorno delle Antesterie, feste che celebravano tra febbraio e marzo il vino nuovo e la fine dell’inverno. In un rito di conferma, molto importante per il cittadino ateniese, bimbi di tre anni, incoronati di fiori, ricevevano in dono anforette (choes) su cui erano rappresentate scenette infantili.