Latino docet

LATINO VIVO

Gesù Cristo re dei Giudei

Quod scripsi scripsi

Ciò che scrissi, scrissi”.

Frase attribuita a Pilato, che rifiutò di cambiare il cartello posto in cima alla croce su cui era crocifisso Gesù.

Il cartello era scritto in Latino, Aramaico e Greco, in modo che fosse letto dalla tanta gente accorsa sul Golgota, nei pressi di Gerusalemme, che a quel tempo era una città cosmopolita.

A parlarne è l’apostolo Giovanni nel suo Vangelo.

Egli riporta testualmente: “Sul cartello era scritto Gesù Nazareno, re dei Giudei. Molti di costoro lessero il cartello e ne rimasero alquanto turbati, poiché ritenevano che Gesù non fosse il loro re. Per tale motivo pregarono insistentemente Pilato di cambiare il cartello, sostituendolo con ‘Gesù ritiene di essere re dei Giudei’.

Pilato, forse addolorato per la decisione troppo frettolosamente presa di crocifiggere Gesù, rifiutò seccamente di sostituire il cartello, replicando: “Ciò che scrissi, scrissi”.  (XIX, 19-22)

Parturient montes, nascetur ridiculus mus

I monti avranno i dolori del parto, nascerà un ridicolo topo”.

Verso di Orazio (Ars poetica, v. 139) che intende minimizzare una favola di Esopo, il cui contenuto non è all’altezza di quanto descritto nella prefazione della stessa.

La frase va interpretata per estensione a tutti quegli eventi che, magnificati all’inizio e pubblicizzati al massimo, alla fine sono molto inferiori alle attese.

Ad esempio un film molto propagandato attraverso giornali, riviste e varie Tv risulta poi essere un film di media o, addirittura, bassa levatura cinematografica.

Stessa cosa si usa dire per un calciatore o un cantante, dati come future promesse del calcio o della canzone, ma che poi si dimostrano molto inferiori alle speranze dei tifosi della squadra che ha tesserato il calciatore oppure della casa discografica che ha incautamente scritturato il cantante.

Calamari in padella

De gustibus non est disputandum

Sui gusti non si deve discutere

Si tratta di una sentenza celeberrima, oggi molto diffusa a livello popolare, non soltanto in Italia ma anche nei paesi europei di origine latina.

Si racconta che a cena in un ristorante, il celebre attore Macario, venne rimproverato da un amico per aver scelto un piatto di calamari e seppie.

Macario prontamente gli rispose, commettendo però un grave errore nella parte finale del suo dire: “Amico mio, de gustibus non est… sputandum”.

L’amico, professore di latino, si lasciò andare a una sonora e lunga risataccia. Quasi piangente per il grossolano errore dell’attore comico, replicò: “Si dice… de gustibus non est disputandum e non sputandum”.

Macario rimase quasi stordito, accusò il colpo ma, dopo poco, se ne uscì brillantemente ribattendo: “E no… e no, amico mio! qui stiamo mangiando calamari e seppie… questi succulenti animaletti sputano inchiostro e non lo disputano!”.

Stavolta fu l’amico professore a rimanere senza parole, poi, con un sorriso di compiacimento, gli rispose: “Che bravo che sei, caro Erminio. Sei per davvero un grande attore e un ottimo improvvisatore!”.

Scorpione

“In cauda venenum”

“Il veleno (è presente) nella coda”.

Si tratta di un modo di dire molto usato in passato tra la gens latina, un po’ meno attualmente.

Nella massima si fa riferimento al veleno che è presente nella coda di alcuni animali, ad esempio gli scorpioni.

In pratica si vuol indicare la malignità o, peggio ancora, la malvagità che si nasconde in un discorso apparentemente inoffensivo, ma che alla fine dello stesso sprigiona tutta la sua asprezza e cattiveria.

Consiglio: bisogna stare attenti a non accompagnare mai la dolcezza iniziale di un discorso di una persona, facendosi crescere un sorriso di compiacimento, in segno di accettazione. È bene che si lasci parlare la persona sino in fondo e, soltanto alla fine, esprimere un giudizio negativo o positivo.

 

“Dulcis in fundo”.

“La dolcezza si trova in fondo”.

È esattamente il contrario di quando espresso nel precedente modo di dire.

Fate sempre parlare sino in fondo una persona e non giudicate mai… in itinere il suo pensiero.

In alcune circostanze, infatti, l’intervento della persona potrebbe sembrare forte, duro, sprezzante, tanto che si è quasi indotti a salutare l’amico e andare via. Niente di più sbagliato.

È necessario far terminare il discorso a colui che è apparso deciso e forse anche arrogante, ma che poi ha chiuso il suo intervento consigliando l’uditore ad assumere sempre nella vita un comportamento adeguato e responsabile per non incorrere in inopportune scelte di vita completamente errate e dannose.

Insomma tutto ciò che inizialmente è sembrato un rimprovero o una forte reprimenda, si è poi sciolto in un ottimo consiglio e in un salutare avvertimento.

La montagna e il topolino

Timeo Danaos et dona ferentes.

“Temo i Greci e i doni che offrono”.

È Publio Virgilio Marone a parlarci di un episodio importantissimo che decise le sorti della guerra tra Greci e Troiani, grazie a uno stratagemma che determinò la presa di Troia. I Greci (Danaos), facendo finta di abbandonare la spiaggia dove si erano accampati per dieci anni, lasciarono nei pressi delle porte Scee un enorme cavallo di legno, all’interno del quale erano nascosti una decina di soldati, capeggiati dall’indomito Ulisse.

I Troiani ci cascarono nel trabocchetto, facendo entrare l’enorme cavallo in città e dando modo a Ulisse e ai suoi guerrieri di venirne fuori durante la notte, per aprire le porte e far entrare una corposa schiera di Greci, che si erano nascosti in un bosco vicino.

A nulla valsero le implorazioni di Laocoonte e Cassandra ad abbandonare il cavallo fuori dalla città e a darne fuoco, presagendo la fine di Troia, se incautamente i troiani lo avessero fatto entrare tra le mura.

La dea Athena, che parteggiava per i Greci, ordinò a due grossi serpenti Porcede e Caribea di venire fuori dalle acque e avvolgere tra le loro spire l’incauto sacerdote e i suoi due figli.

Dopo l’uccisione dei tre, i troiani stupidamente credettero in un buon presagio, cosicché decisero di accettare il regalo dei Greci e di festeggiare per tutta la notte la fine delle ostilità.

Questo antico adagio viene utilizzato allorquando una persona, avendo ricevuto un regalo inaspettato e senza alcuna motivazione, teme che sotto sotto ci sia qualche sgradita sorpresa.