GLI SQUADRISTI A GALATINA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Erano noti come gli squadristi di don Vito

di Carlo Caggia[1]

Quando nel 1967, sollecitato da Tommaso Fiore, pubblicai il mio primo libretto di storiografia politico-sociale – allora completamente estraneo alla tradizione salentina – (“Carlo Mauro, pioniere del socialismo salentino”), venendo a trattare degli albori del fascismo a Galatina, così mi esprimevo: “Galatina non era, non fu e non sarà mai fascista (…). I fascisti furono e rimasero sempre una sparuta minoranza. Solo quando Vito Vallone, fratello di Antonio, aderì al fascismo, subito dopo la marcia su Roma, Galatina fu “fascista”. Tolta però quella minoranza di cui si è detto e che caratterizzò anche qui per la sua violenza e tracotanza, gli altri “fascisti” furono in sostanza dei moderati tanto che il popolo stesso, onde distinguerli, spontaneamente li chiamò “i fascisti di don Vito”.

Questa minoranza di esagitati, però, si coprì di azioni delittuose di notevole gravità, omettendo in questa sede quelle “minori” e cioè “purghe”, bastonate, minacce di incendio delle case dei “sovversivi”. Gli episodi a cui facciamo riferimento sono esattamente tre:

  • l’incendio della Camera del Lavoro del 23 dicembre 1922;
  • l’assassinio del giovane Giuseppe Monte del 12 novembre 1922 a Sogliano Cavour (“un gruppo di fascisti di Galatina uccise il giovane Giuseppe Monte “Pietro Refolo, Lecce, Argo, pag. 82);
  • l’assassinio di Salvatore Campa avvenuto a Noha di Galatina nel febbraio 1923 (“ad opera di una squadra di fascisti di Galatina“).

D’altra parte la formazione del nucleo originario fascista (la sezione del Fascio nacque a Galatina “dopo” la marcia su Roma) fece breccia in alcune famiglie dell’alta borghesia, nella masse piccolo-borghesi rurali ed artigiane con la presenza anche di elementi sbandati.

Naturalmente l’evoluzione del Fascismo nei suoi vent’anni di dominio portò all’adesione di “persone per bene” che trovavano nel fascismo la risposta alle loro esigenze di “ordine”, a cui però sacrificavano il primo diritto dell’uomo, cioè la libertà.

D’altra parte, come ha già ricordato onestamente il presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante, in tempi successivi tanti giovani aderirono alla Repubblica di Salò e ciò rende necessario capirne le ragioni.

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E’ noto che gli squadristi agivano indisturbati perché protetti dalle forze dell’ordine e perciò naturalmente più forti e spavaldi. Qualche scaramuccia ci fu a Galatina, oltre che con i Socialisti, anche con le Camicie Azzurre Nazionaliste e, anzi alcuni Arditi – che erano confluiti nel fascismo – quando questo rilevò il suo volto violento e prevaricatore, si ritirarono a vita privata.

L’episodio più spettacolare e, in un certo senso più drammatico, fu l’incendio della Camera del Lavoro. Tra piazza San Pietro e corso Garibaldi si svolse il grande falò del 23 dicembre 1922 al quale parteciparono venticinque squadristi.

Ciò che colpì e disgustò i galatinesi fu che gli incendiari bruciarono, oltre alle suppellettili, anche “un busto di Edmondo De Amicis, una cassa da morto e la lapide dei morti in guerra”.

L’aver bruciato l’urna dei Muratori fu un gesto considerato sacrilego dalla buona gente di Galatina e il suo ricordo ha accompagnato molte generazioni di galatinesi.

Tanto per concludere, non si può qui omettere che, dopo venti anni di avventure e di ubriacature, di isolamento internazionale, politico e culturale dell’Italia, il 25 luglio del 1943 a Galatina non si trovava più un fascista a pagarlo a peso d’oro.

Lo “squagliamento” fu generale e corale. Solo intorno al 1946, smaltita la paura, fecero la loro ricomparsa i “nostalgici”.

L’epurazione era stata fatta all’acqua di rose e l’amnistia di Togliatti aveva fatto il resto.

[1] Questo articolo è stato tratto dalla raccolta “Scritti sparsi di fine millennio”, pubblicato da Arti Grafiche Panico di Galatina nel 2000, con prefazione di Antonio Liguori.