LE PAURE DEL TERZO MILLENNIO E L’UTOPIA RETROVERSA

di  Giuseppe Magnolo

L’età dell’ansia e i ricorsi storici. Se si volesse dare una definizione pertinente e comprensiva del periodo storico che stiamo vivendo, lo si potrebbe chiamare “Età dell’ansia”. Come è avvenuto per alcune epoche del passato (Rinascimento, Illuminismo, Romanticismo, Decadentismo, ecc.), il criterio che guida gli studiosi in cerca di un’etichetta adeguata da attribuire in queste circostanze è quello di adottare una denominazione che esprime lo stato d’animo prevalente in una determinata fase temporale, suggerendo anche una visione prospettica distintiva che metta in luce i tratti salienti di quel momento storico, collegandolo al passato e soprattutto proiettandolo verso un futuro auspicabilmente migliore. Per la verità la definizione “Età dell’ansia” non è nuova, ed anzi vi è chi l’ha già adoperata in riferimento ai primi decenni del Novecento, contraddistinti inizialmente dalla crisi dei valori tradizionali (moralità, religione, modelli culturali e artistici), e culminati nella crisi finanziaria del 1929, che con i suoi effetti recessivi sull’economia di diversi stati fornì la spinta decisiva finale all’affermazione dei regimi totalitari, con le tragiche aberrazioni che accompagnarono il secondo conflitto mondiale. A ben riflettere, è possibile trovare diverse analogie tra quel periodo e quello attuale, a riconferma della validità dell’intuizione di Giambattista Vico[1], che, in contrasto con l’idea di uno sviluppo storico lineare che produce un costante progresso, come  sostenuto in particolare dal razionalismo illuminista, affermava che il divenire storico presenta un andamento ciclico, fatto di corsi e ricorsi continui, in cui è possibile individuare dei tratti che accomunano epoche diverse, seppur con le debite differenze.

Le criticità condivise. Riesce abbastanza facile porre in evidenza diverse caratteristiche che accomunano il primo Novecento e gli inizi del secolo attuale. Tra le più importanti troviamo il disorientamento prodotto dalle rapide trasformazioni sociali provocate dai progressi scientifici e tecnologici (ieri  la rivoluzione industriale, oggi quella informatica); la finanziarizzazione dell’economia con le sue devianze speculative; i condizionamenti sull’organizzazione industriale causati dai mercati e dagli approvvigionamenti di materie prime; le fasi di stagnazione produttiva conseguenti al calo della domanda di beni e servizi;  gli effetti devastanti di quest’ultima sull’occupazione; senza tralasciare la protesta sociale incanalata verso esiti di nazionalismo rampante. Sul piano più generale aspetti esiziali per  la possibilità di tenuta dell’organizzazione sociale sono inoltre costituiti dal discredito che, ora come allora, ha investito la classe politica e i partiti tradizionali, e dalla inevitabile ricerca di un capro espiatorio che funga da bersaglio per il malcontento e la montante protesta, che si manifestano con una aggressività sempre più difficile da contenere. Ciò fa tornare alla mente le parole dell’Ecclesiaste (1,9)Nihil novum sub sole”: sulla terra da millenni si ripetono le stesse situazioni e non c’è nulla di veramente nuovo sotto il sole. Pur evitando qualsiasi fatalismo rinunciatario, è difficile negare la sensazione sempre più avvertita di trovarsi a ripercorrere un sentiero già esplorato. Tuttavia proprio il ricordo di ciò può consentire di mettere a frutto la lezione della storia, traendone spunto per evitare errori già commessi in passato.

Il deterioramento inarrestabile. Il risultato più deleterio della situazione odierna è un innegabile stato di precarietà, di insicurezza, di ansia permanente che attanaglia gran parte della popolazione non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa e in tutti i paesi più avanzati, generando varie motivazioni di paura di fronte alle difficoltà economiche e al deteriorarsi continuo delle condizioni di vita. Si va dal timore per la perdita del posto di lavoro alla minaccia per l’incolumità personale e i beni di proprietà (aumento di furti e aggressioni), dal peggioramento delle condizioni di lavoro ai problemi derivanti dalla globalizzazione e dai guasti ambientali, dalla soppressione di servizi essenziali alle difficoltà di accesso al credito per la gente comune, dall’invasione dello spazio vitale da parte degli immigrati all’indifendibilità della privacy contro le violazioni informatiche. La sensazione più desolante è la convinzione diffusa  di stare peggio di prima, dato che molte persone devono rinunciare a diversi optionals che prima potevano permettersi (cibo, vestiario, vacanze), e ancor di più la constatazione che attualmente un posto di lavoro per chi vi aspira è un miraggio sempre più difficile da conseguire, e richiede al lavoratore maggiori sacrifici in termini di retribuzione, di tutela, come pure di distanza dal luogo di residenza (i dati crescenti sugli espatri in cerca di lavoro lo attestano).

Giambattista Vico

Segnali di ripresa e pessimismo esistenziale. Le statistiche recenti pongono in evidenza una ripresa economica che consente di affermare che, a un decennio di distanza dall’inizio dell’ultima grave crisi finanziaria, il peggio è ormai alle spalle. Ciò nonostante la percezione della gente comune è persistentemente dominata da un pessimismo che spegne ogni residua speranza circa la possibilità di un futuro miglioramento rispetto alle difficoltà del presente. Tra molti, due elementi in particolare spazzano via qualunque barlume residuo di fiducia nell’avvenire: il primo, di ordine fattuale, è rappresentato dal significativo incremento del divario registrato negli ultimi anni nella distribuzione della ricchezza, il che significa che, mentre i ceti meno abbienti (la stragrande maggioranza della popolazione) si sono ulteriormente impoveriti, i ricchi (relativamente pochi), seppur diminuiti come numero totale, hanno accresciuto di molto i loro patrimoni, sia a livello individuale che societario. Ma ancora più grave risulta la constatazione relativa alle previsioni espresse dalla maggior parte delle persone intervistate, le quali, in qualunque fascia d’età, e probabilmente per la prima volta nella storia del mondo civilizzato, non esitano ad affermare che le condizioni di vita delle nuove generazioni saranno “sicuramente peggiori” di quelle dei loro genitori.

Il sogno infranto. In questa situazione di cronica precarietà, che nega ogni certezza e condanna qualunque tentativo di reazione positiva all’inconcludenza, che fine hanno fatto le antiche aspettative di successo individuale (quisque faber fortunae suae); i sogni di palingenesi dell’umanità; le possibilità di affermazione dei fondamentali diritti civili di libertà, uguaglianza, fraternità; le visioni messianiche delle grandi ideologie dell’Ottocento (socialismo, comunismo, liberal-democrazia), che promettevano una società più giusta, sollecita verso i bisogni di tutti, pronta ad offrire a chiunque le stesse opportunità? Al momento appaiono tutte svanite, schiacciate da una opprimente cappa di rassegnazione, o paralizzate dall’individualismo che contraddistingue la moderna società consumistica, rendendo sterile qualunque velleità di rivendicazione collettiva. L’Utopia concepita da Tommaso Moro[2] cinque secoli fa è stata a lungo in cima alle aspirazioni di chiunque desiderasse realizzare “un piccolo paradiso in terra”, auspicata soprattutto perché ripartiva equamente il lavoro e i suoi risultati fra tutti i cittadini dello stato, provvedendo alle loro necessità, e lasciando a chiunque ampi margini di tempo libero da usare a proprio piacimento, preferibilmente per attività di carattere culturale. Questo ideale si è poi infranto nel Novecento di fronte alle devastazioni causate dai regimi totalitari e al successivo clima di guerra fredda, che ha trasformato il sogno precedente nel suo opposto, per cui l’utopia è diventata distopia, ossia visione da incubo, nuova apocalisse, paura di annientamento totale provocato dal potenziale distruttivo degli arsenali nucleari e dalla furia incontrollata di qualche mente malata, che in modo ricorrente si agita sinistramente sulla scena mondiale.

Tommaso Moro

Il fascino nostalgico del passato. Seppure accomunate dalla proiezione verso il futuro, tanto l’originaria utopia positiva che la sua negazione distopica appaiono oggi insostenibili sul piano teorico, e assai improbabili (se non impossibili) nella realizzazione pratica. Soprattutto risultano dissuasive proprio perché rivolte verso un futuro che si dimostra tutt’altro che allettante. Ecco perché secondo il sociologo Zigmunt Bauman[3], che ha analizzato a fondo i diversi aspetti evolutivi della società post-moderna, l’epoca attuale ha scelto di invertire totalmente la rotta per elaborare una nuova forma di utopia, che egli opportunamente definisce “Retrotopia”, in quanto guarda al passato con nostalgia, rievocandolo in chiave volutamente consolatoria ed appagante, in forte contrasto con le delusioni del presente. Si badi che non si tratta di una episodica rivisitazione di un lontano passato, come già avvenuto in altre epoche storiche, per coglierne aspetti particolari o rivelare alcune affinità di sentire (ad esempio l’interesse dell’umanesimo verso la classicità greco-romana, o quello del romanticismo verso il medioevo). Secondo lo studioso polacco occorre invece prendere atto che si sta realizzando un’azione inarrestabile di pura restaurazione, che si contrappone al millenario processo di miglioramento delle condizioni di vita dell’intera umanità, che era rivolto principalmente alla difesa dell’interesse comune. L’attuale tendenza alla mitizzazione del passato nasce dunque dalla volontà di difendere i privilegi perduti, e di fatto rappresenta una immaginaria via di fuga anziché una opzione per il tempo a venire.

Particolarismo e disuguaglianza. Gli effetti regressivi  di questa ondata di ritorno si avvertono ormai a vari livelli. Sul piano sociale l’illegalità diffusa ha prodotto la perdita di autorevolezza dello stato (il “Leviatano” di Hobbes), generando l’impulso all’autoreferenzialità e alla disobbedienza civile (bellum omnium contra omnes). Sul piano etnico la paura dello straniero immigrato ha portato ad un nuovo tribalismo localistico, spesso mascherato dietro la pregiudiziale religiosa, tendente ad escludere chiunque sia considerato “diverso”. Ed infine dal punto di vista relazionale si deve tristemente constatare la perdita del valore tradizionalmente attribuito alla vicinanza fisica (ben diversa da quella fallace costruita tramite Internet) tra individui che ambiscono alla condivisione. La conseguenza di tutto ciò è l’abbandono di qualunque ideale di tipo solidaristico, il che non può che rimarcare gli effetti divisivi sulle persone e i diversi gruppi sociali, avallando il concetto di disuguaglianza tra gli esseri umani, quella discriminante negativa che per secoli è stata combattuta, ma che ora sembra trovare nuova legittimazione.

Le prospettive. Che cosa si può fare per impedire, o almeno contenere, queste pulsioni negative? E soprattutto, chi ha la capacità e la necessaria credibilità per farlo? Se si prova a guardare ai grandi leader mondiali che attualmente calcano la scena internazionale mostrandosi inclini a parlare spesso alla “pancia” dei loro elettori e raramente alla loro intelligenza, è inevitabile che ci si ritragga delusi. Basta considerare i gravi limiti che vincolano gli orizzonti mentali di Donald Trump, colui che ha il compito di guidare la prima potenza mondiale, o di qualche altro personaggio del suo calibro, per dimostrarne l’assoluta inadeguatezza. E ci sorprenderà, ma forse non più di tanto, il fatto che l’agnostico Bauman in Retrotopia, l’opera postuma che in qualche modo costituisce il suo testamento morale, abbia lanciato un messaggio che convintamente ripone le sue ultime speranze nella figura di Papa Francesco, l’unica voce che ancora tenta di farsi carico del destino dell’umanità intera. Le parole di Francesco sull’importanza del dialogo come mezzo per superare le differenze di cultura, religione, organizzazione sociale e politica, sono le sole che permettono di contrastare la malriposta fiducia negli interessi egoistici o di parte, facendo spazio ad atteggiamenti di inclusività e di pacifica  coesistenza.

Zygmunt Bauman sociologo-filosofo

Contributi al dialogo costruttivo. Tuttavia rimane ancora il compito di definire in qualche modo “i contenuti del dialogo”, e ciò va fatto in ambiti e a livelli di responsabilità distinti, ma convergenti nel perseguire una finalità comune. La nostra opinione, in quanto operatori culturali, è che il dialogo debba soprattutto consistere in “ciò che ci sta veramente a cuore”, e che siamo in grado di fare sollecitando l’altrui interesse, tenendo anche conto dei diversi punti di vista. In fin dei conti l’esperienza di vita è un continuum in cui, come affermava Ferdinand de Saussure, “tout se tient”, ossia tutto si collega, per cui ognuno può fare la sua parte svolgendo un ruolo utile, sicché anche una piccola pietra può diventare la tessera di un grande mosaico. Ecco perché riteniamo sia da considerare positivamente lo sforzo di chi ha cercato, impegnandosi tra molte difficoltà, di ridare voce al Filo di Aracne, una palestra di civile confronto ad elevare il grado di consapevolezza individuale e collettiva, e al tempo stesso una finestra aperta da cui si può spaziare sulla realtà presente, sul passato che l’ha prodotta, ed anche sull’incerto futuro.

[1] Giambattista Vico (1668-1744), filosofo fra i maggiori di ogni tempo, fu anche storico e giurista. Dal 1698 tenne la cattedra di eloquenza nell’università di Napoli. Nella sua opera maggiore, Principi di Scienza Nuova (1725), egli espose la famosa teoria dei “corsi e ricorsi”, basata sulla concezione di uno svolgimento ciclico nella storia di ogni popolo, in cui incessantemente si susseguono istinto-ragione-fantasia, e a cui presiederebbe una provvidenziale mente divina. Importanti anche i suoi studi sull’origine del linguaggio, la facoltà immaginativa e la natura della poesia. La grandezza e l’originalità del pensatore, scarsamente riconosciute dai contemporanei, si sono imposte a partire dall’Ottocento.

[2] Tommaso Moro (1478-1535), nato a Londra, fu insigne umanista, giurista e uomo di stato. Tutore e amico personale del re Enrico VIII,  ricoprì importanti incarichi politici sia in patria che all’estero. Nel 1529 fu nominato primo ministro. Dopo lo scisma della chiesa anglicana (1533) egli si dimise dall’incarico, mantenendosi fedele alla religione cattolica  e rifiutando di riconoscere il sovrano come capo della chiesa di stato. Per tale ragione fu processato e giustiziato, come monito per tutti i sudditi del regno. Nel 1935 è stato proclamato santo e designato protettore degli uomini politici. Utopia (1516), scritta in latino in forma dialogica, è la sua opera più importante.

[3] Zygmunt Bauman (1925-2017) è stato fra i massimi intellettuali del secondo Novecento, un maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. Nato in Polonia da genitori ebrei, durante la seconda guerra mondiale fuggì nella zona di occupazione sovietica in seguito all’occupazione nazista. Dopo la guerra insegnò dapprima all’università di Varsavia, quindi emigrò in Gran Bretagna dove dal 1971 fu professore emerito di sociologia nell’università di Leeds, ottenendo anche la cittadinanza inglese.  Ha coniato la definizione “modernità liquida” per indicare lo stato di precarietà ed insicurezza che distingue la società attuale. Tra le sue numerose pubblicazioni sono da ricordare: Voglia di comunità (2001), Modernità liquida (2002), Vite di scarto (2005), Capitalismo parassitario (2009), Il demone della paura (2014), Stranieri alle porte (2016), e l’opera postuma Retrotopia (2017).