LE PREFICHE SALENTINE

Sin dagli inizi del 1800, la tradizione salentina vantava la presenza delle “chiangimorti”, donne velate di nero che, dietro compenso, si disperavano durante i riti funebri

di Valentina Vantaggiato

“…Scarmigliata, sdentata, svuotata nelle occhiaie, ti ho vista gironzolare per le strade ancora in cerca di qualcuno da piangere, qualcuno che rivalutasse le tue lacrime…Ti ho raggiunta per carpire le ultime, e spero le più ardenti per il tuo addio, gocce salate dei tuoi occhi, occhi di fondali bui, occhi di vegetazioni arboree, occhi per la mia umanità…”.

Sin dagli inizi del 1800, in molti centri salentini, era possibile incontrare, durante lo svolgimento dei riti funebri, coloro che la tradizione popolare chiamava “rèpute” o, con un termine più appropriato, “chiangimorti”. Grazie ai versi sopra riportati, composti dal poeta Angelo Lippo, possiamo risalire al loro autentico ritratto.

Le “prefiche”, come vengono definite in italiano, erano delle donne che, vestite con abiti scuri e coperte in viso con un velo nero, si recavano presso la dimora in cui giaceva il defunto e, stringendosi intorno al feretro, avevano il triste compito di compiangerlo e di decantarne le virtù.

Allo stesso modo, nella cultura romana, con la parola “prefica”, si indicava la figura femminile che partecipava ai cortei funebri ufficiali o a quelli dei membri di famiglie gentilizie, per cantare le lodi dell’estinto, alle quali si alternavano pianti, grida e gesti di disperazione.

Tale uso, venne tramandato in diversi paesi, quali la Grecia, la Romania, l’Albania e l’Irlanda, e in alcune regioni italiane, giungendo in Terra d’Otranto.

Molti studiosi si interessarono a questo argomento. Il dottor Salomone Marino, per citarne uno, interprete delle usanze popolari siciliane, costatò che, nel Medioevo, le “rèpute” ottennero dalla Chiesa un mandato ufficiale che “legalizzava” il loro operato, riconosciuto attraverso il pagamento del lavoro svolto.

A Castrignano de’ Greci, fino a qualche anno fa, era ancora in vita una di queste donne, anche se, da diverso tempo, prima che passasse a miglior vita, non veniva più chiamata a svolgere la sua mansione, perché tali usi si erano persi fra le rughe del tempo.

Il suo nome era Concetta. Divenuta una dolce e nota vecchietta, concesse un’intervista alla RAI, il cui staff giunse nella cittadina per filmare una cerimonia funeraria, organizzata appositamente per l’occasione. Anche se, di fatto, il morto non c’era, la scena fu così drammatica, e la “chiangimorti” talmente convincente, che i presenti si commossero, facendosi scappare qualche lacrima.

Noi prefiche”, dichiarò Concetta, “non piangevamo mai, facevamo piangere le altre donne, quelle della famiglia del morto. Conoscevamo le strofe a memoria e poi inventavamo secondo i casi”. Era consuetudine, infatti, recitare delle cantilene, tramandate oralmente, con voce triste e sommessa, accompagnandole con lunghi lamenti e singhiozzi e, molto spesso, con un gesto del fazzoletto.

Te dhu vinne stu iéntu réfulu, ca quistu vinne de la marìna, e vinne a casa mia, e ne spezzàu la meju cima” (“Da dove è venuto questo vento vorticoso, questo è venuto dal mare, è venuto a casa mia, ed ha spezzato il migliore ramo”).

Queste filastrocche, una volta molto diffuse nel Salento, sono cadute, quasi completamente, nel dimenticatoio. Ciò, si è verificato in seguito all’abbandono, da parte dei contadini, delle campagne e all’incremento dell’alfabetizzazione, fattori che modificarono la vita e le abitudini di tutta la popolazione.

Le ultime “rèpute” salentine di cui si hanno notizie, Assunta e Cesaria, vennero segnalate a Martano da Luigi Chiriatti, profondo conoscitore delle costumanze di questa terra. Egli, come l’équipe televisiva menzionata prima, chiese il permesso di registrare i loro canti fuori dal contesto abituale, ma non gli venne accordato, perché queste donne erano convinte che cantare le filastrocche senza il morto portasse sfortuna.

Compito delle prefiche”, scrisse il Chiriatti, “era quello di toccare le corde dell’anima”. E per raggiungere il più alto grado di drammaticità e, di conseguenza, creare una situazione verosimile,  venivano educate sin dalla tenera età ad esternare la propria afflizione verso i tramonti della vita.

Nel 1860, il glottologo Giuseppe Morosi, pubblicò una raccolta di nenie greco-salentine, opera prima nel suo genere, tralasciando, però, le versioni in dialetto. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che, negli antichi villaggi di Terra d’Otranto, vi era una moltitudine di individui che non conosceva la parlata greca e questo costringeva le prefiche ad esprimersi anche nella lingua dialettale romanza.

La veglia funebre era caratterizzata dalla rappresentazione, se così si poteva definire, straziante delle donne prezzolate, che si logoravano in lamenti lancinanti e, spesse volte, esagerati, ed emettevano assordanti grida che, quasi sempre, superavano quelle dei parenti stessi, realmente turbati per la morte del loro caro.

Non si poteva rimanere impassibili di fronte a tanto sgomento e a tanto dolore, sia che esso fosse stato sincero oppure simulato, reale o illusorio.

All’arrivo del sacerdote, che entrava in casa per benedire il defunto e per condurlo nel luogo del seppellimento, il rito raggiungeva l’apice dell’esasperazione.

Mi sovviene lo spettacolo pirotecnico che conclude le feste patronali. Inizialmente vengono sparati tre fuochi artificiali che invitano la gente a fermarsi e a guardare. Poi, si susseguono le evoluzioni fra il luccichio degli astri celesti. E, in ultimo, si scatena il finimondo. Un fuoco dopo l’altro. E incalzano gli scoppi, i rumori assordanti, tanto che non ci si può trattenere dal chiudersi le orecchie, nella speranza di attenuare quel fracasso e trovare un po’ di sollievo. E poi… il silenzio.

Allo stesso modo, dopo che il pastore prelevava l’estinto e lo allontanava dal luogo in cui era sempre vissuto, circondato dall’amore dei suoi familiari, sopraggiungeva il silenzio. Tutti tacevano e tornavano nelle loro case. Così, anche le prefiche si allontanavano da quell’incubo, e riprendevano la vita di sempre, fatta di cose umili.

Nell’era moderna, un simile atteggiamento, potrebbe sembrare alquanto macabro e ingiusto, ma nella società arcaica era una consuetudine molto apprezzata e sentita.

Oggi, i funerali sono soltanto una triste realtà che, prima o dopo, interessa tutti, ma, un tempo, costituivano una fase importante della vita di ciascun individuo. Erano momenti forti, carichi di alti significati, che lasciavano tracce indelebili nel cuore di coloro che, sinceramente, li vivevano.

Negli anni in cui i sentimenti erano più veri e il dolore necessario, forse anche un poveraccio, figlio di nessuno, al quale l’esistenza non aveva dato niente di concreto e nessuno che piangesse per la sua scomparsa, poteva passare a miglior vita accompagnato dalle lacrime di una donna che, anche se sola, poteva cambiare l’ordine delle cose. Una donna dal cui volto trapelava l’attaccamento alle proprie radici, alle proprie tradizioni. Una donna i cui occhi, compassionevoli e colmi di coraggio, raccontavano storie differenti. “Occhi di fondali bui, occhi di vegetazioni arboree, occhi per la mia umanità…“.