Lu pòlice e lu zzinzale

Insetti simpatici ma fastidiosissimi

di Piero Vinsper

Se si volesse fare una carrellata nel tempo e vedere quanti poeti si siano interessati, nelle loro liriche, di animali, il discorso andrebbe per le lunghe. Dalla letteratura greca e latina alla letteratura moderna e contemporanea, da Esopo a Fedro, da Gualtiero Anglico a La Fontaine, da Trilussa ad Anouihl, da Esiodo a Pascoli, abbiamo tantissimi esempi. E poi che dire degli anilia, le aniles fabulae, i racconti della nonna? Gli animali la fanno da padroni nelle favole. Quintiliano stesso nelle sue Oratoriae Institutiones ( I, 9, 2) spiegava : “ Ecco allora le favolette, che continuano senza interruzione le fiabe delle buone nutrici. (I ragazzi) imparino bene ad esporle, in una lingua pura, senza voli di fantasia, e poi a stenderle con uguale semplicità; in un primo momento le mettano in prosa, poi le ricompongano con altre parole e, infine, osino la parafrasi, che permette sia di scorciare che di arricchire, salvo sempre il senso voluto dal poeta…”.

Il lupo, l’agnello, la rana, il bue, il corvo, il cane, la mucca, la capra, il leone, la volpe, la lepre, l’aquila, l’asino, il cervo, il cinghiale, la donnola, la gatta, la cicala, la formica, l’ape, la cornacchia, la lucciola, sono gli animali, assieme ad altri, che vengono trattati dai poeti. Ecco alcuni esempi:

“Un libro, in cui era scritta tutta la scienza del mondo, chiedeva aiuto, perché un topo non lo mangiasse. Il topo rise”. (Leon Battista Alberti)

“Piangi di gratitudine, o lumaca, pensando all’amore dei tuoi, che ti hanno dato anche la bara dal giorno della tua nascita”. (Da una raccolta di liriche giapponesi)

“Il ragno, credendo trovar requie nella buca della chiave, trova la morte”. (Leonardo)

“Afferma il dotto che un giorno le vostre luci più non saranno, disse la lucciola alle stelle. Le stelle tacquero”. (R. Tagore)

Nella letteratura “povera”, cioè popolare, o, per dirla alla maniera di Seneca, solutiora, un po’ dilettantistica, sono gli animali più umili che salgono alla ribalta nelle liriche dei nostri poeti dialettali.

Ho tra le mani il volumetto A tiempu persu, di Fedele Salacino, in arte Cino de Portaluce, Galatina, Tip. Marra e Lanzi, 1927, con prefazione di Tommaso Fiore. La lirica che prendo in considerazione è Lu pòlice:

Viva lu pòlice,

lu bellu nzettu!

face cutrùmbule

susu llu jettu: 

tra coddhu e nàtiche

passeggia, torna,

parte, precipita

senza sse scorna.

Se è straccu, cuàrdalu,

trova lu locu

cu sse ndurcìfica

nu pocu pocu; 

quandu lu mantice

li batte poi,

mpizza la spìngula

ddha’ ci nun boi. 

Tu, se te chìddhichi,

meni la manu,

ma quiddhu subitu

scappa luntanu,

torna a lla càrica

pe scire spissu,

senza preambuli

llu puntu fissu.

Tu, de la stizza,

li sensi à’ perzi,

ma quiddhu rèprica,

cride ca scherzi:

la cuda còtula,

se mette a rangu

fintantu… ppàffiti!

rrufa lu sangu. 

Dicu: Benissimu,

è n’animale.

Però, cert’òmmani

cu pepe e sale, 

la fannu simile

la porcheria:

lu sangu sùcanu

de chicchessia. 

Se mai lu pòlice

prontu lu vidi

metti sputazza

zzicchi e lu ccidi,

ma certi… Spìcciala,

aggi rispettu,

se no prutestanu

prontu l’effettu;

e tu ca spìcciuli

nunn’ài stasera

senza discutere

spicci n’ galera!…

Evviva la pulce, un bell’insetto che fa cuthrùmbule [χύτρος (pentola)  + βάλλω (spingo, getto a terra)], capriole sopra il letto; ti scorazza su tutto il corpo senza provare vergogna alcuna. Se è stanca cerca sempre un luogo sicuro per riposarsi. Però se le batte la pancia ficca il rostro laddove tu non l’aspetti. Se ti solletichi, tenti di acchiapparla con la mano, ma quella ti sfugge via; subito torna alla carica su quella parte del corpo che ha già scelto. Tu ti arrabbi, perdi la pazienza, ma la pulce insiste perché crede che scherzi: muove la coda, si mette in posa e in un baleno ti succhia il sangue. Va bene, la si può compatire, perché è un animale! Però certe persone che hanno pepe e sale combinano la stessa porcheria: succhiano il sangue alla povera gente. Se hai la fortuna di vedere la pulce che sta per succhiarti il sangue, metti un po’ di saliva in quella parte del corpo; lei vi rimane appiccicata, la prendi e la uccidi. Ma certe persone… Dài, smettila, abbi un po’ di ritegno!… altrimenti ne pagherai le conseguenze. E poiché non hai abbastanza danaro per farti difendere da un avvocato, alla fin fine andrai dritto dritto in galera.

E’ la pulce, fastidiosa sì ma giudiziosa, che consiglia il poeta a non eccedere nelle sue invettive contro i potenti e i ricchi che sfruttano il prossimo, oppure è il poeta che si autocontrolla per non finire nelle grinfie di quei “nobili” parassiti?

Di ben altro contenuto è una lirica che la tradizione orale ci ha tramandato. E’ di scena sempre la pulce, alla quale un innamorato chiede aiuto.

Pòlice fortunatu, quantu poti!

Quant’ede la putenzia ca tu hai!

De la bbeddhra mia faci cce bboi;

sulle soe vianche carni vieni e bbai.

E bba’ tte menti mmienzu ‘lle minne soe

Pìzzachi e suchi e nnu finisci mai!

Falla pe’ ll’arma de li morti toi:

pòrtame puru mie quandu ‘ddhrai vai.

La pulce è un insetto baciato dalla fortuna, ha grandissimi poteri. Lo spasimante non riesce mai ad arrivare dove arriva lei. Infatti la pulce della sua bella fa cosa vuole, la tiene in sua balia. Si permette anche il lusso di passeggiare, di scorazzare su e giù, avanti e indietro, da destra a manca, sul suo bianco corpo. Anzi va a ficcarsi proprio in mezzo al suo seno: morde e succhia e non la smette mai. Ed ecco la supplica dell’innamorato: “Per il bene che vuoi alle anime dei tuoi morti, ti prego, porta anche me, quando lì vai”.

Mannaggia l’anima de lu zzinzale

ca tutta la notte t’have ‘nsurtare

Menthru curcatu stai quetu quetu

mo’ ti lu sienti ttì – ttì de retu

Voju cu tthrasu, voju tte vasu

sia ca ti dice mo’ su llu nasu

E menthru te pìzzaca tie cu lla manu

li dai ‘na scòppula se si cristianu

Dài a tie stessu, sanu iddhru scappa

e a tie cu lli ràppuli la facce ti rrappa

Vatte a ffafrìscere, vane alle fèmmane

ca viddhre nu’ ddòrmenu pensandu a tie

Mannaggia l’anima pocca de màmmata

ca  iu me ‘ncèfalu pensandu a tie

Speranza Ddiu ca ti se scàscia l’organu

cusì nu’ rrùnguli cchiù ‘nnanzi mmie.

Mannaggia l’anima della zanzara, che per tutta la notte ti deve arrecare fastidio. Mentre stai disteso sul letto calmo e tranquillo, la senti dietro le tue spalle che bussa con discrezione. Voglio entrare, voglio darti un bacio, sembra che dica, posandosi sul tuo naso. E mentre ti punge e ti succhia il sangue, cerchi invano di sferrarle, con tutta la forza, una scoppola. Colpisci te stesso; la zanzara se ne scappa via sana e salva e a te rimane la faccia piena di lividi e raggrinzita. Vai a farti friggere! Vai, circuisci le donne, perché quelle già non dormono pensando al loro fidanzato e quindi ti aspettano con ansia, affinché tu faccia loro compagnia. Mannaggia l’anima di tua madre! Io, invece, mi arrabbio pensando a te. Voglia il cielo che ti si rompa l’organo, così nu’ rrùnguli (ρογχιάω, ρέγϰω: russo, brontolo), non brontoli più, fastidiosamente, davanti a me.

A me sembra, verisimilmente, che questo componimento si debba attribuire a Pinna de lindaneddhra, al secolo Nino Campanella, galatinese purosangue. Nino ha composto tantissime poesie in vernacolo, purtroppo andate perdute, che le recitava a noi, studenti ginnasiali, quando nelle calde sere d’estate, bivaccavamo sulle panchine di Piazza Fontana. Non era facile ottenere questo da lui; però a furia di insistere, pregarlo e supplicarlo, magari offrendoli qualche caramella, riuscivamo nel nostro intento. D’altra parte cosa potevamo regalargli se appena appena avevamo solo l’aria per respirare?! Ma lui, generoso e dal cuore grande quanto la Chiesa Matrice, si metteva a declamare versi con una mimica, gestualità e teatralità tipiche di un Picinera, Schirinzi,di un Naticeddhru, Marra, di un Piricocu, Alfieri, quando, quest’ ultimi, andavano in giro con il Carro di Tespi a rappresentare i loro spettacoli.

Concludendo, è doveroso, da parte mia, ringraziare la Libreria Viva – Athena, nelle persone di Piero Viva e dei suoi figli, Carlo e Stefano, che mi hanno fornito la materia prima per gettare giù queste quattro righe, per la gioia di quei miei “dodici” piccoli, ma pur grandi lettori, che fanno del dialetto la lingua dell’anima.