Mestieri che furono: “U conza limmi! U ‘ggiusta cofini!”… e non solo

“U conza limmi!, U ‘ggiusta cofini!”. Non sono parole o frasi misteriose, astruse e stravaganti, si tratta semplicemente dell’annuncio con cui un artigiano ambulante del Capo di Leuca si  presentava agli abitanti del paese natio dello scrivente. L’anzidetto lavoratore, con giri periodici, faceva su e giù per tutta la zona, mettendo a frutto la propria abilità manuale, in virtù della quale pensava in cuor suo di poter utilmente corrispondere alle usanze, alle attese e al regime di gestione vigente in seno alle famiglie. “U conzalimmi!, U ‘ggiusta cofini!”, gridava. Traducendo, il personaggio incitava i residenti ad approfittare del suo passaggio e li invitava a portargli gli eventuali accessori o attrezzi domestici in terracotta che avevano subito qualche deterioramento e, perciò, bisognosi di riparazione. Praticamente, ciascuna famiglia aveva in casa limmi e cofini, contenitori, tipo tinozze, in terracotta, utilizzati per il bucato. I primi, di dimensioni medie, erano adoperati pressoché quotidianamente: si riempivano d’acqua, dopo di che, i vari capi da lavare s’insaponavano con i mitici panetti di marca “Scala” o “Asborno” e sfregandoli lungamente a forza di mani, braccia e gomiti lungo un’asse di legno dentata che si teneva immersa, appunto, nel limmu pieno d’acqua, aggeggio detto lavaturu, si rigeneravano a completo, naturale lindore.

Il limmune o cofinu era un recipiente di struttura analoga, però di dimensioni ben più grandi, utilizzato periodicamente, ogni 15 – 20 giorni, per il grande bucato, ovvero lenzuola, asciugamani, tovaglie e via dicendo, in dialetto si diceva “fare ‘u cofinu”.

A furia di usarli, poteva succedere che tali recipienti si rompessero e, in tale evenienza, l’opera del nostro bravo artigiano giungeva proprio opportuna.

Come avveniva la riparazione? L’uomo si avvaleva di uno strano attrezzo, consistente in una stretta tavoletta di legno legata a due cordicelle, comuni cordicelle, a loro volta arrotolate lungo un altro segmento di legno verticale, sagomato a spirale e recante, all’estremità, una sottile punta in metallo, simile a un cacciavite.

Dopo aver preso e accostato tra loro le frazioni del recipiente rottesi, mediante l’arrotolamento e lo srotolamento della cordicella intorno al pezzo di legno che scendeva in verticale, determinava una veloce rotazione, facendo conseguentemente girare anche la punta metallica e, in tal modo, praticava sulle estremità  dei cocci messi a combacio, lunghe serie di forellini, da un lato e dall’altro, buchi che poi fermava strettamente con filo di ferro zincato, del genere dei punti delle moderne cucitrici, fissati da ultimo con una tenaglia o una pinza.

In questa rudimentale maniera, di fatto, si poneva in qualche modo rimedio ai guasti e, quindi, limmi e cofini potevano continuare ad essere utilizzati egregiamente per il loro fondamentale scopo, con ovvio risparmio, per i magri bilanci familiari, dell’onere che sarebbe stato comportato da un acquisto ex novo.

Altra figura di artigiano che, ogni tanto, compariva nella minuscola località, anch’essa in groppa alla bicicletta o su un rudimentale carretto, oppure su bici con rimorchio recante poveri attrezzi di lavoro, era quella che si annunciava con una parola, una frase sincopata: “U quadararu!”

A ripetersi, un’accezione misteriosa solo in apparenza, in concreto, invece, estremamente semplice e pratica.

In ogni famiglia, prima di dover attendere al bucato, ricorreva ovviamente la necessità di preparare i cibi: se non che, nei tempi passati, non esistevano ancora, a tal fine, le moderne pentole, magari a pressione, e/o i forni micro onde, i nuclei, più spartanamente, detenevano sparuti recipienti in rame, in lingua italiana caldaie, in dialetto quadareddre, quadare e quadarotti, a seconda delle rispettive dimensioni.

Detti utensili, all’interno, erano rivestiti di una patina, una sorta di velo bianco argenteo di stagno, che isolava i liquidi e le vivande dal contatto diretto col materiale di base, il rame, e dalle possibili implicazioni d’incompatibilità o inopportunità rispetto alla purezza e alla salubrità degli alimenti.

A furia di cucinare, bollire e ribollire, succedeva, però, che la patina di stagno si consumasse, si staccasse, si esaurisse, lasciando emergere uno sgradevole strato fra lo scuro e il color rosso del rame e, a quel punto, non restava che ricorrere all’intervento del quadararu.

Egli, sistematicamente, veniva a piantare bottega, diciamo così, al largo Campurra, a stretto ridosso della parete nord della cappella di S. Giuseppe, una volta esistente in quel sito, avanti d’essere demolita per far posto agli attuali giardinetti pubblici.

Lì, anche perché, a pochi metri di distanza, si trovava una fontanella dell’acquedotto pugliese, particolare che si rivelava utile all’artigiano.

L’uomo, come operazione iniziale, scavava una piccola buca sul marciapiede sterrato, vi collocava pezzi di carbone o di legna secca e accendeva il fuoco alimentandolo, a intervalli, con l’aiuto di un soffiatore metallico, basato su una ventola azionata mediante una manovella, e così si realizzava rapidamente un bello strato di brace crepitante, frammista a fiammelle allegre.

Collocato, sopra, un treppiede metallico che fungeva da base d’appoggio delle quadare a quasi contatto col fuoco, l’artigiano calava dentro i recipienti minuscoli pezzi di stagno, ritagliati con cura e parsimonia da stecche portate sempre appresso con sé, e, quando la temperatura all’interno raggiungeva un certo grado, i frammenti di minerale passavano a liquefarsi: contemporaneamente, con l’ausilio di un arcano aggeggio metallico, la massa ormai liquida dello stagno era stesa e sparsa lungo tutta la parete, in particolare sul fondo delle quadare.

La stagnatura era completamente rinnovata, i recipienti erano allontanati dalla fonte di calore e riposti sul terreno, in attesa che la superficie lavorata si raffreddasse.

Dopo di che, via libera all’uso di quadareddre, quadare e quadarotti per ulteriori stagioni.

Fa capolino nella memoria, ancora, una terza figura di artigiano alla buona, che si materializzava specie in prossimità del periodo autunno – invernale, accompagnato, di solito, da piogge, ovvero quella dell’ombrellaio.

Pure in questo caso, si verificava il consueto richiamo ad alta voce che ne segnalava l’arrivo in sella al solito sgangherato velocipede o su un carretto: “Ci tene u ‘mbrellu! C’é lu ‘mbrellaru!”

L’armamentario di quest’ultimo “tecnico” di giro era fatto di semplici, rudimentali attrezzi, forbici, pinze e un mazzo di asticelle metalliche, di quelle che, in forma di cupoletta, reggono la copertura, giustappunto, dei comuni parapioggia o ombrelli. Riguardo agli accessori in discorso, poteva ogni tanto succedere che le asticelle, come pure i minuscoli legacci che tenevano le medesime fissate al di sotto della cappa di tessuto impermeabile alle gocce piovane, si rompessero, o che il tessuto si tagliasse o rovinasse per cause connesse all’usura.

Puntualmente e immancabilmente, le abili mani dell’ombrellaio rimediavano ai problemi, con perfetta e piena soddisfazione dei proprietari, la cui filosofia e aspirazione, visto, del resto, che il ricorso all’ombrello non era quotidiano bensì saltuario, era di conservare l’accessorio per molto tempo, magari per decenni.

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A proposito di quadararu, a onor del vero, al paese esisteva un residente, un contadino, il quale, come attività fondamentale, badava ai suoi piccoli fazzoletti di terra e/o andava a giornata presso possidenti, ma che, in aggiunta, al fine di arrotondare le magre entrate e poter mantenere la famiglia, a tempo perso, aveva imparato alla bell’e meglio quel lavoro, svolgendolo nei ritagli, la sera, nella cucina di casa. Indubbiamente, un limitato part time nel ruolo d’artigiano, che, tuttavia, gli era valso il soprannome di “Ciseppe u stagninu”, connotazione tuttora rimasta, a distanza di mezzo secolo e passa, in capo ai suoi figli.

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Si è voluto rievocare, in seno alle presenti note, una triade di figure lavorative, professionali o artigianali che dir si voglia, ormai purtroppo superate, inesistenti: resta, ad ogni modo, da notare che tre semplici mestieri intrisi d’estrema umiltà e precarietà, per usare un aggettivo di cogente attualità, hanno espresso epoche e orizzonti di profondo significato e valore,  soglie di povero, ma non per questo meno importante, modello sociale e civile, non a caso resistite e tramandatesi nel corso di generazioni. (Rocco Boccadamo)