Modi di dire galatinesi

 

Vè de retu rretu comu li zzucari”. 

(Arretra sempre, come fanno i cordai).

 È quanto mai esplicativo questo detto galatinese. È un paragone ben riuscito che permette di farsi un’idea di certe persone, che, avendo commesso dei gravi e imperdonabili errori, si dimenano in una situazione economica disastrosa e sempre più grave, dalla quale difficilmente ne verranno fuori.

curdaru

I cordai d’un tempo, durante il loro faticoso lavoro quotidiano, dovevano intrecciare più corde per ottenere una più grossa e robusta. Per fare ciò dovevano indietreggiare lentamente con le funicelle tra le mani, lasciandole incrociare in modo da ottenere un intreccio perfetto tra le stesse, grazie a movimenti alternati delle dita.

Per un’intera vita lavorativa non si sono mossi in… avanti, bensì “de retu a rretu”.

Làssalu stare: lu purpu se coce cu’ ll’acqua soa stessa”.

(Lascialo stare: il polpo si cuoce grazie alla sua stessa acqua).

     Questa frase veniva usata per indicare l’incorreggibilità di certe persone che con ostinazione rifiutavano un buon suggerimento necessario per venir fuori da certe scomode e, a volte, pericolose situazioni.

“Le scarciòppule mie suntu le meju!”.

(I mei carciofi sono i migliori). 

   

     Sempre in tema di carciofi vi racconto un episodio esilarante. In via Umberto I, al numero civico 16-18, era ubicata l’antica drogheria “Cesario Duma”, dove si vendeva di tutto. Accanto alla parte retrostante della stessa, dove oggi vi è l’hotel Baldi, c‘era un salone da barba, molto frequentato per la grande professionalità del barbiere. Dopo alcuni anni l’uomo preferì spostarsi in una zona più trafficata e centrale del paese. Quel locale rimase sfitto per alcuni mesi, sino a quando non fu occupato da un fruttivendolo occasionale, nel senso che di frutta e verdura se ne intendeva molto poco o niente.

      A fine febbraio, il neo fruttivendolo fece venire da Brindisi un camioncino carico di carciofi, che fu venduto in una sola giornata. All’indomani ne arrivò un altro strapieno di carciofi e, come nel giorno precedente, fu smaltito in poche ore. Ogni giorno per diversi giorni sempre la stessa musica. Il titolare della drogheria, cioè chi scrive, rimasto allibito per la velocità con cui erano venduti i carciofi, chiese al verduraio, più che altro per curiosità, quale espediente commerciale avesse adottato.

Quello, in tutta risposta gli ribatté: “Caro mio, commercianti si nasce e non si diventa”.

     “Questo lo so già, ma dimmi come hai fatto a vendere tutti quei carciofi in pochissimo tempo! Ci sarà senz’altro un buon motivo!”.

     “Mo’, ti lu dicu in dialettu cusì me capisci meju!…” – rispose il verduraio – “… Ede lu prezzu vasciu ca te face vindire tuttu!Ma ede puru l’onestitudine de ci vinde ca ede ‘mpurtante. Iu me ‘ccuntentu cu guadagnu pocu e quindi la gente have thruvatu cunvenienza cu ccatta le scarciòppule mie”.

     (“Ora te lo dico in dialetto in modo che tu mi possa capire…” – rispose il verduraio – “… È il prezzo basso che ti fa vendere di più! … ed anche l’onestà di chi vende. Io mi accontento di guadagnare poco e quindi la gente trova convenienza ad acquistare i miei carciofi”.

     “Non mi considerare persona indiscreta ma vorrei sapere quanto ti viene a costare un carciofo e a quale prezzo lo vendi” – rispose di rimando il droghiere.

     “Ccattu le scarciòppule a 25 lire l’una” (Compro i carciofi a 25 £ l’uno”) – gli ribatté quello a stretto giro.

     “Qual è il prezzo di vendita che hai praticato?”.

     “Quatthru scarciòppule centu lire!!!” (“Quattro carciofi cento lire!!”) – si lasciò andare il verduraio con un mezzo sorriso di compiacimento.

     “Bella questa!… E cosa hai guadagnato?” – riprese il droghiere, ridacchiando.

Ora ti parlo in Italiano, caro professore. Se vuoi fare affari, devi limitare i guadagni, altrimenti non vendi nulla e fai la fame. Tu sei un insegnante con tanta esperienza a scuola ma del mestiere di commerciante non hai capito un bel niente!”.

      Infatti dopo un paio di settimane quel simpatico verduraio dovette chiudere i battenti per bancarotta… senza aver mai rubato una sola lira, anzi senza mai aver guadagnato una sola lira.

“Ccene, sine, none, percene, vane ed altri termini che finiscono in “ne”

Significano rispettivamente “Che, sì, no, perché, va’, ecc.”.

Il motivo per cui si aggiunge alla fine di alcuni termini la particella “ne” non è dato di sapere e né si spiega con le regole lessicali salentine. Forse è dovuto al linguaggio usato da settentrionali (veneti e friulani, in modo particolare) dimoranti nel Meridione. Essi avevano ed hanno ancor oggi l’abitudine di aggiungere a fine di ogni frase il suffisso “né”. Ad esempio: “Ciao, ci vediamo domani… né”, oppure “Stasera andiamo al cinema… né”.

     “Cce cc’enthra lu culu cu’ lle quatthru tèmpure!”.

     “Che c’entra il culo con le quattro tempora!

Le quattrro tempora

Le quattro tempora furono inserite dalla Chiesa all’inizio delle quattro stagioni e rappresentavano un periodo di tre giorni durante i quali le persone dovevano osservare digiuno ed astinenza da ogni pratica, anche quella lavorativa.

     A ogni singola stagione corrisponde una delle Quattro tempora, che si riferisce sempre ai medesimi giorni, ossia il mercoledì, venerdì e sabato di una stessa settimana. Le tempora d’inverno cadono fra la terza e la quarta domenica di Avvento, le tempora di primavera cadono fra la prima e la seconda domenica di Quaresima, le tempora d’estate cadono fra Pentecoste e la solennità della Santissima Trinità e le tempora d’autunno cadono fra la III e la IV domenica di settembre, cioè dopo l’Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre. Le tempora d’inverno, primavera, estate e autunno sono anche chiamate, rispettivamente, Tempora d’Avvento, di Quaresima, di Pentecoste e di settembre.

Secondo S. Leone Magno questo digiuno è di origine ebraica; altri autori vi scorgono la continuazione delle ferie romane di carattere agricolo (feriae messis, vindemiae, sementiciae). Il Liber Pontificalis ne attribuisce l’istituzione al papa Callisto I. Da principio si avevano solamente tre tempora (ieiunium mensis IV, VII, X); nel quarto secolo S. Gregorio Magno le fissò definitivamente al mercoledì, venerdì e sabato che precedono le domeniche 2ª di quaresima, 1ª dopo la pentecoste, 3ª di settembre e 3ª dell’avvento.

Si usa questo modo di dire dialettale si utilizza come rimprovero nei confronti di chi sta completamente scantonando rispetto al discorso principale. In pratica, discutendo su un certo argomento, qualcuno si inserisce nel discorso tirando in ballo un altro completamente estraneo e senza alcun riferimento all’argomento-chiave.

 “Pe’ mmoi tiene ‘sta cinque lire e, se nu’ bbasta, ti dau lu restu”.

 “Per ora accontèntati di questa cinque lire e, se non basta, ti do il resto”.

Le “cinque lire” non erano certamente soldi che venivano consegnati a un ragazzo per comprare qualche oggetto utile per la famiglia. Niente affatto, il numero cinque è riferito unicamente alle dita della mano. Ci troviamo di fronte a una simpatica metafora. Si trattava di uno schiaffo ben assestato in faccia (generalmente bambini) a chi avesse commesso un grave errore, con l’aggiunta che avrebbe ottenuto il resto delle botte, se non si fosse messo sulla buona strada.

 Spetta ciucciu miu pe’ quandu ‘rriva la paja nova”.

 Letteralmente: “Aspetta, asino mio, per quando ti sarà data la paglia nuova”.

Questo modo di dire è rivolto, in particolar modo, agli stolti, alle persone comode, agli indolenti, a coloro che nella vita non si sono mai dati da fare per procacciarsi per tempo quanto necessario a vivere.