Una condizione umana umiliante e penosa ancora in essere sino agli ‘50

PADRONI  E  SERVI

Solo da pochi decenni molte famiglie salentine si sono affrancate dalla sudditanza economica, culturale e psicologica nei confronti dei signorotti locali

di Emilio Rubino

Non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo per comprendere i fatti che stiamo per raccontare, perché essi sono ancora vivi nel ricordo delle persone più anziane. Nella loro psiche sono ancora presenti i segni indelebili dell’antica soggezione che avevano verso i “signori” del paese, unici detentori del potere economico e politico. I racconti di questa povera gente sono infarciti di rabbia e di lacrime, sono pietre rumorose che rotolano nell’anima provocando dolore, sono amari ricordi che nessuna gioia potrà mai cancellare.

Il potere economico d’allora poggiava esclusivamente sull’agricoltura, ancora rozza e primitiva, che aveva bisogno di braccia e di sudore, di tanto sudore per essere governata. Tutti i lavori nei campi erano effettuati dall’uomo-bestia che, a piedi e con la zappa in spalla, ogni mattina, alle prime luci dell’alba, doveva raggiungere il podere per iniziare la sua giornata. Il contadino rimaneva curvo a dissodare la terra per interminabili ore sino a sera, ma era comunque contento di portare a casa poche monete necessarie a sfamare la moglie ed un nugolo di figlioli, laceri e sporchi.

I “signori” avevano un numero fisso di contadini che “se ggiràvanu sotta llu palazzu” e che erano denominati “li furisi ti la casa”. A questi pochi fortunati, tenuti in buona considerazione dai padroni e dai rispettivi fattori, era garantita, per quasi tutto l’anno, la “sciurnata”, non sempre remunerata adeguatamente.

Anche quando non aveva da lavorare, come ad esempio nei giorni di pioggia o a sera subito dopo essere rientrato dai campi, lu furese era costretto a recarsi a llu palazzu per mettersi a disposizione del padrone e compiere vari servizi a titolo gratuito, nella speranza che l’indomani avrebbe ottenuto un’altra giornata di lavoro. Detti servizi non erano esplicitamente richiesti dal padrone, ma non si poteva mancare di offrirli. Infatti, non appena si presentava l’occasione, il signorotto trovava sempre il modo per rinfacciare ogni cosa con pungenti e sfacciate allusioni a chi era mancato ai doveri “straordinari”, dicendogli ad esempio: “Cce ssi statu malatu?”, oppure “T’ha’ scirratu ti lu pathrunu tua?”.

Ma quali faccende dovevano sbrigare i contadini nel palazzo?

Si doveva spaccare la legna, pulire le stalle, governare gli animali, lavare la carrozza, fare commissioni e tante altre piccole incombenze. A questa morsa non si sottraeva neanche la “signura”, che aveva bisogno dell’aiuto dei contadini per lavare le scale del palazzo, pulire le varie camere e addirittura fare “lu còfanu”.

Il “signore” non se ne stava, però, con le mani in mano, era alquanto… riconoscente, soprattutto in occasione delle festività più solenni. Non mancava perciò di regalare una “tammiggianetta ti mieru”, oppure “nu buttiglione ti uegghiu” o due-tre chili di “farina ti granu”. Altrettanto faceva la “signura”, la quale, per sdebitarsi, regalava qualche sua veste ormai in disuso, oppure dava un paio di bicchieri di vino, ricevendo in cambio un “ddifriscu a lli muerti tua!”. I ragazzini, invece, si accontentavano con una semplice “pòscia ti fiche”, qualche arancia, o un pugno di noci o mandorle. Bastava poco per guadagnarsi il lavoro extra dei contadini, che, nonostante tutto, ringraziavano con estrema gentilezza, ricordando alla padrona di casa: “Signura, quandu ti serve quarche cosa, chiàmame: iu su’ sempre prontu!”.

Cose da nulla, come si vede, ma che nella miseria di quei tempi, per quei poveri uomini erano tanto.

Tutta particolare era poi la figura del “fattore”, che giganteggiava su ogni dipendente. Egli era l’alter ego del “signore”, per cui a lui era dovuto rispetto, riconoscenza ed ubbidienza cieca. Bastava una sua parola, un suo cenno perché un contadino si trovasse all’improvviso senza lavoro.

Il fattore comandava “sotta llu palazzu”, comandava nei campi, comandava sempre ed ovunque.

In campagna, per zappare la terra, egli si serviva degli “antieri”, contadini più fidati e più prestanti, che poneva a capofila per costringere gli altri “furisi” a mantenere il loro passo in una continua e disumana fatica. A voler fare un paragone, mentre oggi l’impiegato s’interfaccia con il monitor del computer per sette ore al giorno, a quei tempi “lu furese” s’interfacciava esclusivamente con la nuda terra dall’alba al tramonto.

La giornata di lavoro non finiva qui, poiché il fattore teneva in sospeso tutti i contadini, intimando loro di trovarsi “sotta llu palazzu” per essere eventualmente ingaggiati dal padrone all’indomani.

Quando in campagna vi era molto lavoro da fare, oltre a “li furisi ti la casa”, il fattore ricorreva ad altri contadini. Questi erano divisi in squadre (chiamate “scale”), che erano guidate da un “fatturieddhru”, in pratica un vice-fattore. In ogni squadra dovevano esserci alcuni contadini “fissi”, che costituivano un elemento di garanzia per il fattore.

Al termine del periodo di piena, i contadini occasionali erano licenziati, mentre quelli fissi erano mandati negli uliveti a compiere le “suppe”, cioè a dissodare il terreno sotto gli alberi o a fare altri lavori nei campi. In questo periodo di magra, i disoccupati (ed erano tanti) vivevano nel dramma di non poter sfamare la famiglia e si arrabattavano con lavori saltuari, comunque insufficienti a garantire una modesta vita di mantenimento.

Vi era, però, qualche disoccupato che, di prima mattina, occupava abusivamente le terre del “signore”, sperando di essere accettato dal fattore almeno per quella giornata. A volte l’intruso era trattenuto, ma a patto di dover lavorare qualche ora in più e con una paga più bassa di quella dei “fissi”, tutto ovviamente nell’esclusivo interesse dei “signori”. Il pover’uomo doveva accettare e ringraziare, pur di portare a casa un pezzo di pane.

A volte, invece, il fattore scacciava il disoccupato dal campo con fare burbero e minaccioso, trattandolo come una bestia e con un sadismo che neanche il padrone avrebbe mai usato.

Si racconta che un fattore, di animo estremamente malvagio, usasse nascondere sotto la cappa un’ascia affilatissima per scoraggiare i disoccupati a presentarsi sui campi. Con tale aggeggio, infatti, rompeva “lu mmargiale” (il manico) della zappa dell’intruso, costringendolo ad andar via a testa bassa tra le umiliazioni dei presenti e con l’unico strumento di lavoro danneggiato. Come dire, oltre al danno anche la beffa. Al malcapitato non era consentito protestare, né bestemmiare, né fiatare più del dovuto, poiché sarebbe stato considerato in paese come una delle “teste calde”, da cui tenersi alla larga. Caso contrario, se avesse accennato ad una minima contestazione, sarebbe stata per lui e per i suoi familiari la fame più nera.

Una tale sorte ebbe a subire un giovane padre di famiglia che, vedendosi rotto il manico della zappa, inveì contro il fattore con tanta rabbia da riempirlo di botte, sfogando in pochi attimi su di lui un odio che suo padre, suo nonno ed i suoi avi gli avevano tramandato come unica eredità di una vita fatta di miseria e di frustrazioni.

Da quel momento, però, il suo destino fu segnato definitivamente, perché la notizia circolò per tutti palazzi di Nardò e al poveretto fu negata ogni possibilità di lavoro. Dopo pochi giorni il giovane fu costretto ad abbandonare la sua terra, rinunciando per sempre agli affetti dei parenti e degli amici. L’uomo riprese a lavorare a Martina Franca, dove riacquistò la serenità e, soprattutto, la dignità umana.

Oggi, grazie a Dio, la miseria (quella nera) è scomparsa: è solo un brutto ricordo e niente più. Purtroppo – e questo è un aspetto molto negativo – nella mente di alcune persone sopravvive ancora l’arroganza e la cattiveria di quegli antichi “signorotti”. Sono i “nuovi padroni”, sono uomini di basso lignaggio e della peggiore risma, sono uomini miseri ed avidi, che, con le loro azioni quotidiane improntate sullo sfruttamento più bieco del prossimo, non concorrono di sicuro a fare di questo paese una terra completamente “libera e laboriosa”.