Un simpatico personaggio neritino dei tempi andati

TOTO’…

LU PACCIARIEDDHU

di Emilio RUBINO

Erano in molti a considerarlo un matto, ma non lo era affatto. Totò era invece un po’ sventatello, svagato, imprudente, uno insomma che nel fare le cose si lasciava andare facilmente, senza troppo pensare. Proprio per questo suo modo di fare, spesso veniva a trovarsi in situazioni poco piacevoli e, a volte, ingarbugliate e serie.

I neritini ormai accettavano le sue “malefatte” perché intuivano che, in fondo a quelle ingenue spontaneità, non vi era alcuna furberia o cattiva intenzione. La gente lo tollerava, quasi con benevolenza, sapendo che aveva a che fare con un uomo che non era “perfetto” di mente.

Però, man mano che si avvicinava alla tarda età, non trascorreva settimana che Totò non combinasse qualcuna delle sue.

Che volete? Il Signore lo aveva fatto così, un po’ strambo e bislacco, ma non pericoloso e cattivo, addirittura quasi simpatico per via delle sue strane e innocenti “uscite”, che quasi sempre inducevano la gente al riso e al compatimento.

Solo questo e niente di più.

Seguite questo simpatico aneddoto in cui fu coinvolto.

Premetto che quella di Totò era una semplice famiglia che viveva grazie ad una modesta sussistenza comunale e a quanto l’uomo riusciva a racimolare dalle “sciurnate ti fatia” (giornate di lavoro), che non sempre gli erano assicurate. In pratica, la sua era una famiglia povera, molto povera, che non poteva permettersi il lusso di comprare perfino un po’ di legna per riscaldarsi durante le fredde giornate invernali e per cuocere le varie pietanze. Perciò Totò, nei giorni in cui non lavorava (ed erano tanti), gironzolava per le campagne neritine alla ricerca di rramàgghie, taccarieddhi e turzi ti tabbaccu. A volte riceveva da parte di contadini compiacenti nu pocu ti àschie e quarche cippone.

Un giorno Totò, ispezionando un podere ben distante da Nardò, si accorse di una “meta”, cioè di una catasta di fascine di sarmenti (sarcinieddhi), che un proprietario di un vigneto aveva ammucchiato, al riparo dalle intemperie e da malintenzionati, sotto un rozzo riparo posto dietro la sua casa di campagna.

Quella enorme catasta di fascine gli sembrò come se fosse stata messa lì esclusivamente per lui. Totò dedusse che il Signore Iddio si fosse finalmente ricordato delle sue ristrettezze economiche e che l’avesse di proposito spinto in quel podere, dove non ci aveva mai messo piede.

“Crazzie, Gessù miu, finarmente ti so’ ‘rriate li prechiere ca t’àggiu sempre fattu!…” – ringraziò il buon uomo, quasi inginocchiandosi – “…E allora cce dici?!…  mi pozzu pigghiare ‘nu paru ti sarcinieddhi?!… Ci sta fazzu piccatu, tìmmilu, Gessù miu!”.

Perciò, di tanto in tanto, Totò si recava in quella campagna a prelevare un paio di fascine.

“Quandu mi tici ca bbasta, mi fermu, Gessù miu beddhu!… se però nu’ mmi tici nienti, significa ca si ccuntentu ti quiddhu ca fazzu!”.

Totò era a conoscenza del detto che “spesso l’occasione fa l’uomo ladro”, ma era pienamente convinto di non esserlo perché, secondo il suo modesto parere, il Signore gli aveva concesso esplicita autorizzazione. Nonostante questa intima convinzione, qualche piccolo rimorso cominciava a tormentarlo. Essendo un uomo rispettoso della legge e ligio ad ogni dovere civico, pretendeva che, oltre a Gesù, qualcosa di “umano” gli desse la possibilità di utilizzare legalmente quel “caloroso” tesoro.

“Pussibbile ca lu Signore nu sta ssi face sintire cchiui?!”- diceva in continuazione fra sé e sé.

Una mattina, mentre si accingeva a fare il carico di fascine, notò che sul muro della casa era posta in gran rilievo una tabella, su cui era scritto “Zona sottoposta a Vigilanza Campestre”.

“Nah! Menu male, propiu quiddhu ca ulia!… Mo’ cercu lu pirmiesso alla tabbella, cusì sto cchiu tranquillu!”.

Si fermò di fronte alla scritta e con aria seriosa presentò la sua richiesta.

“Buongiorno, signura tabbella!”.

La tabella, tramite lo stesso Totò, non tardò a rispondergli.

“Buongiorno, Totò, ti serve nienti?”.

Rincuorato da una così benevola accoglienza, l’uomo le rispose con il dovuto rispetto.

“Tabbella, tabbella mia, mi pozzu pigghiare nu sarcinieddhu pi mugghèrima cu ccucina a menzatia?”.

La tabella, che certo non poteva rifiutare una simile e accorata richiesta, sempre a mezzo di Totò, diede il suo assenso.

“Pìgghiatilu, Totò, pìgghiatilu!… anzi ci tieni bbisuegnu ti toi, pìgghiatili!”.

E Totò, dopo aver ringraziato la Tabella per la generosità, prese un paio di fascine e, pur faticando per l’eccessivo ed ingombrante peso, se ne tornò fischiettando verso casa.

Ogni settimana il buon uomo, sapendo ormai di avere l’autorizzazione “divina e terrena” si presentava in campagna, chiedeva l’autorizzazione alla tabella, caricava sulle spalle un paio di fascine e ritornava a casa di buon umore, sempre fischiettando il solito motivetto.

Con il trascorrere del tempo, fra Totò e la tabella s’era instaurato un rapporto sin troppo confidenziale, insomma una vera e propria amicizia, tanto che l’uomo non trovava più alcun disagio a chiedere ogni volta il permesso di portarsi via qualche “sarcinieddhu”. Allo stesso tempo la tabella era incapace, dato ormai il consolidato rapporto d’amicizia tra i due, di negargli l’autorizzazione.

Questo andazzo andò avanti per un bel po’ di tempo.

Quando, però, il proprietario del podere si accorse che la catasta di fascine s’era afflosciata consistentemente, montò su tutte le furie e si ripromise che avrebbe fatto l’impossibile per acchiappare il ladro con le mani nel sacco, anzi… nelle fascine.

Se ne tornò arrabbiato in paese con l’intento di denunciare il misfatto ai vigili campestri, ai quali intimò che avrebbe pagato la tassa annuale di vigilanza solo se gli avessero consegnato il furfante.

I vigili si appostarono per diversi giorni nei paraggi del podere, sino a quando Totò, avendo bisogno di legna, ritornò a fare la solita richiesta alla tabella.

“Scùsame, scusame tanto tabbella ci ti cercu ‘n’addha fiata to’ sarcinieddhi!”.

Stavolta la Tabella ebbe un’esitazione.

“E mbè, piccè nu sta mi rispundi?” – domandò l’uomo alquanto meravigliato.

“E no, Totò, mò basta!… T’ha pigghiatu quasi tutti li sarcinieddhri!” – gli rispose uno dei due vigilanti.

E se lo portarono via con tanta mestizia nel cuore.