Scene di vita scolastica

Scene di vita scolastica

Giulio sapeva che anche quel giorno Belfiore sarebbe arrivata in ritardo e guardava verso la porta, quasi a sollecitarne l’arrivo, sollevando spesso gli occhi dal banco e interrompendo il lavoro cui era intento, ben nascosto dietro la folta capigliatura d’una compagna: intagliava la lettera B sul piano del banco. L’insegnante di matematica non ammetteva ritardi e Belfiore, come al solito, si sarebbe fatta rimproverare e forse espellere dalla classe. L’orario d’ingresso era fissato per le ore otto e un quarto.

L’insegnante aveva appena finito di fare l’appello e Giulio ormai disperava quel giorno di vedere Belfiore, quando la porta si aprì e fece capolino un faccino ovale su cui due occhi si muovevano irrequieti sotto riccioli neri e ciuffi di capelli scomposti; due chiazze rosse coloravano le guance, segno se non di rammarico per il ritardo, certo di affaticamento, tanto che pure il respiro si avvertiva affannoso; e sopra il faccino, molti capelli alti sul capo, ondulati, che ricadevano all’indietro, lunghi e a scalare. Belfiore aveva salito di corsa le rampe, eludendo la sorveglianza del bidello, di solito ben piantato a gambe larghe e con le braccia conserte dinanzi alla porta d’ingresso della scuola, e ora chiedeva il permesso di entrare. Un mormorio nella classe fu il segno che il permesso le era negato; il bidello avrebbe accompagnato Belfiore in presidenza per il rimprovero di rito, prima della espulsione dalla scuola, almeno per quel giorno.

Entrò il bidello, alto, corpulento, aiutante muto e ossequiente d’un potere smisurato e incontrastabile, da cui nessuno avrebbe potuto sperare pietà. Giulio accompagnò con lo sguardo Belfiore mentre seguiva l’uomo in presidenza, e fu uno dei pochi ad accorgersi che Belfiore, per nulla intimorita, faceva spuntare in un angolo della bocca una lingua appuntita: era la boccaccia destinata all’insegnante. Quel giorno non la rivide più.

Giulio sedeva al banco con Mario, un biondino di bassa statura e di corporatura esile, ma non gracile; la sua natura doveva essere molto orgogliosa se con nessuno aveva cercato di fare amicizia e se ne stava sempre in un angolo, senza dare retta ai compagni di classe: trascorreva così la ricreazione e i pochi minuti di libertà ch’erano concessi nel cambio dell’ora.

Qualche giorno prima Giulio lo aveva difeso da un compagno che lo provocava, e se ne era poi pentito, perché Mario non lo aveva neppure ringraziato e perseverava nel suo atteggiamento orgoglioso e distaccato. Alla fine Giulio aveva deciso di non considerarlo più un amico e di lasciarlo la prossima volta al suo destino.

Ben altra importanza aveva per lui quella testolina coperta da capelli ricci, ch’era solito guardare di nascosto dal suo banco!

Un giorno Belfiore si era voltata, aveva visto Giulio che la guardava, e gli aveva sorriso. Giulio poi non ricordava più se avesse sorriso anche lui, oppure se il suo volto fosse rimasto immobile e inespressivo. Aveva gioito in cuor suo, anche se si vergognava di essere arrossito e di aver distolto lo sguardo, come d’un atto di viltà. Aveva guardato per strada – il suo banco, difatti, era vicino alla finestra – ed era stato rimproverato; tutti avevano notato il suo improvviso arrossire, qualcuno aveva anche riso, ma nessuno, o quasi, aveva intuito la verità, e cioè che quella era stata la sua prima, muta, dichiarazione d’amore. Allora, muovendo la gamba destra, Giulio aveva toccato la sinistra di Mario, che lo guardava muto e sornione, e Mario aveva accavallato la sua alla gamba di Giulio, e in quella strana postura erano rimasti fino al termine dell’ora. Da quel momento Giulio e Mario divennero amici.

Quel giorno era in classe la professoressa d’Italiano. Ella esigeva che gli sguardi di tutti gli studenti, da ogni punto dell’aula, convergessero su di lei, sicché nelle sue ore nessun’altra attività visiva era consentita. Non si poteva scrivere sul diario, se non quando l’insegnante dettava i compiti, né prendere appunti, incidere il proprio banco, meno che mai guardare fuori, oltre i vetri della finestra, per strada, dove la vita cittadina continuava in tono minore senza la presenza dei ragazzi. Insomma, bisognava avere sempre gli occhi puntati sul viso della professoressa.

Giulio aveva trovato il modo di sfuggire alla norma senza farsi sorprendere. Dal suo banco lo sguardo di Giulio sembrava terminare, come quello di tutti i suoi compagni, sul volto dell’insegnante, eppure con un’insospettabile e continua deroga. Nel mezzo tra Giulio e la professoressa, per la linea obliqua che correva invisibile tra il banco e la cattedra, lo sguardo del tredicenne innamorato aveva modo e tempo di fermarsi sui capelli di Belfiore e talvolta di indugiare sul suo profilo, quando la ragazza, per dare agli occhi un attimo di respiro, li volgeva impazienti dall’insegnante alle case o al cielo che si intravedevano oltre la finestra, con grave disappunto della professoressa, che non esitava a rimproverarla. Giulio, dunque, guardava Belfiore, e non la professoressa, ma né questa né quella se ne avvedevano. Il giorno in cui, come dicemmo, l’insegnante aveva rimproverato Giulio, ciò era accaduto perché Belfiore si era finalmente accorta che lo sguardo del suo compagno inequivocabilmente finiva su di lei, e non sulla professoressa, e ne aveva avuto conferma quando Giulio, intimidito, s’era voltato a guardare fuori dalla finestra ed era stato rimproverato. Quella giornata e quel rimprovero furono veramente memorabili, perché in un istante diedero origine all’amicizia tra Giulio e Mario, e rivelarono a Belfiore l’amore che Giulio provava per lei.

Durante le belle giornate d’inverno, le lezioni di Educazione fisica si tenevano all’aperto nei giardini del cortile interno della scuola, un edificio di epoca fascista, a pianta quadrangolare: nel cortile si accedeva da un corridoio centrale su cui si affacciavano la stanza dei bidelli, la segreteria, la presidenza, la biblioteca e la sala dei professori; ai due lati dell’edificio, sui larghi corridoi si aprivano le aule; in fondo, al di là del cortile, di fronte al corridoio centrale, c’erano i laboratori di Chimica e Fisica, e la palestra coperta con spogliatoi annessi. Nel quadrato interno piantato a palme e a cespugli, nello stile imperiale degli anni trenta, lungo i vialetti sterrati, l’insegnante di Educazione fisica disponeva gli ostacoli per la corsa e altri attrezzi.

Nel salto in alto, a dispetto della sua bassa statura, Mario aveva ottenuto il risultato migliore e il plauso dell’insegnante, suscitando nei suoi compagni un sentimento misto d’invidia e d’ammirazione, poiché nessuno avrebbe mai scommesso sulla bravura di quel ragazzetto magrolino. Quando si ritrovarono negli spogliatoi, sporchi e sudati, Giulio si complimentò con Mario; questi sorrise intimidito, perché i compagni lo stavano osservando, e non disse nulla. Giulio allora lo strattonò con decisione, ripetendo che era stato bravo, il più bravo, perché aveva superato tutti, e meritava d’essere festeggiato. I compagni da quel momento smisero di guardarlo male e tutti insieme elogiarono Mario per quel salto incredibile. Allora per la prima volta Mario si sentì uno di loro.

Durante l’ora di Educazione fisica le ragazze erano rigorosamente tenute lontano dai ragazzi e si esercitavano nella palestra coperta, se i ragazzi erano fuori, oppure, se il maltempo non consentiva l’uscita dei ragazzi, le ragazze rimanevano in classe e vi svolgevano lezioni teoriche, mentre i ragazzi occupavano la palestra coperta: questa era la regola.

Un giorno di pioggia Giulio aveva chiesto di uscire dalla palestra per recarsi nel bagno, e aveva trovato nel corridoio Belfiore. Si erano salutati e avevano sorriso. Giulio la guardava come rintronato da chissà quale sciagura presagita, scosso per la sua audacia, che questa volta non poteva venir meno. Non era quello il momento che aspettava da tanto tempo? Sentiva la bocca inaridire e lo prendeva un forte dispetto per il suo immancabile rossore. Stava lì, impalato, senza parlare, e Belfiore lo guardava e cercava di capire cosa volessero dire quello sguardo muto e quelle guance color di fuoco, e capiva, e sorrideva tacendo. Giulio alla fine stava per balbettare non so quali parole d’amore, quando una voce greve tuonò nel corridoio interminabile della scuola, intimando un ritorno all’ordine evidentemente infranto: era il bidello che gridava non potersi sostare nei corridoi senza un motivo plausibile. Giulio e Belfiore volarono via in direzioni opposte.

In palestra Mario gli disse: – Che ti è successo?

Giulio rispose che aveva incontrato Belfiore e che non aveva fatto in tempo a pisciare. Mario sorrise e gli disse che doveva tenersela fino alla fine dell’ora, perché il professore non gli avrebbe dato una seconda volta il permesso di andare nel bagno.