Seppellire i morti

Seppellire i morti

di Tullia Pasquali Coluzzi

Il rito della sepoltura ha rivestito una grande importanza fin dai tempi preistorici.

Secondo Eliano, poligrafo greco del II-III secolo d.C., Eracle per primo introdusse la pratica pietosa di seppellire i corpi dei nemici prima abbandonati ai cani.

Già nella Sacra Scrittura, prima tra le altre opere di misericordia1, come quella di dare cibo agli affamati e vestire gli ignudi, viene ricordata quella di seppellire i morti. Lo testimonia con toni commoventi l’ebreo Tobia che, deportato con la sua gente a Ninive, nel libro della sua storia, continuando l’elencazione delle sue buone azioni, afferma: “… e se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo. Seppellii anche quelli che aveva ucciso Sennacherib, quando tornò fuggendo dalla Giudea, al tempo del castigo mandato dal re del cielo sui bestemmiatori. Nella sua collera ne uccise molti; io sottraevo i loro corpi per la sepoltura e Sennacherib invano li cercava…”

 Al suo ritorno dall’esilio, Tobia, imbandito un banchetto per una festa ebraica, manda il figlio ad invitare qualche povero e apprende che nella piazza giace abbandonato il cadavere di un uomo della sua gente strangolato. “Io allora mi alzai, lasciando intatto il cibo; tolsi l’uomo dalla piazza e lo deposi in una camera in attesa che tramontasse il sole per poterlo seppellire. Ritornai e, lavatomi, presi il pasto con tristezza… E piansi. Quando poi ci fu il tramonto, andai a scavare una fossa e lo seppellii…”

In seguito l’Arcangelo Raffaele, compagno di viaggio sotto mentite spoglie del figlio, loderà Tobia per avere provveduto alla sepoltura del morto.

Andersen, seppure in tutt’altro contesto, trasse forse qualche ispirazione ne “il compagno di viaggio” dall’episodio biblico dell’Arcangelo: e, infatti, come a Tobia, anche al protagonista della fiaba, Giovanni, si affianca un essere sovrannaturale che presta il suo aiuto, naturalmente con finalità diverse, in premio alla pietas del protagonista nei confronti dell’insepolto.

…in mezzo alla chiesa c’era una bara aperta, con dentro un morto che non era stato ancora sepolto. Giovanni non era affatto spaventato perché la sua coscienza era tranquila; sapeva che i morti non fanno del male, sono i vivi a farlo. E proprio due uomini vivi e cattivi stavano vicino al morto e lo volevano togliere dalla bara e gettarlo fuori dalla chiesa, povero morto!

“Perché volete farlo? – chiese Giovanni – è male! Lasciatelo in pace in nome di Gesù!”.

“Oh quante storie!, – risposero i due malvagi – Ci ha imbrogliato! Ci doveva del denaro e non potè pagarlo e ora e morto così non avremo niente. Per questo ci vogliamo vendicare e lui giacerà come un cane fuori dalla chiesa!”

“Ho solo 50 talleri – disse Giovanni – è tutta la mia eredità, ma ve li darò volentieri se mi promettete sinceramente che lascerete in pace quel povero morto!”

“Va bene – risposero i malvagi – se proprio vuoi pagare il suo debito, non gli faremo niente, puoi stare certo” e presero i soldi che Giovanni offriva ridendo sguaiatamente della sua bontà, poi se ne andarono.

Giovanni ricompose il cadavere nella bara, gli giunse le mani, disse addio e si avviò felice nel grande bosco.

Durante il cammino, come si è detto, gli si fa compagno un uomo misterioso il cui aiuto sarà risolutivo per la vittoria sulla malvagità e per un cambiamento meraviglioso di vita. Egli si rivelerà  il morto che ricambia la dolce pietas verso l’insepolto2.

In Odi 1 28, ad Orazio, immerso con la mente e col cuore nel caro paesaggio della sua terra, la penisola salentina, arriva triste la voce dell’insepolto poeta tarantino, Archita (IV sec. A.C.), che dopo aver ricordato con luoghi comuni l’inevitabile destino di morte, chiede che si adempia al dovere della sepoltura per coloro che non hanno goduto di questo pietoso rito. Non costa molto tempo al navigante gettare sul corpo tre manciate di terra. Chi non lo farà avrà una negativa ricompensa:

… ma tu, navigante, non rifiutarti, crudele,

di spargere un poco di sabbia

sulle mie ossa e sul capo insepolto

così qualsiasi minaccia Euro rivolga sui flutti esperti

si abbatta sui boschi di Venosa lasciando

te salvo e una ricca ricompensa ti venga

da Giove propizio e da Nettuno protettore della sacra Taranto.

Non ti importa di commettere una colpa

che potrà colpire i tuoi figli innocenti?

Forse anche a te potrebbe accadere la pena che ti spetta, …

non ci sarà espiazione che te ne potrà liberare.

Anche se hai fretta, non è lunga la sosta;

ti sarà possibile riprendere il viaggio

dopo aver gettato tre manciate di terra (sopra il mio corpo).

L’Antigone di Sofocle affronta la più terribile delle morti, quella di essere sepolta viva in una caverna, minaccia del tiranno Creonte a chi oserà seppellire Polinice “resti insepolto e in compianto, preda di uccelli e di cani colui che ha messo a ferro e a fuoco la terra dei suoi padri…”. Ella, contravvenendo all’applicazione rigida delle leggi, segue quella non scritta dell’amore “Io lo seppellirò” e getta tre pugni di polvere sul corpo insepolto del fratello, tanta quanto basta per una sepoltura simbolica che sottragga il morto ad un pallido aggirarsi fuori dall’Ade. Un guardiano scopre il fatto:

 

Quello (il morto) era scomparso non perché chiuso in una tomba

ma nascosto da un lieve strato di cenere sparsa (in fretta) come da chi fuggisse il sacrilegio

e nessuna traccia di belve o di cani

giunto a dilaniarlo appariva3

Mentre rinnova il triste compito, la fanciulla viene sorpresa e portata davanti al re Creonte cui il guardiano racconta che nell’infuriare di una tempesta:

… si vede la fanciulla che manda gemiti

Come fa un desolato uccello quando vede priva

Dei piccoli la culla del vuoto nido

Cosi elle, come ignudo scorge il morto

Prorompe in gemiti

Copre di maledizioni gli autori

E con le mani lo copre di nuovo con arida polvere

E, levata in alto una levigata anfora

Incorona il corpo con triplice libagione4

All’arrogante crudelta di Creonte, Antigone risponde proclamando il diritto di ubbidire alle leggi pietose di Giove e della Giustizia, compagna degli dei inferi; esse vivono dalla notte dei tempi. Se avesse lasciato insepolto l’uomo nato dalla stessa madre, un’angoscia mortale l’avrebbe sopraffatta.

Il pietoso gesto di coprire in qualche modo il cadavere abbandonato può assimilarsi ad una sepoltura simbolica? Ci ha colpito un editoriale de “La Stampa” del 25/10/2010 in cui, biasimando i giornali che crudelmente espongono immagini di corpi straziati, Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso dalle brigate rosse fuori dalla sua casa, dice:

Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente in questi giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in luogo pubblico5. Lo si fa con un lenzuolo bianco, con una coperta, con un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo; è un gesto codificato dal mondo (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non serve solo a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi, ma anche noi stessi, vivi, dalla vista dei morti. E’ il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi…”

“Sed Plena errorum sunt omnia”

Ma c’è chi in qualche modo contesta la grande importanza data dai più alla sepoltura. Tra questi Cicerone che nel I° libro delle “Tusculanae Disputationes” (De contemnenda morte), dopo che sono stati confutati i filosofi che negano l’immortalità dell’anima, passa a dimostrare che la morte non è un male perchè riguarda solo il corpo privo ormai di ogni sensibilità. Quindi è ininfluente la sepoltura con i riti ad essa connessi come si evince dalla risposta data da Socrate quado Critone gli domanda come vuole essere seppellito: “Ho perso il mio tempo. Infatti non sono riuscito a persuadere il nostro Critone che io me ne volerò via di qui non lasciando niente di me”. E quale cosa triste, come quella di essere divorato da uccelli e fiere, può accadere al morto se esso è ormai una cosa inerte?

Anche le opere poetiche che descrivono patetiche scene di lacrime per un corpo offeso e dilaniato o apparizioni di fantasmi che chiedono la sepoltura per i loro corpi abbandonati sono pieni di falsità come lo sono i due tetrametri giambici di Pacuvio in cui Deifilo, ucciso per errore dal padre, chiede nel sogno: “Madre, ti prego, tu che cerchi di alleviare nel sogno l’angoscia, / né hai pietà di me, alzati e seppellisci tuo figlio”.

Nel capitolo XLIX, epilogo del libro, l’autore conclude che, sia che la morte costituisca la desiderata liberazione dal corpo per una ascesi alla celeste dimora, sia che comporti l’annientamento, non deve essere considerata un male. E, di conseguenza, tra l’imperativo del poeta Ennio “Nessuno mi onori con lacrime né celebri funerali tra i pianti” e l’invito dal saggio Solone “Non manchi di lacrime la mia morte, lasciamo che gli amici siano tristi affinchè numerosi seguano con pianti il mio funerale”, Cicerone dà la preferenza al primo.

Dal papa Gregorio Magno (540-so4) e da Sant’Agostino viene stigmatizzato, il desiderio dei primi cristiani di seppellire o di essere sepolti vicino alle tombe dei santi (ad sanctos) perché, dice l’autore de “Le confessioni”, alle anime dei morti sono più utili la preghiera e le buone opere. Nel 421 Paolino vescovo di Nola6 gli aveva scritto di avere acconsentito alla richiesta di una fedele di seppellire il proprio figlio nella basilica nolana di San Felice ritenendo facesse bene ai morti stare accanto alle tombe dei santi. Nell’opera De cura pro mortuis gerenda Sant’Agostino gli risponde che la solennità dei funerali è magis vivorum solacia quam subsidia mortuorom (è più una consolazione per i vivi che un aiuto ai morti).

 

 

 

  1. Il dipinto “Le sette opere di misericordia” del Caravaggio è esposto nella Cappella dell’Istituto “Pio Monte della Misericordia” in via dei Tribunali a Napoli. L’opera misericordiosa di seppellire i morti è rappresentata da un cadavere, di cui appaiono solo i piedi, trasportato da due uomini uno dei quali munito di fiaccola.
  2. Nella Bibbia, nel libro di Tobia, il figlio di costui in viaggio per riscuotere un credito del padre, trova come compagno l’Arcangelo Raffaele sotto mentite spoglie. Anch’Egli, il cui nome significa “Dio guarisce” lo aiuta contro i pericoli e ridona la vista a Tobia.
  3. Sofocle, Antigone, vv. 255-258
  4. Ibidem, vv. 423-431. Si faceva una triplice libagione versando nella tomba del morto, con un vaso a bocca stretta chiamato leukotoe, prima l’idromele, poi il vino dolce, infine l’acqua. Si ricordi la forte valenza del numero tre.
  5. Ph Ariés (L’uomo e la morte dal Medio Evo ad oggi – Bari 1980) definisce con questa triste evenienza che coglie l’uomo lontano dai luoghi e dalle persone care: “… è la morte clandestina, senza testimoni né cerimonie: quella del viandante in cammino, dell’annegato nel fiume, dello sconosciuto di cui si scopre il cadavere su un limitare di un campo. E, possiamo aggiungere noi, è quella dei vecchi lasciati soli e finiti miseramente su un pavimento e di moltissimi assassinati e gettati sprezzatamente nelle discariche o sotto i ponti”.
  6. Paolino, nato a Burdigala (od. Bordeaux), nel 355, convertitosi e ordinato sacerdote, dopo l’incontro con Agostino e Ambrogio, si ritirò con la moglie a Nola, presso la tomba del martire San Felice e lì eresse un santuario adibito, in parte, ad ospizio dei poveri. Ancora oggi, in suo onore, si celebra a Nola la “Festa dei Gigli”, con grandi macchine sorrette da portatori, su una delle quali ondeggia la statua del Santo.