Storia della pasticceria a Galatina (2^ parte)

L’arte dolciaria e pasticcera galatinese oggi è rinomata in tutto il Salento per la qualità, la varietà e la specificità dei suoi prodotti. Non tutti sanno, però, che essi non sono propriamente originari di Galatina, ma il frutto di un’evoluzione dovuta a una pluralità di contributi, che consistono nell’apporto di prodotti, di conoscenze e di esperienze maturate anche sul luogo.

Alcuni prodotti tipici galatinesi, da tempo, sono comuni ad altri paesi della provincia di Lecce, ossia quelli generalmente attribuiti ad antiche tradizioni ‘popolari’. Molto diffusa, ad esempio, la cuddhrura (greco κολλύρα, greco volg. κολλούρα, ciambella, pane di forma rotonda)1, che secondo alcuni deriverebbe da un’antica tradizione delle comunità cristiane di rito greco-bizantino presenti, in passato, nel Salento come anche in Sicilia, dove si può notare la somiglianza con la tradizione della cuddhura cull’ova o aceddhu cu l’ova, e tuttavia non è escluso che l’una discenda dall’altra o viceversa. Lo stesso potrebbe dirsi per le carteddhrate (gr. κάρταλλος, cesto) di cui rimane incerta la provenienza, se dalla Calabria o, ancora una volta, dalla Sicilia.

Ma, a parte queste ed altre poche eccezioni, che non trovano riscontro nella letteratura gastronomica se non in tempi più recenti, si può dire che la nostra cultura pasticciera sia il risultato di una selezione di conoscenze, in parte originarie o, comunque, già diffuse prevalentemente in Campania, Toscana, Calabria e Sicilia. Infatti, la maggior parte dei prodotti ‘tipici’ della nostra regione è associata a un lessico comune a diversi ricettari antichi italiani, che sin dal Rinascimento hanno aspirato a creare un’identità culturale in cucina di portata nazionale, riuscendo ad aggregare e in alcuni casi fondere saperi e sapori tipici di diverse regioni italiane.

In generale, l’abitudine al consumo dei dolci fino a circa metà ‘800 era appannaggio dell’aristocrazia, mentre la classe borghese ne godeva occasionalmente, in determinate ricorrenze religiose e spesso provvedendo personalmente alla loro preparazione. Tra i tanti luoghi comuni, va sfatato, infatti, anche quello secondo cui molti prodotti della nostra tradizione appartenessero in passato alla ‘cucina contadina’ o a una dimensione così ‘popolare’, poiché la quasi totalità della popolazione, fino ai primi decenni del ‘900, ha sempre cucinato cibi scarsi e poveri di contenuti nutrizionali, in quella che è stata definita “cucina della fame”2.

Alcune novità gastronomiche sono state introdotte a Galatina grazie all’immigrazione di persone o di famiglie benestanti che hanno portato con sé conoscenze o tradizioni dei luoghi di provenienza. In altri casi, sono stati gli stessi galatinesi ad aver avuto l’opportunità di conoscere differenti costumi, tradizioni e prodotti tipici in altre città italiane, consentendo la replicazione di determinati cibi attraverso l’apporto di ricettari, di respiro interregionale, tenendo conto anche della crescente alfabetizzazione della società conseguente l’unità nazionale.

Nel precedente numero, abbiamo abbozzato quella che può essere stata l’evoluzione delle caffetterie galatinesi, laddove alla normale attività commerciale abbiamo visto aggiungersi dapprima la vendita di bevande ad alta gradazione alcolica (acquavite, liquori) per arrivare, infine, nella seconda metà dell’800, ad intraprendere anche la pratica artigianale pasticciera.

Ma, quando e come è nata questa iniziativa?

Nell’Ottocento, in Italia, le aspirazioni civili e liberali di una società borghese in odore di unità nazionale portarono a prediligere, oltre ai pubblici caffè, come in altri Paesi d’Europa già nell’età dei lumi, gli ambienti domestici, eletti a sedi abituali di riunioni culturali e di incontri conviviali. Ciò è testimoniato dalla corposa corrispondenza ottocentesca dei Sicilani, pubblicata grazie al prezioso, notevole e interessante lavoro storiografico, curato da Francesco Luceri nel 2013 (P. Siciliani, Il carteggio familiare di Pietro Siciliani, 1850-1932, 2 voll., Centro di studi salentini), e dalle singolari lettere pubblicate da Rosamaria Dell’Erba in due articoli editi in questa stessa rivista, nel 2014 (Lettere da Cesira Pozzolini Siciliani a Luigi Mezio in «Il filo di Aracne», anno IX, nn. 3, 4).

Nel coltivare l’interesse e la ricerca di un’identità comune, anche dopo l’unità d’Italia, i salotti culturali furono i luoghi di scambio non solo di idee, ma anche di conoscenze tra intellettuali di diversa provenienza. Tra queste, non potevano mancare le peculiarità enogastronomiche, spesso oggetto di disquisizione e di apprezzamento da parte dei partecipanti alle riunioni. Nelle lettere troviamo, perciò, una straordinaria quantità di testimonianze di quelli che erano i prodotti dolciari e di pasticceria dell’epoca, oggetto di frequenti doni, tra Galatina e Firenze o tra Galatina e Bologna e viceversa, soprattutto dopo il matrimonio (1864) tra Pietro Siciliani e Cesira Pozzolini.

Vini e liquori, quindi, servono spesso ad accompagnare la frutta secca (mandorle abbrustolite, fichi secchi, noci, giuggiole, prugne, uva secca o passoline) e i dolci, cioè le prelibatezze inviate da Galatina sia in occasione delle ricorrenze religiose sia per deliziare i salotti culturali che si tengono settimanalmente in casa Siciliani a Bologna ovvero, ancor prima, a Firenze. Probabilmente, non è nemmeno un caso che vi sia una somiglianza tra gli abbinamenti in uso in questi salotti culturali e la consuetudine toscana, ancora oggi, di abbinare il vinsanto ai cantucci, peraltro molto simili ai nostri quaresimali.

È possibile che il frequente consumo di specialità gastronomiche ed enologiche a Firenze e a Bologna abbia invogliato a intraprendere a Galatina la pratica artigianale pasticciera?

Molto probabilmente, l’invitante abitudine di abbinare vini pregiati e liquori alla frutta secca e a prodotti di pasticceria presso i salotti culturali fiorentini e bolognesi ha influenzato, attraverso le relazioni sociali e familiari, i costumi della società borghese ed aristocratica di Galatina, muovendo alcuni caffettieri, che già disponevano di un’offerta di prodotti enologici, ad adattarsi alle nuove, crescenti esigenze di consumo.

Molti esempi di abbinamenti tra cibi e vini tipici emergono dal carteggio dei Siciliani in periodo postunitario. Per esempio, la lettera scritta il giorno di Martedì Santo del 1866 preannuncia l’invio da Firenze di una cassa contenente alcuni vini, quali: il vin santo, l’aleatico, il vermut, insieme a cibo della tradizione pasquale ossia il panforte e la schiacciata, chiedendo di aver cura di farli recapitare a Galatina, in particolare a Luigi Mezio e a Felice Ascalone. Da Galatina, invece, abbinati ad agnellini pasquali vengono spediti altri vini di qualità, tra i quali: il moscato e lo zagarese, spediti da D. Celestino Mongiò ai Siciliani nel 1873; la lacryma, inviata a Bologna, da Pietro Vallone ai Siciliani, in un’altra occasione; il mezio suffezio (o solo mezio), inviato da Rosario Siciliani a Bologna nel 1871 oppure dallo stesso Luigi Mezio nel 1870, 1873 e 1876, spesso insieme ai torroni di Ascalone (R. Dell’Erba, Lettere… cit., a. IX, n. 3, p. 11).

Nel periodo pasquale, immancabilmente vengono inviate le tradizionali paste di mandorle in forma di torte o di agnelli3. In altre occasioni, tra il 1865 e il 1881, la cassetta de’ dolci spedita da Galatina, per la quale giungono puntuali i ringraziamenti di Cesira Pozzolini, contiene una significativa varietà di altri articoli tra cui: cotognate, pittelle (pitteddhre, in dialetto), pan di spagna, turroncini, pezzi duri, copeta, mostaccioli, carancioli, taralli, oltre a dei generici dolci inzuccherati.

Le lettere testimoniano il consumo di altri prodotti tipici galatinesi, non contenuti nelle cassette de’ dolci, come ad esempio le pittole (pp. 417, 782), preparate al momento con il mele (miele).

Poi, troviamo anche: bucconotti (27 giu. 1881; 14 apr. 1884), gattò e struffoli (27 dic. 1883), in pratica, dei dolci che vengono citati per la prima volta in questo periodo, negli scambi epistolari, come se per produrli, ora, si attingesse a una recente fonte di conoscenze.4 Ai più oggi sembrerà strano, ma per tutto il secolo non vengono mai menzionati dolci o paste alla crema di nessun genere.

 

Salvo rarissime eccezioni, non è chiaro se questi prodotti provenissero dai caffè-pasticcerie dell’epoca o se venissero prodotti in casa da alcune famiglie borghesi.

Da uno scambio epistolare a cavallo tra ‘800 e inizio ‘900, invece, si può rilevare un frequente invio a Cesira Pozzolini di dolci preparati da alcune donne in particolare, quali: Consiglia Siciliani (moglie di Giuseppe Garzya), Pietrina Siciliani (moglie di Antonio Michele Vallone), Giuseppina Vallone (moglie di Luigi Palma), Adalgisa Virgilis (moglie di Vito Vallone), Giuseppina Tundo (moglie di Vito Antonio Siciliani) e, forse, Petrina Tundo (moglie di Giuseppe Siciliano).

Ad esempio, da Firenze Cesira Pozzolini scrive: «Alla Consiglia mando infiniti ringraziamenti pel pensiero che ha avuto di mandarmi quella buona, squisitissima copeta» (13/10/1865). «Trovai la cassetta di dolci della Giuseppina Siciliani [Tundo]» (1/1/1908). «In un vassoio avevo preparato dolci della Giuseppina [Vallone]» (31/1/1910). «Vi dirò che tante volte ho pensato a que’ buoni dolci della tua Pierina» (lett. a Antonio M. Vallone, 13/6/1908). «Ho ricevuto con l’agnellino Pasquale i dolci graditissimi: se sono fattura tua mi rallegro con te, perché sono proprio squisiti.» (lettera indirizzata ad Adalgisa Virgilis, 2/4/1914). Verosimilmente, quindi, vi era uno scambio privato anche di consigli e di ricette.

La stessa Cesira Pozzolini sostiene di insegnare a cucinare a una giovane domestica, in una lettera inviata il 21 dicembre 1867 a Rosario Siciliani, nella quale, peraltro, confida di aver ricevuto da Piero, da Firenze, “Il Cuoco pratico 5, un ricettario anonimo, edito a Livorno sin dal 1864, con cui si diletta in cucina. Questo indizio sta a testimoniare che la consultazione dei ricettari non era una pratica così inusuale in ambito domestico, perlomeno nelle famiglie più acculturate. Perciò, presumibilmente in questo periodo ne sono stati procurati ad amici o parenti a seguito di viaggi o durante la permanenza di galatinesi in altre città italiane.

È possibile, quindi, che altri manuali del genere possano aver contribuito a migliorare o a far intraprendere l’attività artigianale di pasticceria a Galatina.6 Del resto, in generale non abbiamo notizie inequivocabili circa l’eventuale esistenza a Galatina di altri pasticcieri, coevi o di generazioni precedenti, che possano aver tramandato, ai primi, noti artigiani galatinesi, il proprio sapere professionale.

I primi espliciti riferimenti alla produzione artigianale pasticciera galatinese li troviamo, peraltro, in una lettera del 5 febbraio 1866 e riguardano i turroncini7 e i pezzi duri di Felice Ascalone.

Si ignora la provenienza8, invece, «delle eccellenti cotognate» inviate un po’ prima, il 13 gennaio 1866, all’interno di una «elegantissima cassetta di dolci». Dati i frequenti rapporti dei Siciliani con gli ambienti liberali leccesi, è possibile che si trattasse della famosa cotognata Cesano, detta poi ‘cotognata leccese. Tuttavia, le cotognate vengono donate già qualche anno prima della nascita ufficiale (1863) della “Ditta Cesano”, ma non si evince da dove provenissero.

Le prime testimonianze dei bucconotti, a Galatina, le abbiamo tra l’800 e il ‘900. Erano delle piccole paste di forma tonda costituite da un involucro di frolla, farcito, probabilmente, con marmellata, faldacchiera (cfr. V. Corrado, op. cit., pp. 182,199) o con un composto a base di mandorle o tutt’al più di cioccolato. Petrina Tundo ne spedisce a Bologna, in prossimità della festa patronale di Galatina, nel 1881. Ne vengono inviati anche da Rosario Siciliani a Firenze per la Pasqua del 1884. In entrambi i casi non è indicato chi li avesse prodotti. Nel 1909, invece, sappiamo che dei bucconotti vengono realizzati da Adalgisa Virgilis e spediti a Firenze per Cesira Pozzolini, la quale scrive: «Feci io la crema9 e la guarnii con tre de’ tuoi bucconotti (dico bene?) squisiti. Vito ti dirà che, tua mercé, la mia crema era buona davvero. Come ti ringrazio, cara Adalgisa, di avermi mandato anche i bucconotti, fattura delle tue mani!» (15/11/1909).

I mostaccioli10, pur volendo ammetterne la provenienza direttamente da Napoli, non sappiamo con certezza quando e chi possa averli introdotti a Galatina, ma ciò può essere avvenuto, molto probabilmente, nella seconda metà dell’800. Lo stesso dicasi anche per gli struffoli11, inviati da Galatina a Bologna nel dicembre 1883, che, insieme ai carancioli12 (nov. 1867), date le reciproche somiglianze, parrebbero proprio corrispondere rispettivamente ai purciddhruzzi e alle carteddhrate.

Nel Salento, gli africani sono un prodotto esclusivo, ma non originario di Galatina. Rosario Siciliani ci dà notizia, in una lettera, di averne offerti in occasione del battesimo del nipote Vito, figlio del fratello Pietro e di Cesira Pozzolini, avvenuto a Firenze il 5 febbraio 1866. Li chiama affricani, utilizzando la pronuncia toscana e in effetti è molto probabile che Rosario li abbia acquistati a Firenze13 per poterli integrare ad altri prodotti, portati con sé da Galatina, e offrirli subito dopo la cerimonia. Furono fatti apprezzare anche ad altri galatinesi presenti, tra cui Luigi Mezio e Pietro Cavoti, perciò è molto probabile che fu proprio a seguito di quella circostanza che l’affricano verrà importato a Galatina. Sta di fatto che la ricetta dell’africano galatinese è simile, fuorché nell’aspetto, a quella dell’affricano prodotto nelle aree geografiche del Chianti e del Mugello e, tuttavia, la ricetta non è nemmeno di origine toscana. Infatti, ‘affricani’ non è altro che una semplificazione di Biscotti (o Bocconi) all’Africana, titolo originale della ricetta scritta dall’oritano Vincenzo Corrado, suo probabile14 inventore, il quale in una delle prime edizioni ne descrive così il procedimento:

«Mescolali bene dieci gialli d’uova con dieci oncie di zucchero in polvere, in modo che i gialli diventino quasi bianchi, si uniscano con mezza chiara d’uovo montata, ed un senso di Cedrato. Poi distribuito questo composto in varie cartelline lunghe, e strette, si farà cuocere al forno lentamente, e quando si distaccheranno dalla carta si possono servire» (Il Cuoco Galante, II ed., Napoli, 1788, p. 182).

A mio avviso, con l’attributo all’Africana l’erudito Corrado allude alla propria conoscenza circa la precisazione di Antonio Latini (op. cit., p. 225), secondo cui dei galli pregiati venivano comunemente, ma impropriamente definiti ‘d’India’ quando, invece, erano di origine dei «Paesi Africani» (Egitto?); in questo modo, perciò, il Corrado sottende anche la qualità delle uova, ossia la loro provenienza dal medesimo allevamento avicolo.

L’appellativo dita di Apostoli (P. Siciliani, op. cit., p. 284), invece, molto facilmente è stato coniato in (o per) ambienti religiosi, ma plausibilmente deriva dalla forma prescritta per gli stessi biscotti in edizioni successive: «fogli di carta, disposti a canaletti come un ventaglio» (Il Cuoco Galante, VI ed., Napoli, 1820, p. 146), ossia, possiamo immaginare, come le dita aperte di una mano. Una circostanza in cui la ricetta dei biscotti all’africana giunse in Toscana è testimoniata in una lettera (Ivi, VI ed. cit., p. 240) scritta dal Cav. Antonio Paci a Firenze, il 17 maggio 1781, per ringraziare il Corrado di avergli inviato in dono una copia del suo celebre ricettario.

Sappiamo, invece, attraverso le recenti testimonianze dei più anziani, che nella prima metà del ‘900 gli africani venivano preparati per i bambini dalle mamme o dalle nonne, che la sera portavano lo zabaglione fatto in casa presso un forno comune, appena spento, per farlo cuocere.

Altri articoli di pasticceria a noi familiari verranno prodotti e venduti al banco nel ‘900, quando a Galatina nasceranno nuovi caffè, bar e pasticcerie, mentre alcuni maestri in particolare contribuiranno notevolmente a segnare l’evoluzione e la storia della pasticceria galatinese e di altri paesi della Provincia, diffondendo il sapere alle nuove generazioni.

Alessandro Massaro

 

NOTE

1. Cfr. Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, M. Congedo Editore, 2007.

2. Cfr.: 1861-2011 La Cucina nella formazione dell’identità nazionale, a cura dei Centri studi Territoriali, Accademia Italiana della cucina, Milano, 2011, pp. 57-74: Cap. I – Cucina della fame e cucina borghese nella seconda metà dell’Ottocento.

3. Sono molto apprezzati quelli di Corigliano, dove probabilmente vi era un’attività artigianale pasticciera. Cfr. P. Siciliani, op. cit., pp. 267, 284.

4. Oltre ai mostaccioli, menzionati già nel 1870 (p. 465), bucconotti, gattò e struffoli si trovano nei più celebri ricettari antichi napoletani, riferimenti importanti per molti altri ricettari successivi. In particolare: Il Cuoco Galante (Napoli, prima ed.: 1773) di Vincenzo Corrado, e Cucina Teorico-Pratica (Napoli, 1837-65) di Ippolito Cavalcanti.

5. Il Cuoco pratico ed economo ossia l’arte di fare una buona cucina con poca spesa…, E. Rossi e C., Livorno (1864-1865); edito anche a Milano, presso E. Oliva, dal 1867.

6.Il Cuoco pratico” non fa parte della collezione della Biblioteca “Siciliani” di Galatina; ne fa parte, invece, l’anonimo “Ricettario domestico” (Sonzogno, Milano, 1888), per dono di Pietro Cavoti. Per una bibliografia di ricettari ottocenteschi, cfr. A. Capatti (a cura di), Pellegrino Artusi…, BUR, 2010. Sorge spontaneo ripensare, inoltre, ai frequenti scambi di favori e di doni tra i Siciliani e Luigi Mezio e, d’altra parte, al sodalizio tra la famiglia di quest’ultimo e quella di Felice Ascalone, dovuto anche a una passione comune per la produzione enologica, che sembrerebbe risalire alla fine del ‘700 o inizio ‘800 (vds.: 1^ parte di questo articolo).

7. Le origini del torrone e della copeta (o croccante), si ritengono essere molto antiche. Il torrone è menzionato in Giovan Battista Crisci, Lucerna de Corteggiani, Napoli, 1634, p. 307, ma la ricetta più antica è quella del torrone squisito di Aversa, descritta in Antonio Latini, Lo Scalco alla Moderna, Napoli, 1694, p. 603. Tuttavia, il più famoso, oggi, è quello beneventano.

8. È possibile che il marchio/logotipo sia stato adottato dopo la nascita del primo laboratorio con carattere industriale, inaugurato da Raffaele Cesano il 2 feb. 1888 (cfr. Aduino Sabato, Lecce illustrata, Del Grifo, 2005, p. 362) ovvero per distinguersi, in seguito, dalle ditte concorrenti, come quelle di Francesco Fiorentino e di Oronzo Tripoli.

9. Prima d’ora, nelle lettere non vengono mai menzionati prodotti alla crema né la sola crema, che Cesira Pozzolini qui sperimenta, molto probabilmente, grazie al suo vecchio (1864/65) ricettario: cfr. Il Cuoco pratico… cit., pp. 174-175.

10. P. Siciliani, op. cit., pp. 465, 806, 807. Mustacciolo (mustazzolo a Galatina; scajozzo a Gallipoli) deriverebbe da ‘mosto’ (dal lat. mostacea); infatti, si parla dei mustacei già nel De Agricoltura di Catone, cioè di dolci a base di farina, lardo e mosto, aromatizzato con anice, cumino e alloro. Già Cristoforo Messisbugo scrive nel 1557 la ricetta dei mustazzoli di zuccaro, mentre quella dei mustacciuoli napoletani la troviamo in Opera (Venezia, 1570) di B. Scappi; poi nei ricettari napoletani e in altri successivi.

11. Anche gli struffoli (o truffoli) sono menzionati in Opera di B. Scappi e in G. B. Crisci, op. cit.. Sono dei dolci tradizionali natalizi molto simili ai purciddhruzzi, stando alle descrizioni riportate dal Cavalcanti (op. cit., pp. 14, 15). Nel Salento, questo termine è sopravvissuto in Maglie, ed è stato segnalato come esistente a S. Cesario di L. e Maglie intorno al 1930: cfr. G. Rohlfs, op. cit..

12. P. Siciliani, op. cit., p. 375. Il termine caranciolo, attualmente estinto, è di etimologia ignota. Il Rohlfs riferisce l’assonante voce dialettale calangi (Calimera, Castrì di Lecce) o calangeddhri (Lecce) e, dalla sua descrizione, sono molto simili alle attuali carteddhrate: «frittura natalizia, stesa a sfoglia, tagliata a nastri e attorcigliata in rosette» (op. cit., p. 93).

13. Rosario Siciliani, nella lettera (Firenze, 5/2/1866) al fratello Pietro Donato scrive: «si fecero tre vassoi (quintiere) una di affricani, ossia dita di Apostoli, una seconda di quei pezzi duri di Ascalone e turroncini […], ed una terza di altri generi…». La sequenza con cui vengono elencati i dolci lascia intendere che gli affricani non fossero stati prodotti da Ascalone; né da altri galatinesi; ad ogni modo, questa è l’unica volta in cui compaiono in tutta la corrispondenza dei Siciliani.

14. Il Corrado ha scritto molte ricette e metodi originali. La ricetta dello zabaglione risale almeno al XV sec. (es.: l’anonimo “Cuoco napoletano”; il “Libro de Arte coquinaria” del Maestro Martino da Como), ma, anche in altri ricettari  anteriori a quello del Corrado, non si prescrive mai la cottura al forno.