Il mio paese è il centro, l’ombellico del Salento, così come piazza IV Novembre era l’ombellico di quel paese. Non è una piazza, in realtà è la strada principale che da nord a sud spacca in due il paese e lo priva di ogni intimità: non una meta quindi, ma un paese di passaggio. tranne quel punto dove la strada si allarga e si formano due “piazzole di sosta”, una di fronte all’altra, dove nessuno, per un motivo qualsiasi, si sarebbe mai fermato a sostare. Tranne i cani randagi e tutti quei ragazzi assidui frequentatori della piazza perché nelle case non c’era spazio sufficiente per tutti. La piazza era allora abitata. Almeno una volta al giorno, la casa, unico vano o due al massimo, veniva completamente oscurata e il ragazzo prima di uscire aiutava la madre a scacciare le mosche: dall’interno il ragazzo apriva e chiudeva ripetutamente lo spiraglio della porta che dava alla strada, con movimenti rapidi e regolari per indicare alle mosche un punto di luce e una via di uscita e la madre, partendo dall’angolo più interno ed opposto, sventolando un asciugamani , spingeva le mosche verso quello spiraglio di luce allora bastava spostarsi di lato, spalancare la porta e con rapidi colpi d’asciugamano, cacciarle via. Questa operazione, due o tre volte, e con le ultime mosche, quasi inseguendole, anche il ragazzo scappava via: restava la madre, a porta chiusa e in penombra, sola finalmente.

A differenza dei cani randagi, che sulla piazza stavano insieme ambedue i sessi, del genere umano solo i maschi potevano stare. Le ragazze invece, già da piccole, terrorizzate dai genitori: “se stai con i maschi ti muore la mamma!” facevano una vita più riservata, quasi anonima.

Senza la presenza adulta e femminile, quasi sempre svezzati e cresciuti senza un abbraccio, senza baci nè carezze, senza dialogo, nè allegria, nè giochi da parte dei propri familiari, i ragazzi di strada erano in realtà soli tra loro, ma proprio per questo, liberi di dare sfogo al loro istinto più naturale e alla loro rabbia che tanto li faceva assomigliare ai cani.

I cani a loro volta erano terrorizzati dai sassi che in ogni momento, e da ogni direzione potevano arrivargli addosso e la loro permanenza sulla piazza o soltanto il loro passaggio era un’incognita, un rischio. I ragazzi si divertivano a spaventarli, ad inseguirli con bastoni e a sassate interrompere i loro amplessi quando si accoppiavano tra loro.

Certo è che le strade e le piazze allora erano popolate, le case colme e traboccanti e animali e persone, giorno per giorno dovevano fare i conti con la realtà, per avere spazio sufficiente a legittimare la propria esistenza anche nel più remoto angolo del mondo, nel paese più interno del Salento.

Dopo ogni guerra c’è un periodo di ricostruzione si guarda con più fiducia il prossimo, così ogni paese, anche il più sprovveduto sente il diritto di sperare nel futuro; anche quei paesi dove non succede mai niente, dove nonostante le guerre, nessun esercito è mai passato, dove non s’è mai visto sangue versato e nessun soldato sparare, solo lutti e monumenti ai caduti con tutti i loro nomi scolpiti sul marmo. Il mio paese non è stato mai liberato perché non è stato mai occupato. Ma nonostante abbia pagato ugualmente il suo tributo di sangue, nessuno poteva sentirsi veramente tranquillo e al sicuro, neanche in tempo di pace, neanche in braccio alla propria mamma.

La seconda tragica guerra mondiale era finita da un decennio ma il paese era ancora stremato, la popolazione più attiva era stata decimata e la generazione successiva era ancora immatura. Numerosi e al completo erano invece anziani donne e bambini, a questi si aggiungevano gatti e cani.

I gatti erano trattati bene, coccolati, accarezzati e soppesati; quando raggiungevano il peso giusto venivano chiusi vivi in un sacco, bastonati a morte e poi scuoiati e cucinati. I gatti si sa non hanno padrone, così ognuno si sentiva in diritto di tentarne la cattura e di appropriarsene.

I cani invece rischiavano solo sassate, conoscevano a uno a uno i ragazzi, la loro indole e stavano al gioco. Bastava guardarsi le spalle, scappare quando c’era da scappare, dimostrarsi disponibili, scuotendo la coda quando era necessario e quando ne valeva la pena.

Chi passava o chi si soffermava su quella piazza erano sempre le stesse persone conosciute.

Gli unici forestieri erano due o tre che in giorni diversi passavano, diretti a sud, con motociclette di piccola cilindrata, carichi di un enorme fascio di lunghi e sottili fili di piante di vimini per intrecciare sporte, borsette e fische. Per strappare loro, in corsa, una certa quantità di fili, i ragazzi ricorrevano alla violenza e tirando, chi da una chi dall’altra, li strattonavano e spesso li facevano cadere rovinosamente.

Altro forestiero era l’autista dell’unica corriera che passava una volta al giorno il pomeriggio e anche a questa i ragazzi correvano dietro aggrappandosi al paraurti fino alla fermata del bar per il gusto di respirare quello strano odore di bruciato che usciva dalla marmitta.

Alla fermata solitamente nessuno scendeva e nessuno saliva e siccome la corriera era alta, nessuno dei ragazzi riusciva a vedere se seduti dentro ci fossero altri passeggeri, che oltre all’autista, passavano di là tutti i giorni.

E un giorno di questi, un furgone scuro e mai visto, si fermò di traverso sulla piazza, scesero due persone in divisa e gli stivali di cuoio, presero di mira due cani randagi, uno aveva in mano qualcosa da mangiare e lo mostrava avvicinandosi amichevolmente, l’altro nascondeva dietro di se un lungo e flessibile bastone, anch’esso di cuoio con in cima un cappio aperto a nodo scorsoio. Il cane ignaro mangiava e l’ altro tendeva lentamente il cappio alla testa dell’animale. Era come il filo di biada alla cui estremità i ragazzi formavano un cappio, grande quanto bastava per farlo passare attorno alla testa delle lucertole, lentamente, senza toccarla, cessava ogni rumore e tutt’intorno ogni cosa si fermava. Ricordo l’espressione della lucertola: doveva aver capito la situazione e la sua immobilità era un segnale di resa, pareva anzi che volesse abbreviare i tempi e facilitare la propria cattura porgendo volontariamente il collo al cappio che entrava lentamente.

Una sassata colpì in pieno il cane che mangiava e tutti e due scapparono via. Gli “acchiappacani” si guardarono intorno quasi increduli, videro per la prima volta la piazza, la presenza dei ragazzi, e dei passanti che si erano fermati a guardare, risposero con imprecazioni e bestemmie e se ne andarono lasciandosi dietro gesti e frasi oscene e una risata generale.

Né, né, né

Sutta a mammata cce nc’è

Nc’è nu purginella

Ca thrase e esse

Ta portella.

Sguaiato, solitario e senza Angelo Custode, Vituccio “Paracazzi”era quello che si notava più di tutti tra i ragazzi di strada, non solo per la statura e i muscoli che aveva, ma anche per la sua maggiore età era di qualche anno più grande di noi tutti e questo sarebbe bastato per decidersi a farsi da parte. Poteva cominciare a imparare un mestiere ma nessuno lo accettava, neanche noi ormai più di tanto, e questo lo rendeva nervoso e irascibile. Non era ritardato nè cattivo ma col passare del tempo “Vituccio” avvertiva sempre di più che il suo spazio si stringeva, forse nato in anticipo, forse in ritardo, si sentiva schiacciato nell’interstizio che si era creato tra una generazione e l’altra.

Non trovando spazio tra quelli più grandi di lui, cercava di “nascondersi” in mezzo a noi, ma non riusciva a mimetizzarsi e “Vituccio” agli occhi del mondo era li, allo scoperto, sulla pubblica piazza, rasato a zero per risparmiare sul barbiere, scalzo d’estate e approssimativamente calzato d’inverno, con i suoi pantaloni nè corti nè lunghi. appesantiti dalla fionda e dai sassi che portava sempre in tasca, per difendersi più che per offendere: Era stata sua la sassata che aveva fatto scappare i cani.

Appena lanciato il sasso anche lui scappò via, così come faceva quando ci rubava le noci e i noccioli di pesca che i ragazzi piazzavano in fila per terra per poi allontanarsi e colpire da lontano con un’altra noce o con la “staccia”: Vituccio si metteva vicino alle noci, fingendosi spettatore, poi al momento giusto, con un gesto rapido si chinava, “brancava” le noci sistemate per terra e scappava via. Per lui era uno sfogo, ma molti di noi erano arrabbiati e non lo avrebbero mai perdonato.

Degli acchiappacani se n’è parlato per un pò di tempo. Molti dicevano d’averli visti all’opera in punti diversi del paese e in periferia. Fatto sta che dopo qualche mese i cani in piazza erano rari e in giro ne circolavano sempre di meno.

Ognuno faceva le sue supposizioni ma riguardo alla fine che avrebbero fatto i cani scomparsi, la più ottimistica era quella che erano stati fatti morire in pace e sepolti cristianamente, altri dicevano che dopo ammazzati avrebbero fatto scatolette di carne e con le loro ossa, dadi per brodo. Tutte queste supposizioni e dicerie facevano chiaramente capire quanta inquietudine aveva creato tra la gente, questa vicenda che, calata dall’alto, niente aveva a che fare con le abitudini del paese.

In quel contesto si verificò l’episodio che non dimenticherò più: nel tratto di strada tra il bar e il vecchio municipio si fermò in pieno giorno una macchina nera e come nella scena di un film, si spalancarono i quattro sportelli e quattro persone si precipitarono fuori, acchiapparono Vituccio, lo sollevarono di peso, lo caricarono in macchina e lo portarono via; tutto in un baleno e tra l’immobilità e il silenzio della gente tutta intorno.

Vituccio “Paracazzi” non lo abbiamo più visto e nessuno ha saputo più nulla di lui.

Certe scene per quanto possono essere rapide, lasciano nella memoria dei fotogrammi, quelli più drammatici, più essenziali: Vituccio che si volta di scatto per guardare dal basso in alto chi lo sta immobilizzando e capisce che il suo spazio si è ormai esaurito; Vituccio sollevato di peso si inarca inutilmente come un ossesso; Vituccio in macchina in mezzo a due persone sul sedile posteriore che guarda dietro di se con la bocca muta e spalancata e la macchina che s’allontana accelerando verso l’uscita nord del paese.

Dopo un po’ di giorni nessuno ne ha più parlato, e dopo qualche anno in paese si è saputo della morte di un ragazzo di Supersano, nel manicomio di Bisceglie, ma ormai nessuno lo ricordava più , nessuno lo conosceva, e poi si sa che la morte di uno “scemo” non fa notizia, anzi mette l’animo in pace.

Da allora la piazza non fu più la stessa, molti di quei ragazzi furono tirati per le orecchie e portati nelle botteghe di ogni artigiano: calzolai, sarti, falegnami, e lì, umiliati, picchiati, e spesso sottoposti a molestie. Qualcuno di loro è riuscito a imparare un mestiere.

Il manicomio di Bisceglie è stato chiuso grazie alla legge Basaglia. Era stato fondato negli anni venti come luogo di accoglienza per bisognosi, poveri e senza casa , succursale di quella creata a Torino da don Giuseppe Cottolengo poi beatificato.

Negli anni ’50 passò sotto il controllo dell’allora Democrazia Cristiana e divenne un centro di potere e di scambio elettorale; posti di lavoro in cambio di voti e preferenze. Fino alla metà degli anni ’80 l’ex manicomio di Bisceglie, contava oltre 3mila dipendenti a fronte di 5mila ricoverati con il relativo introito, nelle sue casse, delle rette individuali del servizio sanitario. Lo soprannominarono la Fiat del sud.

Per diventare un centro economico e un grande serbatoio di voti clientelari da spartire all’occorrenza, bisognava trovare più ricoverati possibile, cercandoli nei paesi più sperduti delle province pugliesi e magari nelle famiglie più povere e bisognose. Così una miriade di “case famiglia”, prima nate come nobile e volontario impegno caritatevole cristiano, riviste poi come impegno sociale con la legge Basaglia, contro i manicomi, si sono, in seguito ridotte, molto spesso, ad un opportunistico accomodamento personale e privato, sulla pelle degli altri.

Il povero Vituccio non ha avuto ne casa ne famiglia, doveva solo essere un numero e siccome era molto giovane, come numero prometteva bene ma è probabile che essendo persona libera e senza regole, Vituccio si sia ribellato: è morto ed è stato cancellato.

Io prego per lui il beato S. Giuseppe Cottolengo e tutta la Congregazione delle ancelle della Casa di Divina Provvidenza di intercedere per la salvezza della sua povera anima e che sia perdonato per le noci che ha rubato: noi lo abbiamo già fatto. (www.spigolaturesalentine.it)