Un vescovo solerte scoprì l’andazzo, sin troppo piacevole, di alcuni preti della sua diocesi

Amori proibiti dei…

ministri di Dio

Nel XVI secolo a Nardò diversi canonici, abati e presbiteri conducevano, oltre ogni limite, una vita dissoluta ed immorale, convivendo con amanti ed allevando i figli con queste concepiti

di Emilio Rubino

Addì 9 del mese di aprile dell’anno 1578, il bolognese Cesare Bovio, vescovo di Nardò sin dal 15 aprile 1577, dal palazzo episcopale emana – come è consuetudine fare dai vescovi dopo l’assegnazione della nuova sede – un editto con il quale indica la visita pastorale delle chiese di Nardò (e dell’intera diocesi) al fine di accertarsi dello stato delle stesse e della posizione delle singole dignità: canonici, abati, presbiteri, ecc., e di tutto ciò che attiene al culto divino.

In Nardò la visita, i cui atti costituiscono un’importante misura di notizie utili per la conoscenza dello stato della chiesa e della stessa storia locale, inizia il 9 aprile 1578 e prosegue sino al 27 giugno dello stesso anno con l’audizione dei singoli prelati che si avvicendano, uno dopo l’altro, dinanzi a lui.

L’interrogatorio inizia con la stereotipata formula “monitus” o “interrogatas ut doceat de…”, con cui s’indica espressamente l’obbligo di ognuno di essi di far conoscere al vescovo la verità su quanto viene chiesto.

E sono le verità amare e sconvolgenti quelle che il vescovo Bovio viene a scoprire per diretta confessione dei singoli o apprese attraverso una documentazione scritta che viene ad avere.

In tal modo appura che sotto quelle navate severe, innanzi ai sacri altari, fra quei marmi luccicanti, in quelle sagrestie odorose di cera e d’incenso e in quelli oscuri confessionali, è tutto un brulicare di uomini che si dicevano Ministri di Dio ma che col Signore non avevano nulla a spartire, carichi com’erano di vizi biasimevoli e travolti dai bassi interessi della vita quotidiana: preti adusi ai più svariati ed illeciti commerci, preti che non conoscevano neppure la lingua latina, male istruiti, inesperti, ignoranti anche dei più elementari “rudimenta fidei”, preti addirittura completamente idioti, dediti di continuo all’ubriachezza, alle crapule e all’assassinio, come il presbitero Sazio Guerriero.

Eppure, nel prendere possesso della diocesi, non conoscendo ancora bene su quale humus essa poggiava, ebbe ad esclamare: ”Io trovo il terreno della mia diocesi ben governato, senza alcuna erba trista”.

Nel corso della sua santa visita, l’alto prelato invece viene a scoprire che fra i preti della sua chiesa vi sono molti che conducono una vita dissoluta e scandalosa, altri che vivono addirittura more uxorio con delle prostitute, dalle quali hanno avuto dei figli che tengono senza ritegno con sé.

Questo è il caso di Filippo Cafaro, terzo canonico della chiesa madre di Nardò, di 64 anni, la cui vita era “immersa in parecchi e diversi concubinati”, per cui era malfamato presso il popolo, avendo egli una sordida relazione con certa Elisabetta da Carpignano dalla quale aveva avuto un figlio.

Egualmente si comportava l’abate Pietro Scopetta, di anni 47, il quale aveva avuto una figlia da certa Marsilia, sorella della maestra della bambina, che egli andava a trovare in casa della propria sorella Antonia, presso la cui casa abitava la Marsilia.

Non è da credere, però, che tutti i prelati si comportassero nello stesso peccaminoso modo, perché vi era chi, come Luigi Macedone, presbitero di 60 anni, pare si limitasse soltanto a recarsi in casa di Lucrezia Schiamone per delle conversazioni “verbali”.

Invece, sebbene la assai scarsa intelligenza, non impedì a Lupo Primativo, presbitero di 48 anni, scomunicato e in passato messo pure in carcere per il suo vivere dissoluto, di avere avuto, per parecchi anni, con gran pubblico scandalo, una relazione con una prostituta di nome Diadora, dalla quale aveva avuto pure un figlio, di nome Scipione.

Migliore condotta di certo non teneva Pietruzzo Montefusco, presbitero di 50 anni, il quale per conoscenza di tutti, coabitava trescando con certa Decia Potenza, sua pubblica concubina per multos annos.

Un mondo di corrotti, insomma, e non certo un “terreno… senza erba trista” quello che il vescovo Bovio ebbe a trovare durante la sua vita pastorale. Davanti a queste diffuse manifestazioni di scandalosa “incontinenza”, che gettavano tanto discredito nella stessa chiesa, quali reazioni il vescovo Bovio ebbe?… e cosa poteva fare per liberarsi da queste pesti?

Si limitò qualche volta ad ingiungere all’interessato di scacciare l’amante e il figlio (con l’obbligo, però, di provvedere alla sussistenza del piccolo innocente), altra a minacciare la sospensione a divinis e di spogliarlo da ogni beneficio, qualche altra, infine, di mandare in carcere il corrotto che avesse continuato a vivere ancora in maniera così peccaminosa. Altro non ritenne di poter fare l’illustre presule perché sperava, forse, che una continua opera di sorveglianza, di educazione e di catechesi sui suoi sacerdoti sarebbe valsa a responsabilizzarli nel loro magistero di veri pastori delle fede cristiana.

Del resto, il vescovo Bovio, oltre ad essere un saggio amministratore, era pure così intelligente da comprendere che con la forza non sempre si raggiungono buoni risultati. Perché, nel suo caso, ad agire con rigore, egli avrebbe dovuto “ripulire” di tante scorie l’intera diocesi e decimare il clero, tanto era marcio e squallido.

Giustamente, invece, preferì sperare nella più fattiva opera di redenzione; ma questi benevoli intenti egli non riuscì a  realizzare per la brevità del suo governo, durato appena sette anni, per essersi spento nel febbraio del 1583.