Antonio Moresco. ‘La lucina’

L’incanto, nell’ultimo libro di Antonio Moresco avvolge anche il dolore e l’ostilità della natura. Un incanto doloroso, che dà corpo a un tempo sospeso. Un uomo vive solo, unico abitante di un borgo di montagna. Avanza in una realtà in cui le sole tracce di umanità sono così lontane da non fare rumore, avanza nell’«enorme solitudine vegetale». Lo sguardo registra, le parole interrogano gli animali. È la natura, l’unico vero Altro: una natura meravigliosa e insopportabile, che invade, avvinghia e copre di nero le strade. La natura nel suo accadere incessante e inevitabile, il creato che non è creato: materia, cellule. Lo smarrimento di senso non si fa invettiva: «Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?». Non vi è posto per ragioni ultime, e le domande osservano quel che non si riesce a spiegare, senza lasciare spazio alcuno al desiderio incalzante che anima lo stupore che aspetta risposte.

Ma vi è una lucina, che si accende nella sera. Una lucina dall’altra parte della gola. E là, dove quella piccola luce si accende sempre alla stessa ora, c’è un bambino, in calzoncini corti e con le gambette magre.

L’uomo incontra il bambino che è stato. E si guarda: mettere via i piatti, temperare le matite. Impiegano un po’ di tempo, l’uomo e il bambino, prima di mangiare alla stessa tavola e prendersi per mano, come a poter rispondere della solitudine radicale: sorride e abbassa la testa il bambino, vergognandosi forse un po’ di un pensiero così sciocco. Non si può sapere se sia il bambino, spaventato e trattenuto, a salvare l’uomo; o viceversa. L’uno troppo piccolo e con compiti troppo complicati da fare, e l’altro vivo quando la lucina, accesa da chi vivo non è, porta il segno di un’umanità.

Pagina dopo pagina, avvolti dallo scuro della notte cui gli occhi si sono abituati, senza strappo alcuno si scivola: dalla vita alla morte. Trascinati dalla favola, con il viso rigato di lacrime senza che si possa dire né il punto preciso in cui il dolore ha preso corpo, né la ragione precisa. È come la ricerca di un’uscita; senza, della morte, né la paura né la nostalgia. Un po’ perché la morte non è un’uscita, un po’ perché c’è da chiedersi se vi sia mai stato ingresso.

«Sono venuto qui per sparire». La lucina è un congedo. Il congedo che si scrive ancora in vita, interrompendo il tempo e il suo incedere. La condizione, tra le pagine, è quella dell’esilio, lo stato di esilio che riguarda la vita.

E le parole che danno forma al paesaggio, alla natura, al freddo, alle persone, alla lucina nel bosco e allo stato sospeso di attesa, coprono poi tutto di bianco. E sono loro, le parole, a mettere in opera il dileguarsi. Lieve. Evadere. Spezzando l’incantamento più radicale, il fatto che l’io è lo stesso. (Anna Stefi – www.doppiozero.com)