Cultura e umanesimo. Porte della civiltà

PREMESSA. Un prezioso contributo storico-aneddotico di monsignor Antonio Antonaci sul centenario della Biblioteca “Pietro Siciliani” di Galatina mi offrì lo spunto, nel marzo 2006, per amplificare alcune riflessioni – che oggi, dopo un lustro, mi sembra utile riproporre –, di natura civile e sociale, riguardanti da vicino l’intera comunità del Salento, e che l’autorevole concittadino aveva in qualche misura implicitamente sollecitato. In tale puntuale intervento di Antonaci – apparso sul Galatino del 10 febbraio di quell’anno – si riflette una sentita (e di per sé meritoria) esigenza di partecipazione e cooperazione ai vari problemi del nostro territorio, esortandoci di fatto alla nostra “salentinità”, dispersa o in via d’estinzione, e forse maggiormente avvertita da chi, come me, vive lontano dai paterni confini: un’esortazione, cioè, a quel forte ed energico senso di appartenenza, all’affezione, se non proprio all’orgoglio del loco natio, al tornare ad essere e sentirsi comunità e non semplice somma di individui.

Il che, naturalmente, se da un lato ci richiama ad un localistico, positivo e nobile amor patrio, non ci esime, dall’altro, a tener debita considerazione di ogni altra parallela patria e cultura, vicina e lontana, e grande o piccola che sia.

Da questa essenziale capacità e propagazione di rispetto – reciprocamente osservata e praticata tra singole persone prima ancora che tra gruppi e popolazioni – deriva la forza del dialogo, del confronto, del rapporto liberale e costruttivo per il bene comune.

Nel Salento, come in ogni altra parte del mondo civile.

Il che, naturalmente, se da un lato ci richiama ad un localistico, positivo e nobile amor patrio, non ci esime, dall’altro, a tener debita considerazione di ogni altra parallela patria e cultura, vicina e lontana, e grande o piccola che sia.

Da questa essenziale capacità e propagazione di rispetto – reciprocamente osservata e praticata tra singole persone prima ancora che tra gruppi e popolazioni – deriva la forza del dialogo, del confronto, del rapporto liberale e costruttivo per il bene comune. Nel Salento, come in ogni altra parte del mondo civile.

Le vignette su Maometto e il senso della misura.

I tempi che viviamo sono invece tangibilmente percorsi, in tutto il pianeta, da un esacerbato e poco promettente personalismo-egoismo, che dalla politica si è trasferito nella società e che non tiene ormai conto neppure delle più elementari e connaturate norme di educazione civica (anzi di educazione tout court), né di tolleranza, di prudenza, di responsabilità, perfino ai più alti livelli istituzionali, come purtroppo dimostrato dalla sommossa di Bengasi, in Libia, o dalla connessa “rappresaglia cristiana” di Onilsha, in Nigeria (passata quasi inosservata dalla stampa), strettamente correlati al minaccioso clima di contrapposizione religiosa tra il mondo occidentale e il mondo islamico, improvvidamente alimentato dalle famose quanto sciagurate vignette su Maometto.

Mi sia permesso, a tale riguardo, di esprimere il mio pensiero, includendolo in un dibattito più ampio. Molti lettori sanno che sono anch’io, da quasi cinquant’anni, un “vignettista”. Ho disegnato anch’io, e disegno, vignette umoristiche, che appaiono ironiche e giocose, e vignette di satira politica e sociale, che sono evidentemente più impegnate e riflessive. Anche amare, talvolta. E all’occorrenza perfino aspre e sferzanti. Ma mai irridenti né malignamente o gratuitamente offensive.

Per quanto la satira debba necessariamente avere, per sua natura, un bersaglio da colpire, la “mia” satira, e quella di moltissimi illustri colleghi, può essere energica, inflessibile, furente, ma non bruta e violenta. Potrà denunciare e denudare con risolutezza un fenomeno, una situazione, un atteggiamento, ma non arriverà mai all’insulto, all’ingiuria o all’oltraggio. Intanto perché il compito dell’autore e disegnatore satirico è quello di commentare criticamente i fatti attraverso proposizioni che non siano semplicemente comiche o sarcastiche, ma che contengano altresì qualità pedagogiche e didattiche fornendo, com’è nella vera funzione della satira (Castigat ridendo mores, sentenziavano i nostri padri latini), motivi di riflessione e discussione. E infine perché la nostra stessa indole e formazione e deontologia professionali ci impongono di non oltrepassare certi limiti, operando il più possibile con coscienza ed onestà intellettuale, anche e soprattutto in circostanze di veementi conflitti e contrapposizioni. “Disapprovo quello che dici – affermava Voltaire – ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. È qui l’essenza filosofica e sociale del concetto di “rispetto” della persona, del confronto intelligente e costruttivo, della libertà d’opinione, e dei confini civili in cui essa può e deve esprimersi.

Lo stesso Federico Zeri – fra i più autorevoli storici mondiali dell’arte, e magistrale uomo di cultura che ho avuto l’onore di conoscere e frequentare – così ammoniva, nel 1992, in una memorabile conferenza a Tolentino: “…L’umorismo, la satira, la caricatura, non devono essere volgari. Ci sono dei canoni, delle leggi non scritte, che vanno assolutamente rispettate, e che risalgono a quel profondo senso etico e civile che spinge l’uomo alle più alte imprese. Non è lecito ironizzare sempre e su tutto. Il senso umoristico è in definitiva il senso della misura di tutte le cose. Quando la caricatura è sistematicamente rozza e gratuita, scade invece a semplice goliardia, oppure degrada a inaccettabile trasgressività di infima lega, o peggio ancora a brutale insensibilità nei confronti del pensiero o dei diritti altrui, scoprendo il lato peggiore e belluino della natura umana”.

Sicché, le famose (o famigerate) vignette su Maometto, da qualsiasi punto di vista le si vogliano giudicare, hanno profondamente offeso il comune buon senso e l’intelligenza, prima ancora che la religione di un popolo. Un atto che, come nel pensiero di Zeri, si qualifica di per sè rozzo e volgare oltre che inopportuno e provocatorio, dimostrando una mancanza totale di rispetto, tanto più deplorevole in quanto rivolta alla intangibile sfera intima e spirituale di uomini e genti.

Che poi la violenta e truce reazione dei musulmani sia stata, nella fattispecie, sproporzionata ed eccessiva, e quindi altrettanto stigmatizzabile, questo è un discorso a parte, conseguente. Molti hanno parlato di falsa ragione e di pretesto. Ma di fatto, quel pretesto è stato inopportunamente, imprudentemente e irresponsabilmente servito, peraltro in uno scenario politico e in un momento storico di estrema fragilità e delicatezza.

In un discorso più ampio e generale, bisognerebbe saper ricondurre ogni controversia in un alveo meno unilaterale e più onestamente oggettivo. Non credo infine che la nostra indignazione debba sollevarsi soltanto quando siamo noi a subire un torto: la forza della saggezza (“lu giudizziu cu bbegna de ci l’have”, consigliavano i nostri antichi padri) risiede anche nell’esercizio costante di “mettersi nei panni degli altri”, valutando e comparando azioni, cause ed effetti, da un opposto e comunque diverso punto d’osservazione, che certo, in ognuno di noi e nei nostri quotidiani rapporti interpersonali, concorrerebbe a temperare, se non ad eliminare, alcuni sedimentati preconcetti o pregiudizi.

Gli anticorpi morali.

È sempre arduo, e per molti aspetti impossibile, interpretare e giudicare compiutamente la storia contemporanea. E tuttavia, l’analisi dei riconoscibili e reiterati segni delle cronache quotidiane informa oggi un quadro di preoccupazione molto seria, considerando soprattutto il graduale assopimento delle coscienze, l’assuefazione al peggio, la conseguente e sempre più vistosa indifferenza e passività di fronte alle pur gravi vicende del mondo. Stiamo, insomma, perdendo i nostri anticorpi morali.

A chi fare addebito di un simile decadimento e tradimento etico, civile, spirituale?

A tutti e a nessuno, si direbbe. Abbiamo, verosimilmente, la società che ci meritiamo. Ciascuno di noi, sia pure in diversa misura, ne è sicuramente responsabile. I nostri comportamenti, in famiglia e in società, hanno (come lo hanno sempre avuto) un conseguente e diretto riflesso su noi e sui nostri figli.

Forse più che altrove, nelle nostre regioni meridionali si avverte poi, dove più dove meno, un’inadeguata coscienza e partecipazione politica, guarnita di scetticismo, quasi che il potere costituito (di qualunque colore esso sia) fosse qualcosa di fatale, di ineluttabile e di estraneo alla nostra vita e condizione sociale, riducendosi infine nell’assioma qualunquistico che “uno vale l’altro”. Trascurando perciò, o dimenticando, che in un sistema democratico, i vari Amministratori – locali e nazionali – hanno il nostro personale mandato di rappresentanza nel governo della cosa pubblica, e che ciascuno di noi mantiene il diritto-dovere, quindi una individuale corresponsabilità, nella vigilanza al buon esercizio di tale delega. In altre parole, una volta affidato il nostro voto (e si spera che, indipendentemente dalle libere scelte personali, questo avvenga con la nostra massima coscienza e convinzione) non possiamo poi lavarcene le mani, come se la cosa pubblica non ci riguardasse più.

Quanto, nello specifico, alla nostra perduta (o quasi) “salentinità”, e al problema di una certa più o meno avvertita decadenza sociale e intellettuale, la questione riflette, purtroppo, lo stato di generico e generalizzato degrado di cui si parla, che ormai da troppo tempo investe l’intera comunità internazionale. E se di questa grave contingenza non è difficile individuarne le cause, è assai più impegnativo indicarne i rimedi. Giacché le une sono – sommariamente ma diffusamente – ravvisabili in un contesto storico e filosofico estremamente vasto, che riguarda in gran parte (ma non solo) l’alienante fenomeno della cosiddetta “globalizzazione” e del consumismo, anche mediatico, esasperatamente spinto alla finalizzazione del potere e del profitto economico; mentre gli altri sono oggetto il più delle volte di una sterile disamina accademica più che di un preciso accertamento e di una effettiva e determinante applicazione.

Cultura come.

La mia personale e convinta opinione è che una “chiave” decisiva alla soluzione di tale complesso problema risieda nel concetto profondo ed estensivo di “cultura”. In questa direzione vale davvero la pena d’investire – in ogni luogo e ad ogni livello – pur sapendo che è un processo a tempi non brevissimi. Ma che avrebbe il merito di disegnare un futuro di rinnovata civiltà.

Il termine “cultura”, peraltro, specialmente nella nostra Italia, è oggi diventato un mero termine di moda, e in suo nome si consumano spesso autentici sacrilegi, in una dispersiva, episodica ed eterogenea mescolanza di proposizioni, che quasi sempre mancano di una coerente progettualità, finalità e sostanza di fondo. Nel nostro Belpaese circolano, ad esempio, libri illeggibili e di scarso o nullo rilievo letterario, che pure sono diventati best-seller. Così come in televisione vengono etichettate e propinate per culturali (!) alcune trasmissioni del tipo “Grande Fratello”, equiparandole ad altre (benché ormai sempre più rare) di reale carattere educativo e scientifico.

Che i libri illeggibili e i Grandi Fratelli possano liberamente circolare rientra nel lecito diritto. Tanto più che, nel bene o nel male, incontrano il favore di un certo pubblico e, com’è giusto che sia, de gustibus non est disputandum. Ma ciò – al di là e al di fuori di qualsiasi facile moralismo – implica semmai pruriginose curiosità da voyeur o discutibili prospettive mercantili e commerciali, non certo finalità autenticamente culturali.

La cultura di cui bisognerebbe riappropriarsi, nel privato e nel pubblico, va invece intesa come offerta e invito all’istruzione, all’educazione e alla formazione liberale e virtuosa delle coscienze. Come stimolo al bisogno e al desiderio di conoscere e di scoprire,  ma anche di dibattere e condividere ogni comune esigenza sociologica, in uno sviluppo che non sia esclusivamente materiale e utilitaristico.

Cultura come motivazione alla ricerca, all’immaginazione, e alla disponibilità e volontà di pensare in modo libero e autonomo. Quindi, anche, come occasione di proposta e di confronto.

Cultura, infine, come registro storico della nostra civiltà e trasmissione delle nostre tradizioni, in sinergico e positivo rapporto con culture altre e diverse. Come serbatoio etico e civile di un territorio e della specifica società di appartenenza, sempre e ovunque riconoscibile, attraverso la pratica e la divulgazione di consolidati e distinguibili valori ideali.

La cultura di una gente si identifica appunto nella sua “specificità”. Nei suoi comportamenti abituali, nelle sue idee e risoluzioni (come nelle sue negligenze), insomma nei suoi elementi – storici, civili, morali – più decisivamente caratterizzanti.

Il popolo, particolarmente nel Salento, è sempre stato in tal senso categorico, individuando gli abitanti delle nostre contrade con coloriti e talora canzonatori nomignoli: noi galatinesi, com’è a molti noto, siamo “Carzilarghi”, a ragione del nostro modo di parlare “a guance larghe”, che rispecchierebbe, almeno nell’immaginario popolare, la nostra atavica spocchia, alterigia o vanagloria; così come i leccesi, che oltre ad essere “Sona campane”, vengono appellati anche “Musi moddhi”, a ragione del loro parlare affettato e apparentemente cortese, ma spesso ferocemente ironico e mordace.

I valori di sempre.

Oggi queste caratterizzazioni fanno solo parte del folklore, avendo perduto la loro “identità”. Tanto quanto è stata perduta, o rischia di smarrirsi definitivamente, l’identità dell’antica “gens salentina” nelmare magnum di una nuova civiltà tecnologicamente fin troppo avanzata (che sta rapidamente sradicando la vecchia e millenaria civiltà contadina) e contraddistinta oltretutto da un imponente fenomeno di migrazioni, aggregazioni e incroci di etnie e di culture eterogenee, i cui sviluppi ed effetti li vediamo già oggi, e che nel prossimo futuro saranno più decisamente marcati, influenzando profondamente la vita quotidiana e l’ordinamento sociale delle nuove generazioni.

A maggior ragione, quindi, di fronte ad un siffatto ed epocale evento storico-antropologico, la grande forza della “distintività e specificità” di una cultura – che per principio, giova ricordarlo, non si isola né si contrappone mai ad un’altra, bensì contribuisce complementarmente allo sviluppo sociale del genere umano – deve essere difesa e trasmessa nei suoi valori più positivi e propositivi. Sia con i nostri comportamenti individuali, sia attraverso politiche sociali illuminate e lungimiranti.

Tali valori (termine, questo, spesso strumentalizzato e usato a sproposito) sono, in definitiva, i soliti da che esiste il mondo: la dignità, l’onore, il rispetto per la persona, l’onestà, la lealtà, la distinzione netta fra diritti e doveri e la loro coerente osservanza, il senso della libertà e della giustizia, della solidarietà, del bene comune, il coerente impegno al progresso e alla pacifica convivenza civile.

Molti altri se ne potrebbero aggiungere. Di certo, pochi o tanti che siano, non mi pare che oggi vengano adeguatamente e universalmente praticati. Neppure in quelle piccole e medie aree geografiche, una volta socialmente esemplari, dove tutti ci si conosce, e il rapporto umano dovrebbe essere davvero più umano.

La partecipazione civica e il ruolo dell’intellighenzia.

Il mondo, insomma, va avanti. Com’è nell’ordine della natura.

Ma per poter parlare di vera evoluzione, andare avanti deve necessariamente sottintendere “in meglio”: cioè progredire positivamente e con intelligenza, correggendo da una parte gli inevitabili errori del presente o del passato, e dall’altra acquisendo nuove e migliorative conquiste sociali, sviluppando così in modo corretto e benefico l’eredità della nostra storia.

Il fatto innegabile è che i mutamenti del costume negli ultimi venticinque-trent’anni – derivanti dalla scelta scriteriata di modelli sociali d’importazione – hanno scardinato molte certezze e molti riferimenti che prima erano basilari e condivisi. Trasformando così l’umana esistenza in una folle corsa all’effimero, al voluttuario, spesso al nulla, nella perversa ricerca di una soddisfazione edonistica ed egoistica mai appagabile, che ha provocato e provoca disagi e inquietudini ad alta tossicità immorale.

Il graduale e progressivo sovvertimento di quei principi puramente cultural-umanistici che da almeno due millenni sono stati bagaglio culturale di ogni singolo individuo e fondamento dello sviluppo civile, rappresenta ormai un segnale d’allarme non più eludibile. E anche la nostra regione salentina, nella storia presente e futura, deve riproporsi e riproporre quel carismatico ruolo culturale che le compete, pur in parte volonterosamente rispolverato negli ultimi tempi, ma non ancora splendente dell’antico smalto.

Bisognerà rinnovare concezioni, motivazioni e comportamenti in chiave moderna, e darsi una mentalità meno provincialistica, senza tuttavia rinnegare la propria paternità, ed anzi in armonia con le proprie “radici”. Producendo validi e non effimeri modelli di sviluppo, e promuovendo e risvegliando nella comunità (e particolarmente nei giovani) l’interesse, la voglia e l’entusiasmo di partecipazione civica, che un po’ malinconicamente sembra oggi limitarsi a qualche sagra del cocomero o della patata.

Preciso, a tale riguardo, che non sono in alcun modo contrario a questo genere di appuntamenti né ad altri spettacoli cosiddetti “leggeri” o popolareschi, purché questi non siano considerati – soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche che li sostengono o favoriscono – né primari né esclusivi. Accanto al divertimento, al gioco, alla festa, all’allegria collettiva (manifestazioni solo apparentemente frivole, ma che hanno una loro vantaggiosa funzione e sono componenti determinanti e irrinunciabili al benessere fisico e spirituale della nostra composita natura umana), deve necessariamente corrispondere la proposizione di altre occasioni di impegno, di dibattito, di crescita, di profonda formazione e informazione intellettuale.

Un viscerale e cordiale appello in tal senso, e in tutta umiltà, sento di doverlo rivolgere anche all’intellighenzia salentina, affinché sia sempre più illuminante e disponibile (intanto e soprattutto verso le nuove generazioni, e in ogni caso verso le classi più pigre, distratte o meno colte) ad offrire efficacemente e con benevolenza il proprio contributo culturale e civile. Avvicinarsi costantemente ai cittadini, lasciando certe tentacolari e sterili torri d’avorio a qualche altezzoso “notabile del sapere”, sarebbe un atto di magnifica lungimiranza.

In una tale generosa impresa di “recupero” popolare e civile, si farà probabilmente un po’ d’iniziale fatica, ma – nulla dies sine linea – gli effetti risulterebbero reciprocamente gratificanti. Tanto più che la sensibilità per la cultura e per l’arte risiede ovunque, anche nei ceti e nelle persone più semplici, e proprio in questo confuso, materialistico, globalizzante e alienante periodo storico che viviamo, si avverte netto ed urgente, a tutti i livelli, il bisogno di riscatto e riacquisizione di una soddisfacente identità-dignità spirituale e sentimentale.

Ai miei tempi…

Faccio fatica a dire “Ai miei tempi…”, come dicevano – ai miei tempi – i tanti “vecchi” ai quali mi sono spesso per venerazione accompagnato, e che per propria natura borbottavano su cambiamenti e novità che oggi appaiono davvero risibili.

A quei tempi c’era una formazione-educazione (in famiglia, a scuola, nel contesto cittadino e sociale) che quasi ci proteggeva, e che non esiste più. Che, in ogni caso, non ha quella stessa grandiosa valenza e positività. A quei tempi guardavamo con concreta speranza al futuro e ci preparavamo ad essere responsabilmente adulti, pur mantenendo la vivezza dei nostri sogni di ragazzi. A parte qualche ordinaria e naturale apprensione per il nostro avvenire, non avevamo le paure e i disorientamenti dei giovani di oggi (mai dimenticarli, i giovani!), che spesso non hanno neanche il presente. Un forte senso di sana competizione (che è cosa ben altra dell’odierna diseducante “competitività”) ci stimolava a fare e a fare meglio, ad ingegnarci, a utilizzare mente e fantasia per cogliere opportunità e iniziative di accrescimento. Violenza, terrorismo, droga, e altre simili moderne “delizie” ci erano totalmente sconosciute.

Nostalgia? Un po’, inevitabilmente. Forse quello non era il migliore dei tempi possibile. Ma certamente non era peggiore di questo.

A quei tempi Galatina, come Lecce, Maglie, Gallipoli, Nardò, e altre città di provincia del Salento e d’Italia, erano copiose di fermenti, di iniziative, di “cantieri” anche e seriamente culturali. Si avvertiva l’entusiasmo e l’orgoglio di costruire, di partecipare, di proiettarsi a un domani sempre più esaudente.

Anche oggi le proposte non mancano. Manca probabilmente quel fil rouge di collegamento, quella completezza di condivisione, che coinvolga e stimoli l’intera cittadinanza. In tale prospettiva d’analisi (certamente opinabile, e volutamente fornita come oggetto di approfondimento) può anche darsi che le cause e le responsabilità non risiedano poi interamente nelle istituzioni, ma anche in una certa parte della cittadinanza stessa, di questi tempi forse meno attiva o reattiva che nel passato ad un impegno seriamente culturale, oberata e distratta dai molti e crescenti problemi o da più futili e strumentali interessi.

La maschera dell’ipocrisia.

Di una cultura seria e propositiva tutta la società contemporanea ha oggi enormemente bisogno. Una cultura che non è certo quella del malinteso e illusorio “benessere” materiale, infidamente propagandato, tra una pubblicità e l’altra, dalle immagini patinate della televisione, obnubilando coscienze e conoscenze. O tampoco quella dello strisciante e crescente razzismo (classista, prima che etnico e religioso), che alimenta un non sempre giustificato clima di diffidenza e contrapposizione. Né quella dell’emarginazione, della prevaricazione, della violenza gratuita. O della mai estinta arroganza del potere (pubblico e privato), spesso abilmente mascherata di perbenismo, e fondata su un’insostenibile mistificazione e ipocrisia.

Mentre un immenso continente come l’Africa, dilaniato da malattie, miseria e guerre civili, resta candidamente dimenticato da tutti, Occidente e Medio Oriente si scontrano, alimentando di fatto una terza guerra mondiale “non convenzionale”. In nome del terrorismo o del petrolio?

In compenso, alla fine del 2005, dalle leggi e dai documenti ufficiali del nostro Belpaese è definitivamente scomparso il termine “sordomuto”, sostituito dal nuovo “sordo preverbale”. Lo ha reso noto Grazia Sestini, sottosegretario al Welfare (per chi ancora non lo sapesse, è questo il nome anglo-americano del vecchio e superato Ministero del Lavoro), dichiarando che – riporto testualmente dai giornali – “si tratta di una modifica attesa dalle associazioni delle persone affette da questa tipologia di disabilità, ed è pertanto un passo in avanti verso una migliore tutela dei cittadini”.

Una meravigliosa conquista sociale, insomma, che ci richiama ad altre analoghe stupefacenti riforme lessicali del passato, allorché i ciechi furono miracolati in “non vedenti”, i netturbini furono promossi a “operatori ecologici”, i bidelli poterono far parte del prestigioso ed esclusivo “personale non docente”, e via di questo passo, in un tripudio di forma che ben si presta a sottacere ipocritamente la sostanza.

Con le parole non ci si lavano le coscienze. La condizione umana, e la persona – in carne, ossa, sangue e sentimenti – quella è. E quella dobbiamo rispettare. A prescindere (com’era solito dire il magnifico Totò) che la si voglia chiamare cieco o non vedente, povero o non abbiente…

Quanto a “sordomuto”, resta il dubbio perché si sia intervenuti solo sul “muto” (che ha avuto l’onore di diventare “preverbale”) e non anche sul “sordo”, che è rimasto sordo come prima.

Poi dicono che Machiavelli era un grande italiano. Di certo non poteva essere svizzero o svedese…

Cultura e economia.

La cultura necessaria al mondo d’oggi dev’essere, insomma, tutt’altro che artificiosa o ingannevole, e deve riproporre quei valori “umanistici” sciaguratamente strapazzati (e talora perfino derisi) da politiche miopi e unidirezionali, essenzialmente rivolte ad una formazione tecnica e mercantile dove tutto si misura in termini di efficienza e di profitti e perdite.

Si ha ovviamente bisogno anche del denaro, il quale non può di per sé essere demonizzato come causa di tutti i mali, ma semmai ricondotto al suo pertinente ed essenziale (ancorché non esclusivo né esauriente) valore di sussistenza, considerandolo altresì – anch’esso “culturalmente” – come poderoso strumento di crescita civile e sociale.

Motore fondamentale di sviluppo (e di autentico “ben-essere”, oltre che di “ben-avere”…), lo sviluppo economico andrebbe infatti inteso anche come complemento attivo di solidarietà e come energico propellente all’emancipazione delle popolazioni più indigenti e arretrate. Compito, questo, spesso disatteso, o comunque di non sufficiente e incisiva adeguatezza, perfino dalle preposte Organizzazioni sovranazionali.

Sono molto significativi, al riguardo, alcuni dati emersi dal recente rapporto dell’I.L.O. (Ufficio Internazionale del Lavoro) sulla situazione economica mondiale rilevata per l’anno 2005, che evidenziano una crisi di proporzioni gigantesche. Ci sono, nel pianeta, circa 192 milioni di disoccupati (aumentati in dieci anni di 34  milioni di unità!). Quasi la metà di questi sono giovani tra i 15 e i 24 anni, e la loro probabilità di restare disoccupati è tre volte superiore a quella degli adulti. Più di 500 milioni di lavoratori poveri (ripeto: più di 500 milioni!, come dire l’intera popolazione italiana moltiplicata per 9 volte) guadagnano mediamente un solo dollaro al giorno (meno di 30 euro al mese!). Infine, benché il prodotto interno lordo globale sia cresciuto del 4,3% rispetto al 2004, la disoccupazione resta invariata al 6,3% (con punte minime del 3,8% in Asia orientale, e massime del 13,2% in Medio Oriente e Africa del Nord). Il che vuol dire che la crescita economica non produce di per sè nuovi posti di lavoro.

Serve altro, avvertono gli esperti. E quasi tutti concordano (come rimarca Manuela Prina, specialista dell’Asian Development Bank) in un “potenziamento della scuola” e in un ”investimento in formazione e in fantasia” (Maurizio Guandalini, analista fra i più qualificati del Sistema Economico Globale).

Il conto torna, si direbbe. Il cerchio si chiude. Una politica di sviluppo orientata all’istruzione, alla formazione, alla cultura è ritenuta indispensabile. Perfino nel freddo e pragmatico mondo dell’Economia. Con buona pace di chi guarda e opera solo in funzione venale e utilitaristica, considerando trascurabile se non inutile una preparazione intellettuale di fondo.

A che serve?

Al mitico liceo classico “Pietro Colonna” di Galatina, una delle battute più ricorrenti fra noi studenti riguardava la filosofia: “…quella disciplina – sghignazzavamo ingenuamente – con la quale o senza la quale si rimane tale e quale”.

Infatti, a che serve oggi la filosofia? E la storia? O la poesia?

Qualche anno fa, a Tolentino, essendone il direttore artistico, un sedicente “addetto culturale”, argomentando con una certa saccenteria sull’utilità della Caricatura, mi chiese: “A che serve una Biennale di umorismo?”. Risposi: “A che serve un quadro, un museo? una poesia di Leopardi? O la musica di Mozart? O, più semplicemente, un tramonto sul mare?…”.

C’è un modo curioso, oggi, specialmente nella nostra splendida (lo è ancora?) Italia, di vedere la Cultura (con la C maiuscola) da parte di tanti (minuscoli) “addetti culturali”. I quali, in modo e misura quasi maniacali, propongono manifestazioni innovative (altro termine spesso incoltamente usato), di cui si farebbe volentieri a meno, producendo effetti a volte contraddittori o addirittura nefasti, e risultando quindi più deleterie che se non ci fossero.

E il Salento? Noi salentini siamo forse, o ci reputiamo, un po’ più critici ed esigenti (non dico più attenti) di altri connazionali. E questo ha una sua positività. Saremo anche “carzilarghi” e perfino un po’ snob, ma per quanto possa essere stato fatto (nell’ambito culturale come in altri settori), vogliamo che sia fatto sempre di più e meglio. Meno positivo è quando dimostriamo scetticismo o resistenza ad essere coinvolti nella vita cittadina in prima persona, a partecipare, discutere, dibattere, proporre, fornendo quindi il nostro individuale contributo a quel senso comune di “identità e appartenenza” che va sempre più diradandosi.

Un po’, credo, dobbiamo migliorare tutti. Siamo noi la nostra città, la nostra regione.

E più di tutti, saranno gli Amministratori ad avere l’onorevole e oneroso impegno ad operare, in modo responsabile e illuminato, nelle giuste direzioni. Specie in quella della promozione culturale – associandola a quella turistica – dove conterà sempre più la qualità che non la quantità del risultato conseguito, e che a mio parere necessita di una rinnovata “strategia” (che tenga anche conto di quanto di buono è stato fatto nel recente passato) e di un ponderato “piano” di sviluppo, da attuarsi organicamente a breve, medio e lungo termine.

Non mancano le strutture (ed altre se ne potrebbero aggiungere), né la materia prima, costituita da quel mirabile patrimonio storico, artistico, architettonico, monumentale e ambientale, che è tra i più preziosi della nostra regione. Né, immagino, le risorse umane e professionali.

Si dirà forse brutalmente, che mancano o mancheranno i soldi. Ma ciò non può e non deve rappresentare un freno e una discriminante. I soldi, volendo, si trovano sempre. Sparagnandu la farina quandu la mattra è china. Tagliando rami secchi e inutilità, eliminando favoritismi, raccomandazioni, compromessi, abusi.

Per quanto sopra enunciato, e al pari di altri interessi pubblici e privati, la cultura va pensata come un investimento prioritario e fondamentale: continuare a ghettizzarla come una cenerentola sarebbe un errore gravissimo. Nella sua astrazione è fra le componenti più concrete dello sviluppo civile della società. Anche se il suo “valore aggiunto” (termine caro agli economisti) non si misura con i normali strumenti di bilancio, e (sempre dagli stessi economisti, specialmente da quelli con la vista corta) si sente sempre più spesso dire che “la cultura non si mangia”.

Dal “nuovo Medioevo”al “nuovo Rinascimento”.

Insomma, viviamo tempi in cui, prima ancora di chiedersi a che serve la cultura, bisognerebbe chiedersiche cos’è la cultura. Il recente libro di Umberto Eco “A passo di gambero” (lettura consigliatissima) riflette con una certa ironia questo diffuso e tangibile malessere del nostro pianeta, che storicamente, intellettualmente e perfino geograficamente – a seguito del nuovo assetto politico conseguente alla caduta del muro di Berlino e alla guerra nei Balcani, che ha ridisegnato l’Europa più o meno com’era nel 1914 –  sembra essere tornato indietro di un secolo. Un paradosso e una provocazione non del tutto azzardati, specialmente in una prospettiva etica e civile, che fa addirittura pensare ad un “nuovo Medioevo”.

Adattando le teorie di Giambattista Vico sui corsi e ricorsi storici, è augurabile che non bisogni aspettare altri mille anni perché questo Medioevo lasci il posto ad un nuovo Rinascimento. Non solo, in generale, nel nostro grande pianeta, ma anche nel piccolo mondo della nostra Galatina.

A dire il vero, non sono poi così convinto che questo “buio” possa ancora durare a lungo. Per quanto fortemente amareggiato e deluso dalla brutta china su cui degrada il mondo contemporaneo, sono altrettanto fortemente convinto che si possa (e si debba) ricostruire una civiltà migliore, adeguata e conformata ad esigenze inedite, nello spirito di reciproco rispetto e nella comprensione delle geografie e culture emergenti, che presto renderanno la Terra una grande casa comune (…e non, si spera, lo strepitante e litigioso condominio che oggi ci frastorna e avvilisce).

In questa chiave di lettura, il Salento può apparire un minimo granello di sabbia, ma così non è. Perché ogni uomo, al di là di ogni retorica, ha in sè l’essenza di uno straordinario microcosmo, e ciascuno può sempre offrire e lasciare il suo utile e importante contributo ad una società in crescita.

Sento, in conclusione, di dovermi dichiarare fin d’ora impegnato e disponibile, nell’ambito delle mie limitate competenze ed esperienze, a cooperare in ogni libera iniziativa, rivolta ad un serio proposito di “rifondazione” culturale e civile dell’antica e gloriosa Terra d’Otranto, che sia di riferimento e di stimolo – lo ripeterò fino alla nausea – soprattutto per i giovani.

Nella crescita di un paese e di una civiltà, i giovani sono fondamentali. La loro formazione indispensabile. Il loro contributo irrinunciabile.

Radunare entusiasmi, passioni, energie, risorse, per un progetto di serio impegno non è impresa facile. Ma, come si diceva ai miei tempi, “a ‘mparadisu nu se ve’ in carrozza”.

Buona fortuna, Salento!

(Inserto speciale de il Galatino – aprile 2006)