Dalla mietitura alla farina

Dalla mietitura alla farina per la panificazione nel Salento

di Marcello Gaballo

 

Il culmine dell’anno agrario era proprio la mietitura e il mese di giugno per antonomasia era detto miessi. I lavoratori reclutati nella piazza, dopo aver contrattato la paga giornaliera, venivano organizzati in  squadre, dirette dal caposquadra, e gli uomini alle prime luci dell’alba si disponevano così da formare una linea orizzontale diritta per la raccolta con la falce, coprendo un appezzamento detto antu. L’antieri durante il lavoro dirigeva il tempo d’azione e l’allineamento del gruppo sul campo da mietere. I mietitori interrompevano per consumare i piccoli pasti previsti, concludendo la giornata lavorativa all’imbrunire.

Il taglio si eseguiva recidendo la spiga con gran parte del fusto e ciò che restava sul campo veniva detto ristucciu o ristoccia (stoppia) che veniva fatta bruciare subito dopo la mietitura.

Il manipolo di spighe appena falciate era lu scèrmite (mannello), che veniva disposto sul campo a curisciulu, per essere poi raccolto e formare il covone lu sieddhu o mannucchiu (covone), che poi veniva trasportato all’aia e accatastato a pignone (bica): tanti pignuni per quanti erano i fondi di provenienza.

Covoni di grano

“Una squadra di mietitori aveva attaccato una partita di frumento nel fondo detto Terra de’ Giorgi, di fronte alla Pitria, e procedeva alacremente. Ogni uomo portava avanti un solco, con una mano protetta da ditali di canna stringeva un fascetto di steli e con la falce dentata, che teneva nell’altra mano, lo recideva di netto quasi a terra; poi un altro piccolo fascio e così via fino a quando ne poteva stringere. Allora, con la mano della falce staccava alcuni steli dal mucchio, legava l’intero mannello e lo posava sul terreno. Dietro, qualcuno raccoglieva tutti i mannelli e li legava in covoni, sempre usando i lunghi culmi di grano secchi ai quali erano attaccate le spighe. Poi con i covoni si costruivano le gregne in attesa del trasporto all’aia. I ragazzi aiutavano a raccogliere i mannelli ed erano sempre impiegati nei lavori meno faticosi, come quello di portare l’acqua ai mietitori; assieme alle donne erano anche addetti alla spigolatura” (Giorgio Cretì).

La trebbiatura si effettuava con i cavalli o anche con i buoi. I cavalli, in genere due, erano legati in parallelo e trotterellavano sull’aia circolare (aria o era), legati ad un palo centrale, spronati dal verseggiare monotono del  massaru, che per lo più stava al  centro a tenere le redini. Le masserie più dotate trebbiavano con i buoi aggiogati in coppia, ai quali spesso si legava una pietra piatta e liscia (pisara) per frantumare i covoni e sgranare le spighe. I contadini badavano a rivoltare con il tridente le spighe di grano sotto il passo degli animali, così da rendere uniforme la triturazione. Le piccole quantità venivano percosse con il maglio (magghiu).

Separato dagli involucri e da altre parti di scarto quali paglia e steli, il grano veniva dunque ammonticchiato in attesa di essere ventilato (intulisciatu) (e per questo si sceglievano giornate particolarmente ventose), per  allontanare la polvere e la paglia. In questa operazione ci si aiutava rimuovendo il tutto con il tridente, quindi con la pala, che permetteva di allontanare la pula. Paglia e pula venivano comunque raccolte, quale foraggio o lettiera per gli animali. I chicchi piccoli e spezzati venivano separati da quelli integri di dimensioni normali, quale mangime per i volatili domestici.

Si passava poi il grano con il vaglio in ferro (sitazzu), assai simile a quello dei muratori, separando le impurità, pietre e pagliuzze.

Il grano veniva finalmente conservato in sacchi di tela, da cui veniva prelevata la quantità necessaria per la prossima panificazione e quindi per la sua molitura. Il contadino portava dunque al mulino già elettrificato il suo sacco e tornava a casa con i tre prodotti ottenuti: la farina, il cruschello (lu cruessu) e la crusca (la canigghia), riposti in altrettanti sacchetti. Quando il grano veniva macinato dalla mola asinaria la stacciatura veniva effettuata con lu farnaru (setaccio col retino di sottile fil di ferro), che separava la crusca, eventuali grumi (còcule) e i bachi della farina (canneddhe). Finalmente si crivellava con la sitella (crivello, di seta), per separare il cruschello (lu cruessu) dalla semola (lu fiuru) necessaria alla panificazione.

Campagna salentina

“Non era ancora l’alba che giunsero il Cozza ed altri uomini e nel giro di un’ora tutta la bica di Cannalita era stata trasferita nell’aia: tutti i covoni erano stati sciolti e la messe era pronta per essere rotta dallo scalpiccio delle bestie. Poi Antonio rimase solo in mezzo all’aia a guidare il cavallo. Era lì, piantato nel bel mezzo e il cavallo continuava a girargli attorno trascinandosi dietro la traia ch’era fatta di pietra ed aveva la funzione di tritare la paglia. Ragazzo e animale portavano entrambi un gran cappellone di paglia e quello del cavallo aveva due buchi per far passare le orecchie. Il cavallo aveva anche la musreruola perché non mangiasse il grano e una benda perché non gli venisse il capogiro.

Così sarebbero stati insieme per tanti giorni, Antonio in mezzo all’aia ed il cavallo a girargli attorno per chilometri e chilometri, prima per rompere la messe, poi per triturare la paglia: il cavallo si sarebbe riposato il giorno della ventolatura.

Antonio solo qualche volta cantava per distrarsi. Viveva sempre in una specie di torpore ed i suoi pensieri non erano mai violenti, ma leggeri e vaghi come le nuvole basse di Scirocco che sembra finiscano e poi si mescolano con quelle che vengono dietro. Erano anche pensieri limpidi come il cielo che ora gli stava azzurro sopra la testa ed egli senza saperlo era contento perché non pensava di poter essere diverso o di poter vivere diversamente.

Nicola era nella caseddha a infilzare tabacco ed era come se non ci fosse. Solo ogni tanto veniva sull’aia per aiutare Antonio a rimestare la messe: anche lui da ragazzo aveva passato molte giornate fermo sotto il sole dell’aia.

Il tempo si era mantenuto caldo ed asciutto e verso sera la tritura era perfetta. Nicola stabilì che l’indomani si poteva ventolare. E di buon’ora, non appena cominciò a levarsi la brezza, il Cozza, il Muzzolo ed Antonio, con un grande fazzoletto colorato al collo per proteggersi dalle irritazioni della pula, si apprestarono ad iniziare l’ultima operazione per il raccolto di Cannalita.

Antico mulino

Il Cozza in testa ed Antonio per ultimo, in fila, affondavano i trebbi delle forche nella messe e lanciavano in aria la trebbíatura con un sincronismo quasi meccanico. La pula, spinta dalla brezza, volava subito lontano fino al tabacco del Muzzolo e la paglia, più pesante, cadeva appena oltre il ciglio dell’aia. I tre seguivano una specie di solco e quando giungevano in fondo iniziavano da capo.

Il Cozza era molto bravo a condurre e presto apparve chiaro che, di quel passo, se la brezza teneva, avrebbero potuto insaccare prima di sera.

Verso mezzogiorno venne il fattore e, vedendo che le cose stavano a buon punto, se ne andò per preparare i sacchi e avvertire don Nino.

Al tramonto il grano era già pronto nei sacchi e caricato sul carro. Antonio lo portò al granaio e, dopo aver mangiato un piatto di legumi nella cucina di don Nino, uscì in paese e andò alla bottega del Ricchia” (Giorgio Cretì).