Il Guercio di Puglia

di Salvatore Chiffi

Il 21 luglio 1647 la città di Nardò, in seguito alla rivolta napoletana capeggiata dal pescatore amalfitano Tommaso Aniello (Masaniello), insorse contro i dominatori spagnoli.

Il popolo, guidato dai notabili della città i quali erano sostenuti dal francofilo Marchese di Acaja, chiedeva l’abolizione delle onerose gabelle imposte dal  vicerè e dalle avide baronie spagnole, reclamando il diritto al pane e una vita più dignitosa.

In quel tempo Nardò era governata da Giovan Girolamo II Acquaviva d’Aragona, 20° Conte di Conversano e 7° Duca di Nardò, tristemente conosciuto come “il Guercio di Puglia”. Le cronache dell’epoca raccontano che un giovane sposo, non volendo far sottostare la moglie allo jus primae noctis (il Conte esercitava tanto questo infame diritto da far acquisire ai cittadini di Conversano la ‘ngiuria di “figli del Conte”) lo aveva aggredito privandolo di un occhio.

Il “Guercio”, alla morte del padre Giulio Antonio I° d’Aragona, pur di impossessarsi immediatamente dei feudi di famiglia, tentò di far trucidare la madre Donna Caterina Acquaviva, ma questa, scampata fortunosamente ai sicari del perfido figlio, si rifugiò nel suo ducato di Nardò dove visse per altri 16 anni.

Alla morte della madre il Guercio, ereditato il feudo di Nardò e il titolo di Duca, allungò immediatamente le avide mani sui privilegi economici di cui godeva la Nardò come Universitas, imponendo nuovi balzelli riscossi brutalmente con intimidazioni e carcerazioni. Si impossessò delle proprietà appartenenti alle antiche nobili famiglie locali, privò il Clero dei privilegi e delle immunità di cui godeva e pretese persino che nella Cattedrale per lui venisse eretto un trono personale dal quale presenziare le funzioni religiose.

Per meglio dominare il feudo nominò Sindaco dei Nobili Francesco Maria Manieri, uno dei suoi uomini più fidati, ma i crimini del “Guercio” esasperarono a tal punto il Manieri, da indurlo a chiedere l’intervento del Regio Ministro per disconoscere l’infeudazione del Duca e la restituzione del feudo neretino al “patrimonio regio”. Il Sindaco pagò con la vita il suo tradimento. Il 12 agosto 1639, mentre seguiva la processione del Santissimo Sacramento, Felice Prome, sicario del Guercio, lo uccise pubblicamente con un colpo di pistola nei pressi della Chiesa Madre.

I neretini, furibondi, giurarono di liberare la città dal tiranno e grazie alla denuncia del dottor Giovan Pietro Gabellone presso la Corte Suprema di Napoli dell’omicidio del Sindaco, nel 1643 fecero arrestare il turpe Giovan Girolamo.

Il popolo festeggiò la notizia con un Te Deum in Cattedrale, ma la gioia durò poco perché lo scaltro Duca riuscì a corrompere i Giudici e a farsi assolvere e, ritornato a Nardò più inferocito che mai, diede sfogo alla sua sete di vendetta ricominciando a perseguitare i sudditi neretini, costringendoli a vivere nel terrore di essere trucidati.

Rriatu lu Uerciu cu llu fele a mmucca

se mise nn’àura fiata cu ttartassa

li pore Neretini cu lli tazzi:

ciciri e ffae, ranu cu pisieddhri,

l’aria ca rispirane ni tassau.[1]

 

Il malcontento ebbe però il sopravvento sulla paura e il 19 luglio 1647 una folla di contadini scese minacciosa in piazza, chiedendo al Sindaco Giovan Battista Sabatino, altro uomo fidato del Duca, l’abolizione delle gabelle sulla farina, sul pane e sul sale. Il Sindaco Sabatino cercò di prendere tempo e  insieme ad alcuni amministratori fedeli al Duca riuscì a scappare a Lecce.

La sera del 21 luglio tremila neretini capeggiati dal chierico Domizio Zuccaro, da Don Giuseppe Piccione e da Lorenzo Olivieri, insorsero incarcerando gli uomini del Duca che non erano riusciti a fuggire alle prime avvisaglie di ribellione, saccheggiarono il Castello, insediarono nelle cariche politiche e amministrative della città i nemici giurati del Duca, costituirono un battaglione cittadino ed emanarono un bando col quale si ordinava a tutti i cittadini di armarsi per liberare la città dai nobili fedeli al Duca e agli spagnoli.

Una settimana più tardi, era la domenica del 28 luglio,  gli uomini del costituito esercito cittadino, al comando de “lu Barunieddhru” Sambiasi, murarono le porte della città lasciando libera solo la porta che dava a Ovest e conosciuta come “Porta della Vaccarella o Porta di Mare”, fortificarono le 24 torri che circondavano la città dotandole tutte di un cannone con sei serventi e si schierarono a difesa lungo tutto il perimetro delle mura in attesa dei rinforzi costituiti dalle truppe francesi del Cardinale Mazarino, che sarebbero dovute sbarcare a Otranto, e dai soldati di Vincenzo De Montibus,  Marchese di Acaja.

Lo sbarco delle truppe francesi però non avvenne perché il Cardinale Mazarino aveva rinunciato all’impresa di conquistare il Regno di Napoli; le truppe del Marchese di Acaja non arrivarono e così gli insorti neretini rimasero da soli a fronteggiare i mercenari del Guercio di Puglia che aveva giurato di ridurre la città di Nardò a “staddhra pi li puerci”.

Le avanguardie a cavallo dell’esercito del Duca (circa settanta uomini) raggiunsero le campagne di Nardò il 1° agosto e in attesa dell’arrivo del resto delle truppe si attestarono nel Castello di Copertino e sino al 3 agosto devastarono le masserie e le campagne, razziando bestiame, incendiando coltivazioni, rubando raccolti e facendo molti prigionieri fra i malcapitati contadini.

Due giorni dopo 4000 uomini al comando del Guercio di Puglia si aggiunsero ai soldati a cavallo e, nonostante il Governo Reale Spagnolo avesse vietato di attaccare la città, tentarono la conquista. Ma i neretini resero vani tutti gli assalti,  difendendo eroicamente i bastioni della città e col fuoco dei cannoni sulle torri inflissero gravi perdite ai figghi ti lu Conte, i quali, per rappresaglia, misero a ferro e a fuoco le campagne circostanti.

Li fucili su’ pronti e lli cannuni,

te sta spittamu, Uerciu, fatte nnanti,

– Ton Ottaviu crittàa te ssu lli muri –

puru cu lle mannare e lli furcuni

ha rriata l’ura ffacimu li cunti.

 

Dopo alcuni giorni di battaglia, risultati inutili i tentativi di conquistare Nardò con le armi, il Guercio tentò la via della mediazione chiedendo l’intervento del Vescovo di Lecce Mons. Luigi Pappacoda, il quale, con fine diplomazia e offrendo garanzie personali, riuscì a far addivenire a un accordo le due parti in conflitto.

Gli insorti furono costretti a richiedere l’intervento del Vescovo Pappacoda perchè all’epoca di questi misfatti l’Episcopato di Nardò era retto dal vicario canonico abate Giovanni Granafei che parteggiava per il Guercio. Granafei sostituiva il Vescovo di Nardò Fabio Chigi, Inquisitore di Malta, che non aveva mai preso possesso della sede vescovile perché impegnato politicamente per la nomina a pontefice, carica che poi raggiunse assumendo il nome di Papa Alessandro VII.

La mattina del 7 agosto 1647, accolto dal suono festoso delle campane, il Guercio di Puglia fece il suo ingresso trionfale in Nardò con i figli e i suoi alleati il Principe di Presicce, il Barone di Seclì, il Duca di San Donato, il Barone di Lizzanello, il Barone di Galatone ed altri provenienti da Gallipoli, Casarano e da varie località dell’alta e bassa Murgia.

Nei giorni successivi il Guercio distribuì le cariche pubbliche fra i suoi seguaci più fedeli ed emanò un bando con il quale tutti i neretini erano obbligati a consegnare le armi e rimuovere i cannoni dalle torri. I neretini intuirono immediatamente che il Guercio stava preparando la sua vendetta e molti capi della rivolta si diedero alla fuga. I piani del malvagio signore erano semplici: le sue truppe mercenarie dovevano provocare in tutti i modi i neretini sino a indurli nuovamente alla ribellione. In questo modo avrebbe potuto dimostrare che il popolo neretino non voleva sottomettersi alla sua autorità e che la impietosa e sanguinaria repressione esercitata era conseguenza inevitabile e necessaria per mantenere l’ordine pubblico.

Fra il 13 e il 19 agosto tutti i capi della rivolta, Olivieri Paduano (Pagghiareddhra), Giuseppe De Michele, Giuseppe Spada, Cesare di Paolo, l’arciprete Giovan Filippo Nuccio, gli abati Benedetto Trono, Francesco Gabellone, Antonio Roccamora ed altri, furono arrestati e dopo indicibili torture vennero condotti di sera nelle campagne a ridosso della Chiesa dei Paolotti, in contrada Ranfa e fuci, e archibugiati. Le loro teste mozzate vennero esposte come monito sul Sedile nella Piazza della Città (oggi Piazza Salandra, ndr.) accanto al cadavere del novantasettenne barone Pierantonio Sambiasi che, dopo essere stato ucciso a pugnalate, era stato appeso per una caviglia sotto la torre dell’orologio.

Lu fiuru fiuru te li Neretini,

manu manu ca inìane condannati,

ni nde tagghiàa la capu e lli ppindìa

suttasubbra a lle furche pe nnu pete.

Molti altri rivoltosi furono in seguito individuati e arrestati. Tradotti poi a Conversano furono qui impiccati nella Strettola delle Forche e le loro teste mozzate furono poi mandate a Nardò per essere esposte come ammonimento sul Sedile di città.

Questa pagina vergognosa della storia neretina per opera del più feroce e sanguinario feudatario pugliese ebbe fine nel 1665 quando il Guercio, caduto in disgrazia, fu arrestato a Meda in Spagna, grazie alla tenacia di Giovan Pietro Gabellone, che non aveva mai smesso di denunciare presso la Corte Suprema di Madrid il nefasto governo del Duca.

Condannato a morte fece una fine orribile degna però della sua crudeltà.  Legato per gli arti a quattro cavalli morì squartato su una pubblica piazza della capitale spagnola.

[1] Versi di Carmine Cucugliato tratte dal libro “Nardò e llu Uerciu te Puglia” Editrice Salentina