Nutrimento basilare delle famiglie d’un tempo

LU PANE

FARE IL PANE IN CASA ERA UN LUSSO CHE SOLO LE FAMIGLIE MENO MISEREVOLI E PIU’ ABBIENTI POTEVANO PERMETTERSI

di Piero Visper

All’occhio di chi è vissuto, sin da bambino, in un punto nevralgico della Galatina antica, in una casa che dava e dà tuttora in una αγορά, e dal balcone della quale, affacciandoti, potevi assistere, quotidianamente, alla rappresentazione della commedia della vita, non poteva sfuggire il continuo via vai di garzoni con, sull’omero, a bilico, delle lunghe tavole ricolme di pani e coperte di panni bianchi di bucato.

Ognuno di essi aveva una meta ben precisa: a nord ‘u furnu (φούρνο, lt. furnus) de lu Schiuppetteddhra, ad est quello de la Ngìddhrana, sotta a llu Cuncertu: forni che ora non esistono più, perché, da molto tempo, sono stati ristrutturati ed adibiti l’uno a civile abitazione e l’altro a studio legale.

Classico forno salentino

Quel che a me interessa è far conoscere ai giovani quanta fatica, quanto lavoro costasse alle massaie, un tempo, fare il pane in casa.

Innanzitutto bisogna dire che, anticamente, potevano permettersi questo lusso solo le famiglie non miserevoli e più abbienti.

Si faceva il pane in quantità tale che bastasse per una quindicina di giorni e forse più. Quando si ritornava dal forno, dopo averli fatti ben raffreddare, si disponevano i pani, e più propriamente i panetti, ‘ntajàti, cioè disposti obliquamente uno accanto all’altro, in alto sulla credenza.

E questo per impedire ai ragazzi, famelici e voracissimi, di non divorarli, perché, si sa, quando il pane è moddhre, fresco, si consuma subito; se è tostu, raffermo, basta una sola fetta per saziarsene.

Tant’è vero che, se a volte il pane ammuffiva, si diceva, per consumarlo, ai bambini: màngialu ca ti èssenu ‘i capiddhri rizzi (mangialo ché ti spuntano i capelli ricci).

La prima operazione era quella di portare il grano al mulino; dopo averlo macinato e messa la farina,integrale, nei sacchi de mmacianare, fatti di panno tessuto al telaio e perciò molto resistenti, si ritornava a casa.

Si cominciava allora a cèrnere (lt. cerno) la farina, cioè a setacciarla. Per l’uopo le massaie adoperavano setacci di varia grandezza, provvisti di una rete più o meno fitta; ciascuno aveva il suo nome: farnàru (lt. cribrum farinarium), simularu, sitazzu.

In primo luogo si separava la farina dalla canìja (lt. canilia), crusca, usando ‘u farnàru; poi lu fiore, parte finissima e meno idonea alla panificazione, veniva diviso dall’altra, simula e crussieddhru, più idonea, passandolo al setaccio più volte.

Ebbene questa operazione fatta dalle donne suscitava l’ilarità dei maschi, i quali, rientrando in casa e vedendo le loro mogli intente a questo lavoro, così cantavano:

e mujèrama quando cerne / tutta quanta se cotulà e cu llu rùsciu (ρυζέω, mugghio, brontolo) / de le minne la farina a ventulà

(e mia moglie, quando cerne, si muove tutta quanta, e con il rumore ed il fruscio prodotto dall’attrito delle sue mammelle fa ventilare la farina).

Dapprima si preparava lu llavàtu (lt. levatum), il lievito; si prendeva della farina, la si scioglieva nell’acqua, a volte aggiungendovi anche della birra, la si lavorava in modo da ottenere una massa compatta.

Si confezionava un bel pane e lo si lasciava ad inacidire, a volte coprendolo con un panno di lana, per tenerlo al caldo, o come si diceva allora, per far criscire lu llavàtu, cioè affinché fermentasse per bene.

Il giorno successivo, le massaie si levavano dal letto al buio, prendevano un bel pezzo di questo llavàtu, lo scioglievano in poca acqua tiepida e lo versavano nella farina che stava nella matthra (μάκτρα), madia; poi temperavano la farina intridendola d’acqua con sale ed infine la impastavano.

Successivamente mettevano tutta questa massa di pasta sulla matthrapanca, cioè sul coperchio della madia e, piano piano e a poco a poco incominciavano a schianarla (lt. explanare) scannellando e scannellando la pasta con la base delle palme della mano sino a darle un certo nerbo e quindi renderla elastica.

Dopo di ciò passavano a confezionare i pani.

Questi erano di diversa forma e grandezza:

i panetti, del peso di circa un chilogrammo, che avevano una massa di pasta più compatta;

‘i squajàti, pani di circa mezzo chilogrammo che, presentando una massa di pasta meno compatta e cascante, si confezionavano appaiati;

le ‘uliàte, pani di varia forma e grandezza conditi con olive;

i pizzi, conditi con pizzaiola, cioè con olio, pomodoro, cipolla, zucca e peperoncino

le ‘mpille (όμπνη), focaccine di forma piatta, condite con pizzaiola;

le frise (lt. frisae), ciambelle confezionate a còcchia, appaiate, che, dopo una prima cottura, venivano spaccate, separate, servendosi di uno spago a cappio e successivamente rimesse nel forno per essere ‘mpiscuttate (lt. bis coctae), cioè biscottate.

Terminato questo lavoro, le massaie disponevano il pane sul letto di bucato, sotto tovaglie di cotone e coperte di lana, affinché si gonfiasse al caldo lievitando.

All’ora stabilita giungevano i garzoni del fornaio a prelevare il pane che, ben coperto, veniva messo su delle tavole e portato al forno.

Ho detto all’ora stabilita, perché il pane doveva entrare nel forno quando temperatura e lievitazione giungevano al punto opportuno.

Per arroventare i forni, che erano di pietra leccese pavimentati di chianche (φαλάγγα, lt. planca), i fornai usavano frasche e rami di ulivo legati a fascina, le sàrciane (lt. sarcina) de ramàje.

In paese questi forni funzionavano anche per conto terzi, mentre nelle campagne ogni masseria ne aveva il suo ed i contadini delle zone limitrofe andavano lì ad infornare il loro pane.