Lu còfinu

di Piero Visper

In un’era atomica, di scudi stellari e satellitari, di sintonie dolbyzzate ed anodizzate, di decoder digitali terrestri, di computer, di elettrodomestici dei più sofisticati, di giochi in borsa e di pedofilia, di corsa al potere, di sovvenzioni e di raccomandazioni, di arrivismo perbenismo e clientelismo, in un’era di stupri, di vendette e di rapine, di lotta alla droga, di lotta per la sopravvivenza, di furti “leciti” e non, di gratta e vinci miliardari, di uranio arricchito ed impoverito, di enti che funzionano e non funzionano, ma che potrebbero fare a meno entrambi non di funzionare ma di esistere, in un’era, dicevo, di socialismo, di comunismo, di qualunquismo, di un ex-democrazianesimo sempre imperante, parlare di fare lu còfinu (ko.jinoV) sarebbe cosa superflua ed alquanto anacronistica.

Còfinu

La questione, però, ha la sua ragion d’essere nell’intento di far conoscere ai ragazzi, ai giovani d’oggi, usi e costumi del popolo salentino, dai quali traspaiono la solerzia, la laboriosità, la fatica, l’intelligenza e la saggezza della nostra gente.

Per fare lu còfinu, ossia per fare il bucato, un tempo, occorrevano tre giorni.

Dapprima si mettevano a sponzu (spongia = spugna), a bagno, con acqua e scaglie di sapone le rrobbe in un capiente limbone, affinché rremuddhràsseru (remollire = rammollire, rendere molle).

Il giorno successivo la massaia toglieva i panni intrisi d’acqua ed incominciava ad accatastarli in un recipiente di terracotta, il cosiddetto còfinu, che veniva adagiato su di uno scanno robusto ad un’altezza di circa cinquanta centimetri da terra.

Lu còfinu aveva la forma di un tronco di cono, un po’ più panciuto, con la base minore, rivolta all’ingiù; a due, a tre centimetri dalla base minore sporgeva ‘nu vùcculu (bucculum), un becco cilindrico, cavo, il cosiddetto piscialire, che o veniva chiuso da ‘nu vuddhraturu (bollaturus), cioè da un tappo di sughero, oppure lo si stappava, all’occorrenza, per far defluire l’acqua del bucato, la quale andava a finire inthru a llu limbone, adagiato a terra.

Per aumentare la capienza de lu còfinu, oltre il suo orlo, s’inseriva ‘u canzu (ka . μyoV = curvo), un cerchio formato da un insieme di tavolette di legno ben levigate, larghe dieci ed alte trenta centimetri, che s’incastravano tra di loro; si otteneva così un altro bordo circolare su cui si disponeva un telo di vil panno, lu cenneraturu, il ceneraccio, per lo più tessuto a llu talaru (ta. larV, lt. volg. telarium), in modo che, ricadendo all’esterno per tutta la circonferenza, formasse all’interno un grande incavo, il quale veniva riempito di cenere ben pulita e setacciata; generalmente era usata la cènnere de fucalire più ricca di soda e di potassa.

Circa la disposizione dei panni, la massaia metteva giù, alla base de lu còfinu, i panni rozzi e colorati, i più pesanti, e poi su, via via quelli bianchi e quelli più delicati. Ebbene, dopo aver disposto la cenere inthru a llu cenneraturu, si versava l’acqua bollente dalla caddara (calidaria), grossa pentola di rame rossa, tenuta costantemente sul fuoco.

L’acqua veniva versata solo quando incominciava a rrusciare (ruze.w = mugghio, brontolo, gorgoglio); questa filtrava dalla cenere, gradatamente, attraverso la biancheria che si detergeva sino alla purezza.

Le caddare da versare erano sempre in numero dispari e mai inferiori ad undici; e le massaie, per non perdere la conta, segnavano con un pezzo di carbone o di tizzone spento delle aste sulla pancia de lu còfinu.

Quando lu còfinu era colmo d’acqua, dopo un certo periodo di tempo, si toglieva lu vuddhraturu da lu piscialire e l’acqua scolava pian piano inthru a llu limbone.

Mediante lu vacaturu (vacuaturus), recipiente di creta dal becco largo, si riempiva la caddara della stessa acqua e la si rimetteva sul fuoco; prima che bollisse, la si versava di nuovo nel còfinu, e così via via, ripetendo la stessa operazione sino a quando la massaia era certa che la biancheria si fosse per bene detersa.

Biancheria stesa ad asciugare al sole

Quest’acqua che sistematicamente veniva usata e riusata, alla fine, assumeva un colore marrone scuro, la cosiddetta lissìa (lisso. V = liscio; lt. lixivia), liscivia, che veniva adoperata per lavarsi i capelli.

Finito questo lavoro, se scunzava, si disfaceva, ‘u còfinu, quando si era ben raffreddato; ciò avveniva o la sera a tarda ora o più spesso il mattino seguente; poi i panni venivano lavati ancora con sapone, si risciacquavano in acqua, nella quale precedentemente erano state sciolte, legate dentro una pezzuola, alcune palline de blu (di blue oltremare), in modo che essi acquistassero più brillantezza, ed infine si stendevano al sole ad asciugare.

Da questo lavoro ingrato ed estenuante nacque il proverbio: Còfinu e pane, fatica de cane.