Gaeta, 8 dicembre 1860

Re Francesco II di Borbone

PROCLAMA
AI POPOLI DELLE DUE SICILIE

 

“Da questa Piazza, dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle nostre miserie, per promettervi tempi più felici.

Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; che mai ha durato lungamente l’opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni. Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con sdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccarono solo la mia persona; ho combattuto non per me ma per l’onore del nome che portiamo.

Ma quando vedo i sudditi miei che tanto amo in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati, portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napolitano batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia.

Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio.

Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi: la vostra lingua è la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni.

Erede di una antica dinastia che ha regnato in queste contrade per lunghi anni ricostituendone l’indipendenza e l’autonomia, non vengo dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la chiesa ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d’Italia.

Sono un principe vostro che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra i suoi sudditi.

Il mondo intero l’ha veduto; per non versare il sangue ho preferito rischiare la corona.

I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non potevo credere al tradimento.

Mi costava troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante nostre sventure, un’era di persecuzioni la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutata l’invasione piemontese pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà de’ miei popoli, il valore de’ miei soldati.

In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue, ed hanno accusato la mia condotta di debolezze. Se l’amore il più tenero pe’ miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nella onestà degli altri, se l’orrore istintivo al sangue meritano questo nome, sono stato certamente debole.

Nel momento in che era sicura la rovina de’ miei nemici, ho fermato il Braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo, ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta Capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua e Ancona.

Ho creduto nella buona fede del Piemonte che si diceva mia fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo ma alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi, per invadere i miei stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra.

Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari. Io aveva data una amnistia, aveva aperto le porte della patria a tutti gli esuli, concesso ai miei popoli una costituzione.

Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consacrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica rimuovendo ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento. Aveva chiamato a’ miei consigli quegli uomini che mi sembrarono più accettabili all’opinione pubblica in quelle circostanze, ed in quanto me lo ha permesso l’incessante aggressione di che sono stato vittima, a progressi, ai vantaggi del comune paese.

Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l’ingiustificabile invasione d’un nemico straniero.

Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte. Chi ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e Sicilia?

Vedete lo stato che presenta il paese. Le finanze un tempo cosi floride sono completamente rovinate: l’amministrazione un caos; la sicu- rezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti; in nome della libertà, lo stato di assedio regna nelle provincie, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta fucilazioni istantanee per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna.

L’assassinio è ricompensato, il regicidio merita una apoteosi: il rispetto al culto santo dei nostri padri è chiamato fanatismo: i promotori della guerra civile, i traditori del proprio paese ricevono pensioni che paga il Pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto.

Avventurieri stranieri han rimestato tutto, per saziare l’avidità o le passioni dei loro compagni.

Uomini che non hanno mai veduta questa parte d’Italia o che hanno dimenticato in lungua assenza i suoi bisogni, formano il vostro governo.

Invece nelle libere istituzioni che io vi avevo date e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la costituzione.

Sparisce sotto i colpi de’ vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggero II, di Carlo III e le Due Sicilie sono state dichiarate provincie di un regno lontano, Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino.

Ci è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo, la concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire.

Unitevi intorno al trono de’ vostri padri, che l’oblio copra per sempre gli errori di tutti, che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma quale futura lezione salutare.

Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele ai miei popoli ed alle istituzioni che ho loro accordate.

Indipendenza amministrativa ed economica tra le Due Sicilie con parlamenti separati, amnistia completa per tutti fatti politici questo è il mio programma. Fuori di queste basi non ci sarà pel paese che dispotismo o anarchia.

Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito. Se l’autorità ritorna nelle mie mani sarà per tutelare tutti i diritti, rispettare tutte le proprietà, garantire le persone e le sostanze de’ miei sudditi contro ogni sorta di oppressione e di saccheggio.

E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permette che cada sotto i colpi del nemico straniero l’ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione: ed aspettando l’ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia Patria, per la felicità di questi paesi che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.

Preghiamo il sommo Iddio e la invitta Immacolata protettrice speciale del nostro paese, onde si degnino di sostener la nostra causa”.

NOTA

L’assedio di Gaeta, iniziato il 13 novembre 1860, durò tre mesi. Il 13 febbraio 1861 Francesco II si arrese alle truppe piemontesi. Fu deposto e si recò in esilio a Roma, via mare sul piroscafo francese Mouette. Non sarebbe mai più tornato a Napoli. Morì nel 1894 ad Arco in Trentino all’età di 58 anni.