Spigolature di

Terra d’Otranto

di Piero Tre

Salento

La provincia di Lecce, o Salento meridionale o Terra d’Otranto, si configura con il “tacco” o il “tallone” di quell’immenso “stivale” formato dalla penisola italiana. Ha una superficie di 2760 Kmq ed un profilo costiero che si estende in linea d’aria (senza cioè tener conto delle piccole ma frequenti sporgenze e rientranze) di ben 200 Km, partendo da Casalabate sull’Adriatico e, dopo aver toccato Santa Maria di Leuca, risalendo sino a Punta Prosciutto, ai limiti della provincia di Taranto.

La provincia di Lecce, insieme con quelle di Brindisi e Taranto, costituisce tutto il Salento; nome che ricorda l’antico popolo dei Salentini, che lo abitò, insieme ai greci della Magna Grecia, prima della conquista romana.

Lecce – Piazza Sant’Oronzo

Il Salento fu diviso in tre province quando, nel 1923 e nel 1927, all’unica provincia di Lecce, si aggiunsero rispettivamente quelle di Taranto e di Brindisi.

Il nome di Terra d’Otranto è invece legato al ricordo dell’antica città-martire, oggi ridotta al rango di piccolo comune, ma un tempo città fiorente e famosa nel campo religioso, culturale, politico, economico e militare.

La parte più meridionale della provincia, pressappoco quella della linea Gallipoli-Maglie-Otranto, è meglio conosciuta, come del resto tutti sanno, sotto il nome di “Capo”.

Gallipoli e il porto

Si sarebbe portati a credere che così grande ricchezza di coste e così facile contatto col mare abbiano contribuito, nel tempo, a fare dei salentini della provincia di Lecce un popolo di marinai e navigatori, anche perché vicinissimi alle rive greco-albanesi, all’isola di Corfù, visibili qualche volta, nelle chiare giornate di settembre.

Purtroppo la pesca ha registrato sempre scarsa consistenza; soltanto Gallipoli ed Otranto, potendo usufruire di un buon porto, hanno sfruttato in un certo qual modo tale attività, anche se non eccessivamente.

C’è di più: il contadino salentino, che non ha mai avuto molta dimestichezza con il mare, ha imparato a diffidarne, ad averne paura, soprattutto per i continui pericoli che proprio dal mare si sono profilati contro di lui.

I ricordi delle invasioni e dei saccheggi ad opera dei Turchi, che culminarono nella strage degli ottocento martiri di Otranto (agosto 1480), sono ancora ben vivi nell’immaginazione e nelle tradizioni del popolo salentino.

Otranto notturna

Per questo le coste, a lungo abbandonate, diventarono dominio incontrastato della macchia e della boscaglia, delle dune e degli acquitrini salmastri. Ancor oggi, nonostante sia tangibile la presenza dell’uomo, si possono notare, soprattutto verso l’Otrantino, zone incontaminate e lussureggianti di vegetazione (i laghi Alimini e le Cesine possono fornire un valido esempio). Da queste zone malsane la malaria ha seminato per lungo tempo la morte fra le popolazioni.

Procedendo all’interno, gli antichi agglomerati urbani, le stesse borgate e le masserie hanno dovuto difendersi con castelli, torri e varie opere fortificate, per mettere al sicuro le persone e i loro beni, per respingere, in qualsiasi momento, l’assalto del nemico invasore. Lecce, Galatina, Nardò, Copertino, tanto per citare le città più grandi, recinsero con alte e ben solide mura il borgo abitato, nel quale si poteva accedere attraverso le famose “porte” dislocate nei punti nevralgici della cittadina ma generalmente disposte seguendo i quattro punti cardinali. Chi non ricorderà Porta Rudiae o Porta S. Biagio a Lecce oppure Porta Luce o Porta Cappuccini a Galatina!

Galatina – Basilica di Santa Caterina d’Alessandria

A dare maggiore conforto alle varie popolazioni, furono edificate, nei punti alti della costa, delle torri di avvistamento dalle quali per tutto il giorno si scrutava il mare alla ricerca di imbarcazioni saracene o corsare. Famose sono la Torre dell’Alto, dell’Inserraglio, delle Quattro Colonne, del Serpe (ormai ridotta ad un pericoloso rudere), Torre Mozza ecc. e tante altre più piccole che, simili a superbe e ligie sentinelle, sono disseminate lungo tutta la costa.

Nei grossi centri urbani si notano, il più delle volte, imponenti castelli (molti dei quali furono eretti da Federico II di Svevia) che stanno a testimoniare come di frequente questi luoghi fossero teatro di scorrerie saracene. Tra i più belli e meglio conservati, oltre a quello di Otranto e di Lecce, ricordiamo quello di Copertino, Corigliano d’Otranto, Gallipoli, Nardò, Parabita, Alessano, Tricase ecc.

Trulli sulla costa jonica

E’ ancora in uso in alcune zone del Salento il curioso detto: ”Ogne mùcchiu me pare Tùrchiu”, a voler indicare che “ogni ombra poteva costituire un serio pericolo”.

Anche per questo la campagna non è stata mai abitata; la popolazione ha sempre preferito vivere concentrata nei numerosi paesi, piccoli e molto vicini tra loro, i quali visti sulla cartina geografica, sembrano costituire una ragnatela. Non mancano casi, però, di grandi masserie, anche esse ovviamente fortificate per riparare uomini ed animali da chiunque, sia in tempi di pace che di guerra, o, nel caso in cui la comunità era più popolosa, di casali che, in alcune circostanze, raggiungevano anche le 200-300 anime, amministrate da signorotti locali che spremevano sino all’osso i loro sudditi. Dei tanti casali sparsi per tutta la provincia ricordo quello di ‘Tabelle’ e ‘Tabelluccio’, siti tra Galatina e Galatone, dei quali rimane qualche misera vestigia.

Tutti i contadini, sia essi di “città” che di “masseria” si recavano di buon mattino a lavorare la terra, portandosi appresso i rudimentali attrezzi, gli animali e la “merenda”, fatta di pane fresco (quando si era fortunati) o ammuffito, condito con pomodoro, origano, peperoni e cipolla. Nel bel mezzo della giornata, dopo estenuanti ore di duro lavoro, un grosso albero di ulivo o di fico accoglieva i “cafoni” o meglio “li furisi” e li riparava dal sole cocente (in estate) e dalla pioggia o dal vento o dal freddo pungente (in inverno). Da bere soltanto dell’acqua e, nel migliore dei casi, un bel bicchierotto di buon vino nero di “malvasia” o di “ionico”, che serviva ad “asciugare” il sudore ma anche a ricaricare e rincuorare i poveri contadini. Poi, ad un cenno del “fattore” (l’amministratore del signorotto) tutti a riprendere la dura fatica e a rimpinzare e rimpolpare i forzieri de “lu pathrunu”.

Ingresso Casale Tabelle

Sul far della sera, tutti, nessuno escluso, quasi avessero timore delle ombre serali, rientravano in paese o si chiudevano dietro robusti portoni nella masseria a godersi la famiglia e il frugale pasto serale fatto quasi sempre di legumi o verdure per rinforzare i muscoli e tonificare il corpo.

Tutto questo si ripeteva ogni giorno, ogni anno, sempre e stancamente, a scandire una vita miserevole vissuta alla lucerna, senza alcun sussulto, senza un’emozione particolare, se non quella rappresentata dall’essere sopravvissuti alle angherie del severo padrone, alle ripetute pestilenze, alle scorrerie dei saraceni, ai continui morsi della fame, non sempre domata da qualche provvidenziale tozzo di pane.

Per queste persone andare a Napoli (la capitale del Regno) costituiva, sia sotto i Normanni, gli Angioini, gli Aragonesi, i Borbone, un miraggio lontanissimo; già lo era per coloro che, abitando nell’entroterra (Galatina, Cutrofiano, Collepasso ecc.) si recavano a mare, che distava appena dieci-venti chilometri. Almeno l’80% della popolazione salentina delle zone interne moriva senza aver mai visto il mare! Figuriamoci andare a Napoli!

Santa Maria al Bagno panoramica

Sino alla metà del secolo scorso il solo recarvisi rappresentava un’impresa eccezionale (altro che viaggio sulla Luna!), al punto che i nostri progenitori erano soliti far testamento prima di partire, così poco sicuri si sentivano di poterne ritornare.

Situati così lontano dai grandi centri, senza possibilità di traffici e commerci di un certo peso e respiro, isolati e relegati giù in fondo al tacco d’Italia, gli abitanti del basso Salento, nella loro stragrande maggioranza, hanno trovato nell’agricoltura l’unica possibilità per vivere e sopravvivere.

L’agricoltura è stata pertanto considerata per secoli di gran lunga la maggiore risorsa; contadini, nella quasi totalità sono stati i nostri padri, e contadine le nostre donne; anche i sarti, i fabbri, i falegnami, gli artigiani in genere, persino i pochi pescatori, oltre che sul loro piccolo laboratorio di paese, oltre che sulla loro fragile barca, hanno fatto affidamento sul “pezzo di terra” da coltivare (quando si era fortunati a possederne almeno una decina di are). Anche i signori, anche i benestanti hanno ricavato dalla terra i principali proventi, le loro “fortune”, cedendo in fitto o a mezzadria i fondi e le masserie di loro proprietà, mentre se ne stavano in panciolle e in comode pantofole a godersi gli agi e i privilegi di una vita fatta di bagordi, feste, lussi in principesche abitazioni.

Ma il clima del Salento, che molto risente dell’influsso del mare, non è favorevole al buon andamento delle coltivazioni; questa terra è infatti aperta a tutti i venti, soprattutto a quelli secchi e freddi provenienti da nord-est, come la tramontana; o caldi e umidi, da sud-est, come lo scirocco.

Santa maria di Leuca – Il porto

L’autunno e l’inverno sono caratterizzati da una considerevole instabilità per l’alternarsi di correnti d’aria fredda e secca oppure calda e umida. Irregolari le piogge, spesso insistenti da novembre ad aprile, ma scarsissime negli altri mesi. Le precipitazioni nevose sono una rarità e coincidono generalmente nel mese di gennaio, dando al paesaggio un aspetto insolito e regalando ai ragazzi, se la nevicata è stata copiosa, una giornata di vacanza e d’allegria.

L’estate è ricca di sole, ma anche generalmente assai calda ed estremamente asciutta. Certe volte la terra sembra spaccarsi dopo mesi e mesi di aridità. Il 1988 è stato un anno particolarmente caldo e poco piovoso, con temperature che hanno toccato, nella seconda decade di luglio, addirittura i 44,5°C.

Scarsa, se non addirittura insignificante, l’idrografia. Annoveriamo, infatti, tra i fiumi o meglio i fiumiciattoli, l’Idume nel Leccese, l’Idro nell’Otrantino e il canale dell’Asso nella zona di Collepasso-Galatina. I laghi Alimini e le Cesine non possono dare un contributo cospicuo all’irrigazione in quanto situati in zone decentrate o scarsamente abitate.

Torre Torre Vado

Il Salento è veramente povero d’acqua, a causa della natura calcarea del suolo, che, non trattenendo le acque piovane in superficie, le assorbe rapidamente e dà luogo, con misteriosi fiumi sotterranei, a quei fenomeni carsici, come le grotte, ricche di stalattiti e stalagmiti, che spesso vengono alla luce per puro caso.

Con poca terra e tanti sassi, il contadino di un tempo ha dissodato con la zappa e l’aratro pazientemente il proprio terreno ed anche quello del padrone; ha raccolto tutte le pietre, costruendo un labirinto inestricabile di muretti a secco con abile e meticolosa maestria ed elevando innumerevoli “furnieddhri” o “pajare” (sorta di semplici casette rustiche a tronco di cono o tronco di piramide, utili per ripararsi e depositare attrezzi o prodotti agricoli ma anche per proteggere animali); ha scavato pozzi e cisterne, per attingere o raccogliere l’acqua, sempre scarsa e quindi preziosissima.

Torre Minervino – prima della ricostruzione

Tenace, forte e umile lavoratore, il contadino salentino ha saputo pian piano sottrarre alla macchia vasti tratti di territorio, coltivandolo a cereali, legumi, ortaggi e, recentemente, a tabacco. Dove, però, il terreno era aspro e duro ha preferito piantare alberi di fico, d’ulivo, di mandorlo e di fico d’India. Nelle terre più fertili si notano ancor oggi estesi vigneti che fanno del Salento una delle zone d’Italia più rinomate.

Ma il contadino salentino, come del resto quello meridionale, è, purtroppo, anche fatalista, superstizioso e facilmente si rassegna al sopraggiungere di certe situazioni avverse. Molte volte, implorando il cielo e raccomandandosi al Padreterno, si è sentito dire ai nostri vecchi contadini, nella speranza di ottenere un buon raccolto: ”Se vole Ddiu!”. Così come, dopo una violenta grandinata, che ha distrutto e vanificato un intero anno di duro lavoro, si è sentito dire, con una punta di amarezza e di dolore: ”Fazza Dddiu!”.

Torre di Acquarica del Capo

I progressi sono stati lenti e a volte insignificanti. L’arretratezza in ogni campo del vivere sociale non ha infatti permesso di stare al passo con le regioni settentrionali, molto più evolute (almeno così si dice) di quelle meridionali. L’analfabetismo, un tempo rilevante, ha fatto da freno a quei pochi stimoli che timidamente germogliavano all’inizio del secolo. L’avvento della luce elettrica, l’acquedotto pugliese, la ferrovia Sud-Est, il miglioramento della viabilità, il diffondersi dei mezzi meccanici, la radio prima e la televisione poi, hanno pian piano modificato la nostra terra, sottraendola a quell’immobilismo grigio e preoccupante di un tempo.

Torre Pali

Oggi, grazie alle migliorate condizioni sociali, economiche, culturali ed umane, possiamo stare alla pari di tante altre zone d’Italia che vanno per la maggiore. Ma, onestamente, c’è ancora da lavorare, soprattutto dal punto di vista della mentalità, rimasta in alcune fasce sociali ancorata ai vecchi schemi di vita. Tale modesto “gap” è però ampiamente superato dall’innata cordialità e dalla generosità con cui la gente salentina accoglie chiunque, soprattutto i turisti.

Ad meliora, a tutti!