La Torre della Dannata

La Torre di

Santa Maria dell’Alto

La superba struttura è ubicata su uno sperone roccioso a nord-est della cittadina balneare di Santa Caterina, da dove domina il mare, da Gallipoli sino alla baia di Porto Selvaggio

di Piero Tre

Come tutte le torri costiere salentine, anche quella di Santa Maria dell’Alto fu edificata da Re Carlo d’Angiò, verso la fine del secolo XVI, per salvaguardare le popolazioni rivierasche dalle continue incursioni di pirati e di saraceni, che, oltre a saccheggiare e depredare i villaggi e le masserie, sequestravano uomini e donne in età giovanile per venderli come schiavi sui mercati del bacino del Mediterraneo.

Proprio per questo motivo sulle coste joniche ed adriatiche del Salento non si trovavano insediamenti urbani, ad eccezione di Gallipoli ed Otranto, che, essendo ben protette dalla conformazione della costa, erano al riparo da eventuali attacchi a sorpresa.

La torre di Santa Maria dell’Alto, chiamata anche torre della Dannata o del Salto della Capra, comunica visivamente con la torre di Santa Caterina a sud e con la torre Uluzzo a nord.

Il progetto di dotare tutta la costa salentina di torri di avvistamento ebbe inizio sin dal febbraio 1568, come si deduce da una lettera ritrovata nell’Archivio di Stato di Napoli, in cui il Viceré don Parafan de Ribera ne fa espresso riferimento al Presidente della Regia Camera della Summaria, Alfonso Salazar. Si riportano alcune parti della missiva: “Negli anni et mesi passati per servitio di S. Maestà defensione et guardia de li popoli di questo Regno, et per virtù di detti nostri ordini si sono fabbricate alcune torri et altre restano a farsi, et quelle che sono fatte intendemo che bisognano visitarse di si stanno bene complite et ben fatte. Febbraio 1568. Don Parafan”.

In seguito, alcuni regi intendenti giunsero nella nostra provincia per effettuare un’attenta ricognizione dei territori da sottoporre a controllo e scegliere quelli su cui edificare le torri.

Nei pressi dell’attuale cittadina balneare di Santa Caterina, a pochi chilometri da Nardò, fu individuato uno sperone roccioso, che si affaccia sulla baia di Porto Selvaggio. La zona, oltre ad essere incantevole per natura, offre un’accurata osservazione di un lungo tratto di mare che, partendo da Gallipoli, arriva alla torre Uluzzo.

Anche la torre di Santa Maria dell’Alto, al pari delle altre torri, fu dotata di alcuni falconetti a canna lunga e di schioppi, da usare all’occorrenza, come da dispaccio dello stesso Vicerè con il quale si ordinava il prelievo delle armi dal castello di Lecce: “Havendo fatto costruire nelle marine del regno alcune torri per guardia di quelle et per dar l’avisi necessari quando capitassero nelli mari del regno predetto alcuni vascelli d’infedeli, ci è parso affalché stiano provviste, come et li soldati che risedono in quelle oltre di dare detti avvisi, si possono difendere, et obviare alli danni, che si potriano commettere per detti infedeli, provvedere et ordinare che siano provviste di alcuni pezzi d’artiglieria de metallo, et per adesso fare provedere delli prezzi predetti l’infrascritte torri de le marine de le provincie di Terra d’Otranto […] ordiniamo che al ricevere di questa senza perder momento di tempo dobbiate fare il partito di metallo, et altre prezzo che potrete, et le farete costruire con ogni prestezza affalché si possano consegnare in dette torri…Datum Neapoli die X Septembris 1569”.

Sta di fatto, però, che le armi furono consegnate soltanto nel 1614.

La costruzione della torre di Santa Maria dell’Alto fu affidata al maestro neritino Angelo Spalletta, che iniziò i lavori intorno al 1570. Il progetto prevedeva la realizzazione di un piano terra con la cisterna, il deposito e la stalla; di un primo piano, dotato anche di un camino, dove alloggiavano il caporale e i soldati; ed infine, all’ultimo livello, la guardiola, posta sulla terrazza, da cui si poteva effettuare l’avvistamento e si poteva sparare con i falconetti contro le imbarcazioni piratesche.

Si era entrati nel 1594 e lo Spalletta, non avendo ancora ricevuto l’importo pattuito, si rifiutò di riparare alcuni difetti che si erano manifestati durante la costruzione. Il 5 agosto dello stesso anno i lavori di restauro furono assegnati al maestro neritino Antonio Lupo Mergola.

L’anno successivo, come si evince dai rogiti del notaio Cornelio Tollemeto, il sindaco del popolo Bernorio Caballone consegnò la torre a Giacomo Sassone, che vi restò, in qualità di caporale, sino a novembre 1598. Gli subentrò nella carica il congiunto Giovanni Donato Sassone, per restarvi fino all’aprile del 1601, quando cedette il passo ad un altro parente, Lucrezio Sassone, il quale ricoprì l’incarico per ben dieci anni, sino all’8 giugno 1611.

Nella seconda metà dello stesso secolo vi prestarono servizio soldati spagnoli, i cui nomi figurano nel Liber Mortuorum della Cattedrale.

Forme di commercio illegale, di banditismo e vari altri fenomeni criminosi, tipici di una malavita di stampo più che altro corsaro, si verificarono tra il ‘600 e il ‘700 sulle coste salentine, tanto che le autorità si videro costrette ad emanare severe istruzioni e a costituire un “battaglione”, ossia una milizia territoriale capace di accorrere tempestivamente nei luoghi ove i turchi o i pirati erano approdati. Il battaglione venne affiancato anche da una compagnia di cavalleria, detta “Sacchetta”, che si rivelò un mezzo assai efficace per combattere turchi e corsari. Ma ormai da tempo i costi della difesa erano diventati altissimi in denaro e in vite umane, mentre intanto l’economia stessa languiva, poiché la vita era incerta e il commercio via mare era diventato quasi inesistente. Per tale motivo le difese delle torri andarono un po’ scemando, ma l’attenzione fu sempre alta in questi luoghi.

I cavallari erano costretti, sia di giorno sia di notte, a spostarsi in lungo e in largo sul litorale per cogliere eventuali pirati sfuggiti all’avvistamento. Una volta individuata un’imbarcazione poco affidabile, era trasmesso dall’alto della torre un messaggio mediante segnali di fumo o di fuoco, a seconda che ci si trovasse di giorno o di notte. Al tempo stesso, un cavallaro, si recava a spron battuto nella città di appartenenza della torre per avvisare le autorità dell’imminente sbarco.

Di tutti i vari cavallari che si sono succeduti nel tempo, siamo riusciti a rintracciare solo due, e precisamente: Felice Varri, nel 1730 e nel il neritino Nicola De Simone nel 1777.

La storiella della “dannata”

A questa maestosa torre sono legate alcune drammatiche storielle, che, però, non sono supportate da documentazione storica. Va detto che, forse, qualcosa di vero ci sarà stata. Ve ne raccontiamo soltanto una, quella più verosimile.

La storiella riguarda una giovane donna, Angela, figlia di un massaro, che era prossima al matrimonio con Guido, figlio di un altro massaro. Un amore nato spontaneamente tra i due giovani e non imposto dai rispettivi genitori. I poderi dei futuri sposi confinavano fra loro ed erano situati nelle vicinanze della torre di Santa Maria dell’Alto.

Purtroppo, come spesso accadeva a quell’epoca, le giovani spose, soprattutto se belle, erano costrette a soddisfare le voglie del feudatario nella prima notte di matrimonio. In pratica, vigeva lo jus primae noctis, del quale abbiamo esaurientemente parlato qualche anno fa sulle colonne di questa rivista.

Il feudatario di Nardò era il famigerato e perfido conte Gian Girolamo Acquaviva, storpio sin dalla nascita e guercio, che s’era invaghito della giovane sposa. Per tale ragione aveva inviato due fidati sbirri a presentare ai genitori della sposa l’indecente richiesta. Nella masseria i due avevano incontrato sull’uscio del portone il padre della ragazza, che, nel vederli, aveva avuto un brutto presentimento.

Vogliamo farvi presente che Nostro Signore, il conte Gian Girolamo Acquaviva, pretende che la di voi figlia, prossima sposa, sia accompagnata, dopo il matrimonio al palazzo ducale per trascorrere la notte in compagnia del conte, come usi e costumi pretendono”.

Maaah!…” – ebbe a rispondere il massaro, con voce incerta e tremula.

La dannata

Non ci sono né se e né ma!…” – ribatté quello con tono severo – “…Rispettate i patti e vostra figlia avrà la benedizione della Madonna e, soprattutto, del Conte. Subito dopo che vostra figlia si marita, verrà una carrozza a condurla al palazzo di Nardò”.

Dopo di che i due, senza neanche salutare, si allontanarono al galoppo.

La moglie, che si trovava a poca distanza, aveva intuito ogni cosa e s’affrettò a raggiungere il marito, che era rimasto pensoso a capo chino. La donna non fece in tempo ad aprire bocca, che il marito l’aveva già abbracciata, stringendola in una morsa di rabbia e di sconforto.

Dimmi, che non è vero, Luigi!… dimmi che quelle due bestie t’hanno chiesto ben altro!… Che nostra figlia si sposerà con i sacramenti e che non le sarà torto un capello! … Dimmelo, ti prego!” – gli urlò la moglie Assunta.

Luigi rimase in silenzio per pochi istanti e poi, con palpabile emozione pronunciò a stento alcune parole.

Devi parlarle, Assunta,… devi convincere Angela, altrimenti per lei e per noi sarà finita!”.

Rimasero avvinghiati per molto tempo, senza che nessuno dei due pronunciasse una sola parola. Durante la notte i coniugi ritornarono a discuterne. Decisero che, per il bene di tutti, la figlia avrebbe dovuto accettare, anche se malvolentieri, la proposta del conte.

Il giorno precedente il matrimonio, Angela si svegliò di prima mattina. La giovane, per la forte emozione non aveva chiuso occhio per l’intera notte. Riscaldò dell’acqua in abbondanza e s’immerse nella tinozza a farsi il bagno. Si beava e già immaginava le tante coccole ed i baci ardenti che il suo Guido le avrebbe dato.

La madre, che non le aveva ancora comunicato nulla, osservava le splendide fattezze della figlia e le veniva da piangere, al solo pensare che, da lì a poche ore, quel bocciolo di rosa sarebbe finito nelle grinfie dell’ingrato conte.

La chiamò a sé, l’avvolse in un lenzuolo di cotone per asciugarla, la fece sedere e cominciò a pettinarle i lunghi capelli neri. Approfittò della situazione per raccontarle l’oscuro e meschino disegno dell’Acquaviva

Sai, Angela, il conte Gian Girolamo gradirebbe conoscerti subito dopo il matrimonio!… Forse intende regalarti qualcosa… lui è stato sempre premuroso con noi altri” – disse la donna con il cuore a pezzi.

“Cosa!?!… Io da lui non ci andrò mai!…” –  ribatté aspramente la ragazza, avendo capito la frase sibillina della madre – “…Ho prestato giuramento sul Vangelo e nelle mani di don Nicola che sarò moglie fedele sino a che morte non mi separi da Guido… Quel bastardo non mi avrà mai!”.

E si sciolse in un pianto irrefrenabile.

La madre tentò in ogni modo di calmarla. L’accarezzò e l’abbracciò più volte, poi continuò a pettinarla dolcemente e ad avere per lei dolci e rassicuranti parole.

Angela era sconvolta interiormente, ma non intendeva più rispondere ai miti e persuadenti consigli della madre. Ad Assunta quel silenzio sembrò più che altro un assenso, anche se non gradito.

Angela trascorse la notte in preda ad un furore incontrollabile. Poi, prima che facesse alba, decise di farla finita. Senza fare alcun rumore, prese l’abito da sposa e si allontanò dalla masseria per raggiungere la torre di Santa Maria dell’Alto e lanciarsi nel vuoto. Dopo poco la giovane era già sull’orlo del precipizio. Piangente, indossò l’abito da sposa, si fece più volte il segno della croce e cominciò a pregare.

Madre del Cielo, Madonna della luce

eccomi ai tuoi piedi, qui, prostrata

Vergine Maria che conosci ogni mistero

abbi pietà di quest’anima dannata.

Io muoio per amore e per fede a un uomo

Tu salvami dall’inferno Madre Santa

Tu dammi pace lì dov’è l’Eterno

Non lasciarmi morire sconsolata.

Giglio d’amore, madre del Signore

Porta del Cielo, potente imperatrice

ascolta la mia preghiera, ti scongiuro

avvolgi nel tuo mantello il mio dolore.

Un ultimo sguardo all’immensità del mare e al cielo che già iniziava ad indorarsi coi primi raggi del sole e si lasciò andare nel vuoto a braccia aperte, invocando il nome di Maria.

Raccontano i pescatori che nei giorni in cui dal mare si leva una leggera brezza, si ode, intorno a quella rupe, il canto melodioso della giovane, che preferì togliersi la vita, piuttosto che darla all’infido e brutale conte.