Tarantismo oggi

 

Quando inoltrai agli amici del Circolo “Athena” il mio più recente scritto sul tarantismo, un lettore, di cui non ricordo il nome, mi scrisse:

«Mi viene in mente una cosa anche se non direttamente collegata ai contenuti dello scritto di Maurizio. Da ventenne, mentre raccoglievo delle stoppie in campagna, fui punto al braccio da un qualche animaletto che oltre ad un considerevole bruciore e dolore mi lasciò sul braccio e anche dentro la ferita una sostanza gelatinosa e profondamente appiccicosa che faticai anche a ripulire. Forse si trattava di una scolopendra ma non potetti vederla. Benché fossi a conoscenza del fenomeno del tarantismo non stabilii un collegamento perché non ero fondamentalmente immerso in quella cultura, quindi non mi sognai mai di diventare un “tarantato”. Pochi anni dopo insieme ad alcuni amici ripescavamo canti e tradizioni del tarantismo locale e ce ne interessavamo dunque di più. Uno di questi amici fu punto da un ragno durante un campeggio estivo in tenda, al mare, e da quel momento con profonda convinzione divenne un “tarantato” assorbendo movenze, rituali etc.».

L’amico, a proposito di quanto gli accadde quando era ancora giovane, scrive che quello che ricordava poteva «non essere direttamente collegato ai contenuti» del mio scritto. Al contrario, quello che egli dice è fondamentale per me, perché è la conferma di quante illazioni si sono fatte e si fanno intorno al fenomeno della sofferenza e della gioia di vivere. La conferma sta nel fatto che il fenomeno è esistito veramente e che Ernesto de Martino è riuscito, col suo libro La terra del rimorso (1961), a dare un senso alla dimensione umana e letteraria del Salento, una terra per tanti versi magica ed enigmatica.

Nel mio scritto, ho messo in rilievo il cruccio che oggi mi porto dietro. Dopo decenni di studi sul fenomeno, non ho considerato un passaggio importante avvenuto al suo interno, cioè il codice o, se volete, le modalità con le quali le tarantate/i si “trasmettevano” il loro modus vivendi. Tutti gli studiosi sia interni che esterni al Salento, ovviamente compreso il sottoscritto e Luigi Chiriatti, non ci siamo posti la domanda: perché una tarantata di Nardò viveva il suo modo di essere tale, quando contemporaneamente a lei, a Cerfignano, ce n’era un’altra con lo stesso problema? Un motivo ci sarà pure stato. Per quanto mi riguarda, ho approfondito altri aspetti ritenuti importanti dentro il fenomeno. Anche gli altri studiosi hanno fatto altrettanto. Tutti però abbiamo rivolto il nostro sguardo soprattutto al ritmo (iatromusica, musica terapeutica)  e poi alla danza, anch’essa terapeutica, ai colori, ai canti, a san Paolo, alla tarantola (Ischnocolus, Tarantula lycosa, Latrotectus tredecim guttatus), ecc.

Vincenzo Congedo . Tarantismo

Oggi, a distanza di più di qualche decennio da quegli studi, la situazione è del tutto mutata. Il rito terapeutico domiciliare non c’è più o, quanto meno, si è sotterrato; non ci sono più le tarantate/i che si recavano nella cappella sconsacrata di san Paolo a Galatina per chiedere la “grazia” al santo; non ci sono più i traini che le trasportavano da un centro qualsiasi del Salento verso la città (Galatina) protetta dalla civetta e da san Paolo. Anticamente, però, non era Paolo di Tarso il santo protettore quanto, invece, molto probabilmente la divinità Athena (per i latini Minerva), dato che gli attributi sono per entrambi simili. Da notare che oggi non ci sono più tante altre situazioni che rendevano visibile il fenomeno. Tutto ciò è stato sostituito da La notte della Taranta a Melpignano che, ogni anno, nel mese di agosto, raccoglie centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo e, del fenomeno, spettacolarizza solo il ritmo della danza di corteggiamento (pizzica de core). È questo un altro aspetto del fenomeno, secondo me fondamentale. Ci sono in giro molti critici de La notte della taranta, non intendo biasimarli, affatto. Anzi. Dico loro che quanto si effettua nel mese di agosto, dal 1998 ad oggi, è un bene per questa terra dimenticata da Dio e dalle genti che qui ci vivono. Verrà un giorno in cui diremo che La notte della taranta è stata come una sorta di manna caduta del cielo.

Poi c’è pure dell’altro. Ad esempio c’è l’Unesco (club di Galatina), che da alcuni anni, durante la settimana delle festività dei santi patroni della citta (san Pietro e san Paolo) allestisce una sorta di performance che riprende il rito del tarantismo e lo ripropone in forma spettacolare. Anche questo è meglio che niente. Per il resto le forme del tarantismo quale fenomeno della sofferenza sembrano essere state sepolte. Tuttavia va ricordato che è tipico di questo fenomeno sommergersi, anche per secoli, per poi riapparire in una certa data insospettata e in forme del tutto differenti, se pur comunque sempre rifacendosi all’archè.

Oggi, dopo la pandemia di Covid 2019 e la velocizzazione dello sviluppo tecnologico, il mondo ci appare irriconoscibile, soprattutto è saltato il modus vivendi dei rapporti umani e sociali, divenuti per lo più virtuali (immateriali e fisicamente distanziati), un modo di essere che non ha più nulla a che vedere con quanto l’umanità era stata abituata a fare fino al dicembre 2019. Evidente è lo stravolgimento delle categorie mentali di ognuno di noi, quelle filosofiche, religiose, temporali. È ovvio che in queste categorie è compreso il fenomeno del tarantismo.

Molti comportamenti sono stati modificati radicalmente e una buona parte della popolazione mondiale  è stata indotta a trincerarsi in casa. Tale autoreclusione ha cambiato la vita di ognuno di noi e, con essa, il modo di rapportarci agli altri, con gli amici lontani o vicini, le persone care, che non abbiamo incontrato per mesi e che tuttora stentiamo a incontrare. Non uscire di casa (autoisolarsi) significa modi di essere psichici differenziati, ricerca del proprio Sé diverso da quello precedente all’aggressione del virus e, soprattutto, precipizio della soglia psicologica equilibratrice dello stato normale di vita. Si tratta cioè – chi più chi meno – di entrare in uno stato alterato di coscienza non indotto da agenti patogeni esterni ma da un agente interno a noi stessi: la paura.

Dobbiamo convincerci che per il prossimo avvenire (lontano o vicino che sia) le cose del mondo non cambieranno tanto facilmente e che nulla sarà più come prima. Saranno pure le guerre in corso che ci costringeranno a questa nuova irresponsabile situazione, che rischia di risolversi malauguratamente con una guerra nucleare, che potrebbe provocare l’estinzione dell’umanità sulla Terra. Per cui, vale per noi e soprattutto per i giovani studiosi che verranno, cercare di capire, dando nuove risposte interpretative al fenomeno del tarantismo. Scoprire, ad es., quale sia stato il codice di trasmissione o le modalità con le quali una tarantata/o ha saputo del fenomeno. Nel doc. film di Annabella Miscuglio, Morso d’amore (1981), qualcosa lascia trapelare Noemi di Uggiano La Chiesa, ma non è facile coglierne la sostanza.

Credo che ormai sia acquisizione generale per i salentini la condizione storico-socio-culturale del nostro territorio, come pure la fenomenologia legata al mito della taranta, il percorso umano e culturale che ognuno di noi compie come tentativo di riappropriazione delle proprie origini e della propria identità, in un certo senso come tentativo virtuale di ritornare alla casa del padre e della madre, che altro non è se non la Casa (Grotta) della Grande Madre Mediterranea (la Dea-Protettrice che vediamo nelle minuscole Veneri paleolitiche, quelle di osso della Grotta delle Veneri di Parabita. Per noi salentini è importante l’archè della Grande Madre, perché, una volta scoperta o ri-scoperta, ci induce ad una sorta di trance, uno stato modificato di coscienza (Lapassade), che ci fa vivere o ri-vivere un qualsiasi stato morboso. Una sorta di ri-morso (per dirla con de Martino) che ci porta inevitabilmente alla Grande Madre preistorica, amata e temuta, che dava la vita e poi la toglieva, recidendo con forbici cosmiche il filo “a spirale” del destino. Appunto come fa la tarantola con la sua tela, dove essa kama, ri-kama, la distende, la tira a trappola mortale. E chi ri-kama quel filo della vita è sempre la Grande Madre Terra (il Grande Ragno Divino), tessitrice immortale. Attraverso il grembo materno, ci tocca nascere senza che noi stessi vogliamo o decidiamo tale incredibile evento ma, una volta nati, abbiamo certezza dell’esistenza della Signora in nero (la morte e, per certi versi, la taranta), che ad un certo momento (anche questo non deciso da noi) ci presenterà le sue credenziali e ci rapirà come meglio crederà.

È per me sorprendente constatare come dei salentini, che vivono soprattutto la condizione dell’emigrazione intellettuale moderna, ad un certo punto della loro vita sentano forte il bisogno dell’identità, il bisogno di ri-ancorarsi a qualcosa di certo, di definitivo e di determinato. Ed in ognuno di noi che cosa c’è di più certo e di più concreto se non il luogo e la data della propria venuta al mondo?

Ho conosciuto il grande etnologo ed etnografo Georges Lapassade. Grande è stato il suo contributo alla ri-scoperta della fenomenologia insita nella Terra del rimorso (Salento), soprattutto quella relativa alla comprensione dei fenomeni che ruotano intorno alla trance e al tarantismo. Lo cito qui perché è stato proprio lui a farmi prendere coscienza della forza del mito della taranta, tanto da indurmi a scrivere, in un testo che riprende un capitolo del libro di Luigi Chiriatti, Morso d’amore, che s’intitola Il ‘canto’ di Cristina è la chiave moderna del fenomeno del tarantismo”, la seguente affermazione:

«In Salento […] è codificato un motivo ancestrale della storia degli umani che vivono in questi luoghi […], è codificato cioè

l’humus organico di una terra antica e mitica, che ancora oggi, nell’epoca della computerizzazione e informatizzazione generalizzata, riesce a nascondere gli intimi segreti dell’anima di un popolo […] Il morso ed il ri-morso della taranta salentina sono come una chiave, quella appunto della vita e della morte della gente che vive in Salento, una sub-regione che resta mitica…», una terra ancorata e determinata, come sempre è la terra dei padri e delle madri, che noi salentini sentiamo soprattutto come la terra/pietra della Grande Madre Mediterranea, della Grande Grotta, del Grande Utero, dentro al quale l’Uovo della vita è protetto e si sviluppa in armonia con le forze della Natura.

Questa considerazione vale per il Salento pugliese e per uno dei suoi fenomeni più appariscenti, il tarantismo, ma, con le dovute specificità, vale anche per tutte le altre regioni del pianeta. Si tratta spesso del rapporto origini-terra e del momento e del modo e dell’espressione attraverso cui ogni singolo umano prende coscienza dei luoghi prediletti. Chiara e visibile è la forza del Mito attraverso il ritmo (pizzica) della taranta. Si tratta della forza dell’ancestrale che si muove e si modifica attraverso i movimenti sociali e le metamorfosi che il fenomeno della sofferenza salentina assume in funzione delle modificazioni della società.