GENTE DI MARE

di  Valentina Vantaggiato

Come ricordare il Salento senza fare riferimento al suo splendido mare? Come sarebbero i depliant turistici della zona senza le magnifiche immagini dei nostri litorali? E come sarebbe stata la storia salentina se il mare non avesse portato sulle nostre coste etnie e culture diverse e per questo incredibilmente affascinanti?

La tradizione marinara si è radicata in quelle popolazioni che hanno abitato i paesi costieri e ha assunto caratteri e forme che hanno arricchito il nostro bagaglio conoscitivo. Non mi soffermerò a parlare del mare, piuttosto cercherò di tracciare un profilo sulla sua “gente”, su coloro che ieri, come oggi, vivevano grazie ai suoi frutti. Per fare ciò, mi sono avvalsa degli studi fatti dal prof. Antonio Corchia il quale, negli anni ’40, ha condotto numerose ricerche sugli usi e costumi della “gente di mare” della sua città natia, Otranto.

Santa Caterina di Nardò (LE) – Barche di pescatori all’ormeggio

Nel periodo preso in questione, i pescatori otrantini, quando non erano sulle loro barche, vivevano nel centro storico in abitazioni assai modeste. “Abituati ad una vita di strapazzi, di sacrifici, di cenci e di veglie continue, si accontentano di poco pur di posare le membra stanche da un lavoro che logora come può logorare l’acqua del mare“, scriveva il prof. Corchia.

Per un passante che percorreva i vicoli del centro era facile individuare tali dimore perché, all’esterno, si potevano scorgere reti, canne da pesca e quant’altro servisse a questi uomini per il loro lavoro.

L’interno delle suddette abitazioni era provvisto al massimo di due stanze, cucina e camera da letto. La mobilia era scarna e povera nei materiali. Il guardaroba dei pescatori comprendeva solo pantaloni logori che loro arrotolavano fino al ginocchio, un maglione di lana, un panciotto, un berretto pesante. Non usavano le scarpe, neanche in inverno.

L’alimentazione era basata sempre su ciò che riuscivano a portare a casa dopo una giornata di pesca: “brodo alla marinara”, pesce in umido o arrostito, insaporito con vari aromi e quasi mai con olio, perché troppo costoso. Se gli uomini tornavano a casa a mani vuote, le donne cucinavano le “scivature”, i piccoli pesciolini che erano serviti come esca e che erano avanzati. I pescatori lavoravano quasi sempre di notte e tutta la famiglia attendeva il loro ritorno per consumare il pasto.

La seconda casa del pescatore era la barca che rappresentava per lui la vita stessa, l’unica fonte di sostentamento e la sola possibilità per sopravvivere. Si creava una sorta di adorazione verso di essa e ciò si può evincere dai nomi che si era soliti dare alle imbarcazioni, richiamanti persone care o santi: “Stella del Mare“, “Veneranda“, “Giuseppina“, “Santa Maria“, per citarne alcuni.

Il battesimo delle barche era per i pescatori un momento sacro. Dopo che il sacerdote ne benediceva il legno, il padrino rompeva una bottiglia di vino. Se le possibilità economiche lo consentivano, venivano distribuiti dei dolci e dei liquori a tutti i presenti.

L’arte della pesca si tramandava di padre in figlio, così anche tutti i termini marinari e i luoghi in cui si sarebbe dovuto trovare più pesce. Ogni pescatore custodiva gelosamente i suoi segreti.

Il pescato veniva venduto ai rigattieri e il guadagno veniva spartito equamente tra tutti coloro che avevano partecipato alla pesca. Solo il proprietario dell’imbarcazione prendeva una percentuale più alta, tre parti in più. Se il pescato era stato abbondante, un tot veniva trattenuto e diviso tra i pescatori. Dopo aver fatto un sorteggio, ai più fortunati spettava la parte migliore. Spesse volte il pesce veniva venduto direttamente dai pescatori sul molo o scambiato con merci di altro genere.

Un altro fattore importante per questa gente era quello spirituale. Molte preghiere sono state composte dai pescatori, i quali le recitavano alla partenza. Quando si compivano dei piccoli riti o dei gesti scaramantici prima di prendere il largo, al fine di allontanare le negatività, il sacro si mischiava al profano. Grande devozione era rivolta verso la Madonna dell’Alto Mare, “la cui chiesetta s’innalza sul dorso della collina digradante fino al mare, chiamata Punta” (A.C.).

Gabriele piccolo pescatore gallipolino

La “gente di mare” aveva imparato a presagire il tempo osservando il cielo e, secondo i fenomeni, aveva inventato una serie di massime che ancora oggi si usano: “celu russu, o acqua o ientu o frusciu” (cielo rosso porta pioggia o vento), “quandu lu sciroccu ride, è cchiu scemu ci lu cride” (lo scirocco che soffia forte e cala la sera dura poco), “luna tisa, marinaru curcato; luna curcata, marinaru llerta” (con la luna splendente non è tempo di pesca).

C’è tutto un mondo dietro a questo mestiere. Molto si è scritto sulla gente di mare e molto si è cantato. Anche il grande Ernest Hemingway, nel suo “Il vecchio e il mare“, ha voluto fissare su carta ciò che siamo abituati a vedere, ma forse non a “sentire”. Lo scrittore racconta l’amore che lega un anziano pescatore, Santiago, al mare e al suo lavoro, nonostante sia faticoso e molte volte deludente. Dopo giorni e giorni passati sulla barca senza pescare niente, il vecchio Santiago pensò “forse non avrei dovuto fare il pescatore. Ma è per questo che sono nato“. Non riusciva ad odiare il mare per quello che non gli stava dando, non era capace di rinnegare ciò che più amava al mondo. “Il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvagie era perché non poteva evitarle“.

Il ritratto del pescatore di Hemingway ha fatto il giro del mondo, ma basta recarsi in un qualsiasi porto, su un qualunque molo, per incontrare un altro Santiago. Un Santiago che profuma di salsedine, di brezze leggere, di sole, di pioggia. Un Santiago che profuma di mare.