Cultura d’altri tempi

I CANTI DI RIVALSA E DI DISPETTO 

Espressione dei risentimenti degli innamorati

di Piero Vinsper

Molti, per comodità di studio, hanno suddiviso, a seconda del contenuto, i canti popolari in canti di lode, di disprezzo, di addio, di tormento, di desiderio, di fantasia, di amore, di odio. Ma come ci si poteva odiare in tempi in cui la miseria si tagliava a fette e la si usava come companatico, ammesso che la gente in casa avesse del pane. Come ci si poteva odiare, quando le case avevano porte comunicanti per una continua assistenza a bimbi, anziani e malati sia di giorno che di notte, dall’alba al tramonto. Come ci si poteva odiare quando tra compari e comari e tra vicini di casa si seguiva la consuetudine del baratto, nei rapporti sociali ed economici, all’insegna della parsimonia, del risparmio ma non della sordida avarizia.

Certo, quando c’è miseria, i motivi per litigare si presentano dodici volte al giorno; ma poi si risolve tutto lì nello spazio di pochi minuti ed ogni cosa ritorna come prima, anzi si rinsalda ancor più il vincolo dell’amore, dell’amicizia, della fratellanza.

Gruppo di musicanti

La stessa cosa succedeva tra fidanzati respinti e donne stizzose: fiumane di rimbrotti, di imprecazioni, di canti a dispetto. L’innamorato deluso mutava le lodi in frasi sprezzanti, “i nomignoli più aggraziati negli epiteti più volgari”. Ma bastava uno sguardo furtivo o un timido sorriso della donna amata nei suoi confronti ed allora ci si dimenticava di ciò che s’era detto e trionfava l’armonia dei sentimenti puri e delicati.

‘Nfàcciate alla fanèscia, scannapàpare,

recina de le pecure muccuse

Quandu te ‘nfacci tie ‘na fanèscia s’apre

e ti pàranu do’ fiette lindanuse

Affacciati alla finestra, scanna papere, regina delle pecore muccuse, (muccus, muco, moccio) mocciose; quando t’affacci tu si spalanca una finestra e appaiono due fiette, (flecta, treccia) trecce lindanuse (lens, lendis: lèndine, uovo di pidocchio), cioè piene di larve di pidocchio.

Pupa de tamburriddhru, occhi de sarda

nu’ tte cumbene mo’ scire milurda

Quandu t’azzi tie la matina all’arba

Ti cumbene ‘nu taddhru de cipuddhra

Chiamare una donna pupa di tamburello è l’offesa più grande che le si possa fare. Infatti, anticamente, sulle membrane dei tamburelli era disegnata una figura di donna; ebbene, per suonare il tamburello, bisogna battere sulla membrana le dita, il polso, la mano; quindi, fuor di metafora, lascio immaginare ai miei dodici lettori il significato di questa espressione. E poi dire alla donna che ha occhi di una sarda non è bello, perché sappiamo che le sarde hanno degli occhi piccolissimi. Ora a questa ragazza, quando si leva dal letto la mattina all’alba, si addice un bel fiore di cipolla.

Taddhru (θαλλός, germoglio, tallo, pollone) nel nostro dialetto significa fiore di cipolla nell’insieme. Infatti la cipuddhra ‘ntaddhrata presenta un fusto cilindrico, fistoloso, senza foglie, ingrossato verso la base. All’estremità superiore ha un’infiorescenza ad ombrella avvolta, nei primi stadi di sviluppo da una brattea, che successivamente si apre, suddividendosi in due o quattro parti. Quindi la donna ha un aspetto molto ma molto sgraziato.

Facce de fica ‘ncatastata

tieni lu core de ‘na tìcara furiusa

Si’ brutta se vai fore o se stai a casa

si’ brutta sei stai tisa o stai ssettata

A mmienzu ‘llu piettu to’ tieni ‘n’armata

‘nu puzzu vecchiu e ‘na cisterna usata

L’occhi tieni tie de cuccuvàscia

e la vucca face schifu quandu vasa

Hai la faccia simile ad un fico schiacciato. E qui bisogna fare una breve digressione. Quando i fichi secchi, dopo essere stati infornati, erano portati a casa, ancora caldi venivano messi nella capasa (καπάσα, grande vaso di terracotta, a due, tre o quattro manici). Però si badava bene a premerli con tutta la forza nel recipiente in modo da schiacciarli. E spesso succedeva che si mettevano i ragazzini nella capasa a premere con i piedi i fichi accatastati.

Mandolinata

Ha il cuore di una tigre infuriata. Sei brutta se vai in campagna o se rimani in casa; sei brutta se stai in piedi o seduta; nel tuo cuore trova albergo un’intera armata, un pozzo in cui non sorge più l’acqua e una cisterna da cui attingono l’acqua molte persone. Hai gli occhi simili a quelli di una cuccuvàscia (κουκκουβάγια, civetta) e la tua bocca fa schifo quando bacia.

La donna, invece, nei riguardi dell’innamorato un po’ mascalzoncello, usa, nell’inveire, un certo senso di velata pudicizia.

Nu’ tte ‘nnamurare de li cazhi tisi

ca su’ bbacanti comu la cannella

‘nnamùrate de cranu e de mascisi

se vo’ pporti lu mbastu a lla gunnella

E’ come se, forte della propria esperienza, fosse un ammonimento ad un’amica. Non ti innamorare di coloro che indossano i pantaloni ben stirati, dalle pieghe dritte, perché son vuoti come la cannella. Innamorati di quelli che coltivano il terreno a grano e a maggese, se vuoi portare il corpetto sulla gonnella.

Facce de cucùmbaru spaddhratu

culurita si’ cu llu zzambucu

Tie si’ la giovane ngraziata

ca t’àggiu mandatu iu e ‘nu mm’hai vulutu

Pe ttie tthre cose tegnu preparate

la chianca, lu chiantu e la campana.

A volte l’innamorato esagera nell’affermare che la sua ragazza ha la faccia di un cocomero spaddhratu, sformato, e il volto biancastro, pallido come i fiori bianchi del sambuco. E si capisce perché: le ha fatto la dichiarazione d’amore ed è stato respinto. E allora sbotta, ferito nei suoi sentimenti, col dire che ha già pronte tre cose: la pietra sepolcrale, il pianto e il suono a morte delle campane.

Cce ssi’ bbrutta, Ddiu tti manda peste

de rugna tti manda ‘na catasta

càncaru ‘n piettu e dulore ‘n testa

e la mèju farmacia cu nnu tti bbasta

Qui la questione si fa più seria e alla ragazza si augurano tutti i mali di questo mondo. Sei troppo brutta; che il Padreterno ti mandi tanta rogna da ricoprire tutto il tuo corpo; un cancro in seno ed una grande emicrania in modo che non ti bastino tutte le medicine che una farmacia ben fornita possa avere.

Macari ca te llavi trhbbi l’acqua

nu’ bbidi ca si’ nnivvra de natura

Se vai alla chiazza ciuvieddhri te ccatta

ca se te vide lu diàvvulu se ‘mpaura

Anche se ti lavi continuamente, thrubbi (dal fr. troubler), rendi torbida l’acqua. Non vedi che sei nera per natura; se vai al mercato ciuvieddhri (qui velles), nessuno ti compra; anche il diavolo, vedendoti, ha paura.

Nun boju amare no donna ci tesse

ca face lu tticchi tticchi a llu talaru

mena ‘na fila doi e poi sen ddesse

e sùbbito ve sse ‘mmira a llu specchiaru

A volte l’innamorato è un po’ calcolatore, perché non vuol prendere in moglie una donna che tesse al telaio saltuariamente, che fa sentire un ticchettio discontinuo al passaggio della spola tra l’ordito. Infatti, dopo aver tessuto un paio di fili di cotone, abbandona tutto e va ad ammirarsi allo specchio. Costei, certamente, non sarà una buona madre di famiglia.

Nu giurnu stava a punto de murire

l’anima ‘nnanzi Ddiu stava pe’ dare

tutte le donne vìnnera a bbidire

tu sula nu bbenisti titanna cane

E mi mandasti a dire cu lle vicine

ca vieni quando sienti le campane

Ma a ttie nu tti lu desi ‘stu piacere

ca pe’ ddispiettu to’ eppi a campare

Ora ti rimbrotta la ragazza, perché l’innamorato stava per morire, anzi era lì per lì per rendere la sua anima a Dio. Tutto il vicinato andò a fargli visita per rendersi conto del suo stato di salute. Soltanto lei, tiranna cane, non si presentò; però mandò a dire con le vicine che sarebbe venuta quando avrebbe sentito suonare le campane a morto. L’innamorato non gliela diede questa soddisfazione, perché, a suo dispetto, ebbe a campare.

Nun bboju amare no i longhi longhi

e lu caminatu loru a tinghi tanghi

Li longhi su’ ppe’ ccòjere le fiche

li curti su’ ppe’ fare magne le zzite

Mietitura

Forse perché ha avuto qualche delusione, questa donna, con parole pacate, sussurra: non voglio amare più gli uomini alti, né essere attratta dal loro incedere ciondoloni; i lunghi son buoni solo a raccogliere i fichi dall’albero, i bassi sono molto bassi a rendere grandi le future mogli.

Nu tte racordi quand’eri villana

ca scivi ccujendu cicore e zzanguni

mo’ ca t’ha’ fattu ‘nu scicchi de lana

vo’ cu tte chiàmanu signora madama

La ragazza ne ha fatta di strada! E si è montata, direi, un po’ la testa. Ma il giovane la tiene con i piedi per terra e le dice cantando: ti sei dimenticata di quand’eri una contadinotta e andavi raccogliendo cicorie e zzanguni (crespigni da campo). Ora che sei riuscita a farti un corpetto di lana vuoi essere chiamata signora madame.

La cicoria a cui si fa riferimento nel canto è la cicora cresta (κρεστός, amaro),  la cicoria selvatica, che ha un bel sapore amarognolo.

Bisogna fare un’altra considerazione. In un altro canto è stato citato il termine mbastu, qui il termine scicchi; tutti e due significano corpetto. Ma mentre il primo è un corpetto stretto in vita, il secondo è un corpetto stretto in vita sì, ma che scende un po’ più in giù lungo i fianchi.