La disfatta di Teutoburgo

Le grandi sconfitte di Roma. L’analisi storica spesso dimostra che si impara molto più dalle sconfitte che dalle facili vittorie. La storia di Roma è disseminata di scontri interminabili e battaglie cruente, alcune delle quali hanno visto le aquile romane non solo sconfitte ma esposte a vere catastrofi, con grande pericolo per la sopravvivenza sia della Roma repubblicana che di quella imperiale. Per esempio nel 216 A.C., durante la seconda guerra punica, la battaglia di Canne per opera di Annibale rappresentò davvero il rischio di totale distruzione della capitale, se solo il cartaginese avesse avuto l’ardire di attaccare direttamente il cuore dell’impero dopo aver sbaragliato l’esercito romano in Puglia. E che dire della sconfitta di Arausio nella Gallia meridionale, che nel 105 A.C. costò all’esercito romano una perdita di oltre 80 mila soldati e 40 mila civili al seguito. Considerando il numero di vittime sul campo, la disfatta di Teutoburgo è solo terza rispetto alle due summenzionate, tuttavia fu un evento dai riflessi enormi per le modalità estreme in cui ebbe a realizzarsi, tali da non lasciare all’esercito romano alcuna possibilità di scampo. Ovviamente nella considerazione postuma che si può fare delle varie dinamiche storiche è importante, come già detto, che chi sopravvive sappia imparare dalle proprie sconfitte e magari anche da quelle altrui.

La Germania sottomessa e la romanizzazione forzata. Sotto l’impero di Augusto Roma aveva consolidato l’ampliamento dei suoi domini in ogni direzione. Verso nord, nel cuore dell’Europa, dopo la conquista della Gallia per opera di Cesare, le legioni romane si erano spinte sempre più ad est oltre il Reno, controllando praticamente l’intera regione sino al fiume Elba. L’occupazione militare di questi territori, avvenuta tra il 12 e il 7 A.C., aveva comportato scontri di minore entità con varie tribù germaniche, ma in sostanza la progressiva romanizzazione aveva funzionato con le consuete modalità, con milizie variamente dislocate in opportuni punti strategici della regione, e la collaborazione a diversi livelli con le popolazioni locali, con la concessione della cittadinanza romana a rappresentanti delle élites locali disposti a riconoscere l’autorità imperiale e in qualche modo condividerla. A garanzia di tali rapporti esisteva l’obbligo per la popolazione germanica di una tassazione, piuttosto pesante e mal tollerata, a favore delle casse imperiali, e soprattutto vi era l’inclusione nelle file dell’esercito romano di soldati nativi disposti ad arruolarsi sotto le insegne di Roma. Naturalmente questa disponibilità a collaborare non era ugualmente condivisa da tutte le tribù germaniche, alcune delle quali rimanevano riottosamente ostili, seppur evitando scontri e attacchi campali.

La designazione di Varo come Legatus imperiale. Questa situazione di apparentemente tranquilla convivenza giunse a una svolta nel 7 D.C., allorché l’imperatore decise di nominare suo luogotenente in Germania Publio Quintilio Varo, un patrizio romano appartenente a una famiglia nobile seppur decaduta, che aveva fatto notevoli progressi di carriera grazie al ben- volere di Augusto, con cui era imparentato. Prima dell’incarico in Germania, Varo era stato proconsole in Siria, dove aveva sostanzialmente operato in ambito amministrativo, senza dover fronteggiare operazioni militari di grosso impegno. Nella sua designazione Augusto era stato indotto in errore sia da una sopravvalutazione delle capacità militari del suo protetto, ma anche dalla ben dissimulata apparenza di sottomissione dimostrata della maggioranza delle tribù germaniche. In sostanza Varo era convinto che il suo compito principale consistesse nell’imporre maggiori tributi da inviare alla capitale. Pertanto il suo atteggiamento da dominatore assoluto ebbe l’effetto di alienare ulteriormente una popolazione già incline alla ribellione.

Cartina

La spedizione esplorativa della provincia germanica. Com’era consuetudine nelle terre di recente incorporazione, durante le fasi estive il governatore eseguiva delle spedizioni periodiche, con l’obiettivo di affermare il potere romano e stabilire il nuovo sistema amministrativo. Durante la primavera dell’anno 9 D.C. Varo organizzò le sue forze militari per iniziare una campagna che lo avrebbe tenuto occupato tutta l’estate e l’avrebbe portato ad est fino a territori poco conosciuti e scarsamente controllati. La sua convinzione era che si trattasse di una missione di routine, nella quale, oltre a riscuotere le imposte e ad amministrare la giustizia, avrebbe passato in rassegna e integrato le guarnigioni situate sulla sponda destra del Reno. Inoltre, ove necessario, avrebbe intrapreso azioni punitive nei confronti delle tribù più restie al dominio romano. La pochezza strategica di Varo si basava su una presunta superiorità delle forze militari che egli aveva al suo comando, ossia ben tre legioni (la XVII, la XVIII e la XIX), oltre a truppe ausiliarie composte da popolazioni alleate dei romani. In totale si trattava di poco più di 17mila combattenti, insieme ai quali marciavano circa 4 mila civili, tra i quali anche le mogli e i figli dei soldati, una miriade di servitori, commercianti e gente di ogni tipo, che viveva all’ombra dell’esercito. Va detto che tra le file dei legionari vi erano diversi soldati di etnia germanica, che ormai avevano acquisito la cittadinanza romana e svolgevano anche compiti di rilievo nella gerarchia militare. In particolare Arminio, capo della tribù germanica dei Cherusci, era diventato consigliere personale del legato imperiale e quindi in grado di condizionare enormemente le sue decisioni.

Il tradimento di Arminio. Il tragitto per penetrare nelle terre germaniche fu quello abituale: una volta attraversato il Reno, la colonna militare entrò nella vallata del fiume Lippe per poi dirigersi a est, verso la terra dei Cherusci, dove avrebbe stabilito la base per l’estate. Contando di trovarsi in territorio amico, e fidandosi delle false informazioni riportate da Arminio, Varo non diede nessuna importanza alle notizie che gli arrivavano sul- l’annientamento in quelle zone di alcuni piccoli contingenti romani a opera di bande germaniche, e, fatto ancor più grave, ignorò totalmente varie segnalazioni dei suoi collaboratori sulla inaffidabilità dello stesso Arminio. In realtà il capo dei Cherusci aveva convinto molte popolazioni germaniche ad unirsi a lui in un piano di attacco contro i romani, da realizzare nel luogo e nel momento da lui stabilito. Si calcola che egli fosse riuscito segretamente a mettere insieme tra i 20 mila e i 25 mila uomini. Quindi fece in modo che Varo prolungasse la sua sosta estiva in territori a lui poco conosciuti e successivamente lo indusse a modificare il suo tragitto per andare a sedare una rivolta di tribù ribelli, che Arminio asseriva fosse in atto a nord. Il capo cherusco sapeva di poter contare sull’appoggio di varie tribù, che, preoccupate dall’espansionismo romano verso est, erano pronte e scendere in campo per difendere la loro libertà. Inoltre egli aveva a suo vantaggio la scarsa conoscenza da parte dei romani di un territorio quasi inesplorato e cosparso di dense zone boschive, che lo rendevano quasi impraticabile. Altro elemento decisivo fu l’inevitabile sopraggiungere delle piogge autunnali, che avrebbero impedito ai carriaggi romani di avanzare nel terreno reso viscido e fangoso.

Statua di Arminio

L’imboscata. Quella che viene chiamata battaglia di Teutoburgo fu in realtà un susseguirsi di scontri durati in tutto quattro giorni, che ebbero come epilogo la distruzione dell’esercito di Varo ai piedi della collina di Kalkriese. Il 7 settembre la colonna militare lasciò la sua base estiva diretta verso nord, mentre Arminio con i suoi cavalieri si dirigeva ad ovest, fingendo di andare a cercare rinforzi presso le altre guarnigioni romane. In realtà la sua intenzione era quella di unirsi al suo esercito. Il giorno dopo, 8 settembre, i romani entrarono nella foresta di Teutoburgo, talmente intricata da rallentare il ritmo di marcia e allungare notevolmente la colonna. Mentre si trovava in mezzo alla selva, la spedizione cominciò a subire i primi attacchi da parte dei Germani. Inoltre un enorme acquazzone rese il terreno impraticabile e limitò ulteriormente i movimenti delle truppe romane, che si videro costrette a montare un accampamento temporaneo per ripararsi e trascorrere la notte. Anche il giorno successivo continuò a diluviare, mentre i germani non smettevano di tendere imboscate, causando numerose vittime e minando il morale dei romani. Ormai cosciente della situazione, Varo decise di marciare verso ovest nella speranza di raggiungere il Reno, dove la presenza delle guarnigioni romane poteva significare la salvezza. Per avanzare più rapidamente si sbarazzò anche di una parte degli impedimenta (bagaglio militare).

Il massacro. Il 10 settembre il generale romano ordinò di riprendere la marcia in silenzio, per non attirare l’attenzione del nemico. Tuttavia la densa vegetazione e i numerosi ostacoli collocati dai germani rendevano difficile l’avanzamento. A quel punto l’arrivo di Arminio con le forze della cavalleria rese la situazione insostenibile. I danni causati dall’attacco furono talmente devastanti che Varo decise di suicidarsi con la propria spada, esempio seguito dal resto degli ufficiali. Senza comando, le forze sopravvissute cercarono di resistere ancora un giorno. L’11 di settembre le truppe restanti fecero un ultimo disperato tentativo di riprendere la marcia verso ovest, sempre sotto l’attacco incessante dei germani. A un certo punto la via di passaggio, che si sviluppava tra la collina di Kalkriese a nord e un’ampia zona paludosa a sud, si stringeva riducendosi a un vero e proprio collo di bottiglia. In quel punto Arminio aveva predisposto un terrapieno sormontato da una palizzata, che correva parallela a tutto il sentiero per oltre 500 metri. Ben protetti dalla loro posizione dominante, i germani assalirono dall’alto la colonna romana, impedendole di avanzare. Nel frattempo il centro della formazione e la retroguardia venivano attaccati dal grosso delle truppe germaniche guidate da Arminio. Fu un massacro. Pochi riuscirono a fuggire per raccontare l’accaduto, mentre i germani si davano liberamente alla strage e al saccheggio. Le tre aquile, emblema delle legioni distrutte, furono la parte più ambita del bottino.

battaglia-di-teutoburgo

La disperazione di Augusto. La notizia del disastro si sparse velocemente e il panico si impadronì non solo delle province vicine, ma anche di Roma, che temeva l’invasione germanica della vicina Gallia. Augusto, ormai vecchio e stanco, fu talmente sconvolto da mostrarsi avvilito oltremisura. Lo storico Svetonio racconta che l’imperatore per molto tempo si lasciò crescere barba e capelli, e di notte, in preda agli incubi, sbatteva la testa contro le porte gridando: “Vare, redde mihi legiones meas!” (Varo, rendimi le mie legioni). Siccome a Roma c’erano molti Galli e Germani nella Guardia Pretoriana, per timore che si ribellassero furono mandati in esilio in diverse isole. Nel contempo Augusto decise di organizzare senza indugio un nuovo esercito, arruolando dei veterani ed anche molti liberti, cosa mai accaduta prima. Tuttavia le tre legioni completamente distrutte in Germania (la XVII, XVIII e XIX) non furono mai più ricostituite, in segno di lutto perdurante. Quindi l’imperatore mandò Tiberio, suo successore designato, a controllare la zona della disfatta, visto che conosceva bene quei territori. In effetti Tiberio attaccò le forze nemiche di Roma in Germania, infliggendogli gravi perdite. In ogni caso, le conseguenze della sconfitta si fecero sentire in modo determinante, soprattutto nel contenere la politica espansionista di Roma oltre il Reno. Anche se tra gli anni 14 e 16 d.C. si organizzarono diverse spedizioni condotte da Nerone Claudio Druso, detto il Germanico, per castigare i germani e recuperare la fiducia e l’orgoglio perduti, il dominio romano in quei territori cessò definitivamente.

Publio quintilio varo

Nemesi storica: la fine di Arminio.Nell’anno 16 D.C., l’ultimo delle sue campagne militari oltre il Reno, Germanico inflisse due pesanti sconfitte alle armate di Arminio nei pressi del fiume Weser, prima di essere richiamato a Roma dal padre adottivo, l’imperatore Tiberio, per essere inviato in missione in Oriente, segno di chiara rinuncia alla troppo dispendiosa conquista dei territori dei Germani. Dopo il ritiro dei Romani, Arminio cercò di portare avanti il suo ambizioso piano di unione delle varie tribù germaniche sotto il suo comando. Ma ben presto scoppiò un aspro dissidio tra il capo cherusco e Maroboduo, altro potente capo germanico dei Marcomanni, una tribù stanziata in Boemia e federata con Roma. Arminio riuscì a sconfiggere le truppe del re rivale, che fu costretto a rifugiarsi a Ravenna sotto la protezione dell’imperatore Tiberio. Ma anche il disegno politico di Arminio finì tragicamente. Tacito negli Annales riporta la sua fine, avvenuta tra il 19 e il 21 D.C. L’indomito condottiero cadde assalito a tradimento dai suoi stessi collaboratori, allarmati dal suo crescente potere, mentre si ostinava a combattere, seppur con esito incerto, per la libertà del suo popolo. Il capo cherusco finì i suoi giorni all’età di 37 anni in modo violento e ingannevole. Ma nella cultura popolare tedesca la sua figura rimane indelebile, come campione nazionale della stirpe germanica per la sua strenua lotta di opposizione al dominio di Roma imperiale.