La rivoluzione musicale

Quello di catalogare la Storia recente per decenni è un costume che sicuramente ha la sua ragion d’essere in una certa velocità e comodità di classificazione: l’agevole bignami di un passato che altrimenti rischierebbe di sfuggire alla nostra osservazione retrospettiva, carico com’è di eventi, fenomeni, segni. Funziona benissimo, a condizione che si abbia consapevolezza di due questioni fondamentali: 1) un decennio dura, ça va sans dire, dieci anni; e in dieci anni di cose ne succedono, per cui l’inizio di un decennio non è quasi mai paragonabile alla sua fine; 2) il passaggio da un decennio all’altro è un processo lento e graduale, che quasi mai corrisponde alle scadenze del calendario.

Ciò premesso, è un gioco intrigante quello di cercare degli eventi simbolo che segnano il passaggio da un’epoca all’altra, avvenimenti dopo i quali il mondo non è più lo stesso. Prendiamo l’Italia, per esempio: quali date segnano il transito dagli anni Sessanta ai Settanta del Novecento nel nostro Paese? Beh, dipende: sul piano politico, gli anni Settanta iniziano il 12 dicembre 1969. Milano, Piazza Fontana, Banca dell’Agricoltura, e ho detto tutto.

Ma occupiamoci di frivolezze, come è nel mandato di questa piccola rubrica: se parlassimo di calcio, la data simbolo della fine del vecchio mondo sarebbe il 17 giugno 1970, giorno (notte, per noi) in cui durante i Campionati del Messico si disputa la leggendaria semifinale tra Italia e Germania Ovest. Calcisticamente parlando, quell’Italia-Germania 4-3 è una specie di Woodstock: l’apoteosi di un mondo che va scomparendo, quello del calcio all’italiana. Dopo di allora, nient’altro che un lento declino, che arriverà al suo tragico epilogo quattro anni dopo (Monaco ‘74), quando saremo costretti a fare i conti con il fantasma che nel frattempo ha preso ad aggirarsi per l’Europa, quello del calcio totale all’olandese.

E la musica leggera? Dov’è il momento di rottura, il punto di non ritorno, la soglia varcata la quale si entra nel mondo nuovo? La data è il 5 luglio 1971; il luogo è, ancora una volta, Milano; l’avvenimento è quell’aggregato di faciloneria e impreparazione che passa alla storia (sic!) come “La battaglia del Vigorelli”.

Gli anni Sessanta sono il periodo d’oro dei Festival della Canzone. Sulla scia di Sanremo essi proliferano in tutta Italia, in un format che è evidentemente funzionale all’esplosione e allo sviluppo del mercato discografico italiano. Tra i più famosi, non si possono non citare il Festival delle Voci Nuove di Castrocaro, il Festival degli Sconosciuti di Ariccia, il Disco per l’Estate, il Festival delle Rose, il Cantastampa, fino ad arrivare a quella geniale idea di festival prolungato e virtuale che è il Festivalbar. Ognuno di essi meriterebbe una trattazione approfondita, e questa non è che la punta dell’iceberg. Ma se si dovesse dare un premio speciale alla manifestazione canora più folle di tutti gli anni Sessanta, la medaglia d’oro spetterebbe sicuramente a lui, sua maestà “Il Cantagiro”.

Ideato e organizzato da Ezio Radaelli, il Cantagiro si ispira, come suggerisce il nome, alla più grande manifestazione sportiva popolare dell’epoca, ossia il Giro Ciclistico d’Italia. In buona sostanza, si trattava di un festival itinerante: una carovana di cantanti, orchestrali, presentatori, attori che si spostava su e giù per la penisola, portando nella provincia profonda un po’ di quel mondo che allora si vedeva soltanto in televisione. Ad ogni tappa un’esibizione e dei vincitori, votati da giurie che venivano scelte in loco di volta in volta. Al vincitore veniva data da indossare una maglia rosa, come quella dei colleghi del pedale. La classifica generale portava, infine, alla proclamazione dei vincitori assoluti, durante la tappa finale che si svolgeva in tre serate a Fiuggi e veniva trasmessa in diretta dal Canale Televisivo Nazionale.

Detta così sembra una cosa da niente, o quasi. Ma nulla può descrivere l’elettricità  che accompagnava quei giorni, la follia di questo esercito canoro che viaggiava in automobile lungo le strade italiane, e che all’avvicinarsi ad ogni sede di tappa era costretto a mettersi su delle auto scoperte per farsi strapazzare da un pubblico in delirio assiepato lungo la via: scene di isteria di massa, contestazioni, persino agguati. Il Cantagiro degli anni Sessanta è stato questo e tanto altro, e le ripercussioni sulle classifiche dei 45 giri più venduti erano immediate e tangibili.

Al giro di boa del decennio, però, qualcosa comincia a cambiare. Non si sa come, non si sa perché, la manifestazione di Radaelli perde consensi, l’entusiasmo non è più quello di una volta. Si incomincia a percepire, soprattutto, che nel grande e inclusivo calderone della musica leggera vi sia un sommerso che non viene toccato da questa o altre manifestazioni similari.

L’esempio lampante in questo senso è quello di “Canzonissima”, vero e proprio museo delle star del giorno prima, così insopportabile al pubblico giovanile che il settimanale “Ciao 2001” arriverà a organizzare, nel gennaio del ‘72, una maratona di nuovi gruppi italiani battezzata “Controcanzonissima”.

Si diceva di Ezio Radaelli. Pragmatico, decisionista, Radaelli ragiona da uomo degli anni Sessanta. Nell’immaginazione collettiva, è ancora vivo il ricordo del mitico Cantagiro del ‘66, durante il quale ai consueti gironi A e B (rispettivamente per gli artisti affermati e gli esordienti) era stato aggiunto il famigerato girone C (per i complessi). In quell’occasione a Radaelli era riuscita la mossa, clamorosamente fallita a Gianni Ravera pochi mesi prima con il suo Festival di Sanremo, quando i complessi beat per la prima volta in gara erano stati costretti a esibizioni ingloriose a causa di una dotazione tecnica inadeguata. Qui ai gruppi viene dato il giusto spazio e la conseguenza sarà un esaltante duello tra “Equipe 84” e i “Rokes”, entrambi altissimi nelle classifiche, tallonati da tutta una serie di nomi (i New Dada, i Corvi, i Camaleonti, i Nomadi, i Kings, i Sorrows) entrati poi nella piccola storia del rock italiano.

Assorbito l’urto del beat, apparentemente si respira aria di restaurazione, o forse no: ci sono tante nuove musiche in giro che sembrano sfuggire agli abituali radar della diffusione di massa. E non è solo questo, il problema. Come già con il beat, ma in maniera molto più accentuata e radicale, queste musiche portano con sé un nuovo alfabeto di segni, comportamenti, attitudini verso il mondo dell’ufficialità, che è figlio un po’ delle rivolte del ‘68 appena trascorso, un po’ dello spirito di Woodstock ‘69, la cui onda lunga ha preso a viaggiare per l’Europa grazie al film che ne è stato ricavato. I nuovi giovani contestano gli idoli del giorno prima (come si può vedere nel programma televisivo “Speciale per Voi”) e soprattutto non amano mischiarsi con il mondo ufficiale della canzone. Di qui la definizione di “Underground”, che viene coniata per definire questo sottomondo che di tanto in tanto viene carsicamente in superficie, inquietando non poco chi giovane non è più.

La ricetta di Ezio Radaelli per uscire da quest’impasse si chiama “Cantamondo”. Si tratta di una specie di Cantagiro estrogenato, in cui ai singoli cantanti in gara vengono assegnati dieci minuti per esibirsi. Ad essi vengono affiancati artisti di musica folk provenienti da varie parti del mondo (da cui il nome della manifestazione). Ciliegina sulla torta, per ogni tappa un super-ospite straniero, che ha a disposizione ben 45 minuti per un vero e proprio piccolo concerto. Ѐ così che sul palco del Cantamondo sfilano nomi come Aretha Franklin, Nina Simone, Charles Aznavour, Donovan.  Nonostante il fallimento della sezione folk, i risultati sono incoraggianti (e vorrei vedere, con questi nomi!). Per la tappa di Milano, Radaelli butta giù il suo asso nella manica, la band inglese dei “Led Zeppelin”. E qui cominciano i problemi.

I Led Zeppelin del 1971 non sono un gruppo qualsiasi, ma sono “La rock band per eccellenza”: un quartetto di ottimi musicisti che, ancorché giovani, hanno attraversato le tempeste degli anni Sessanta, riuscendo nell’intento di sublimare il blues che era nel loro DNA in un linguaggio nuovo e iperamplificato che verrà definito Hard Rock. Con tre album di enorme successo alle spalle, godono di un seguito devoto di dimensioni planetarie. Ecco perché quando il loro nome viene ufficialmente annunciato da Ciao 2001 immediatamente si attiva un passaparola neanche tanto sotterraneo, che farà convergere su Milano giovani capelloni provenienti da tutto il Nord Italia.

Ora, leggendo con il senno di poi il manifesto comparso all’epoca sui muri del capoluogo qualche brivido lo si prova. L’inizio della manifestazione viene fissato per le 21:00, ma la comparsa delle attrazioni principali viene annunciata per “le 24 circa”. E cosa dovrebbe accadere tra  le 21:00 e le 24:00? La risposta sta nella lista dei nomi in piccolo appena sotto il nome in grande: Milva, Gianni Morandi, i Ricchi e Poveri, i Vianella e via elencando. Nonostante l’evidente tentativo di organizzare comunque una serata per fasce (fasce d’orario, fasce anagrafiche, di gusto musicale), la forzata convivenza fra questi due mondi così lontani e inconciliabili porta con sé come un’impressione di imminente disastro. Impressione che si accentua ancora di più quando si va a leggere il nome di chi dovrebbe assicurare la transizione indolore tra queste due realtà, ovvero i presentatori. Né Nuccio Costa né Daniele Piombi sono dei campioni di giovanilismo: a svecchiare e internazionalizzare il tutto dovrebbe pensarci la terza presentatrice, ossia la giamaicana Beryl Cunningham (una specie di Lola Falana all’ennesima potenza), la cui presenza si rivelerà del tutto ininfluente.

La serata non inizia neanche male: Mauro Lusini e Mia Martini portano a termine le loro esibizioni in maniera indolore, i “New Trolls” vengono addirittura osannati per l’esecuzione de Il sole nascerà, brano che da solo occupa i dieci minuti loro assegnati (con gli stessi Led Zeppelin che li seguono con attenzione da dietro le quinte). Ma l’insofferenza cresce con il trascorrere dei minuti e trova un bersaglio facile lungo la propria strada.

Il Gianni Morandi del 1971 è un artista maturo, sebbene anagraficamente pochissimo più anziano del pubblico che si trova a dover fronteggiare. Un cantante che nonostante i successi discografici che continua a mietere è in piena crisi artistica e vorrebbe dare un taglio differente al proprio repertorio. In effetti è quello che prova a fare quella sera: attacca con C’era un ragazzo, prosegue  con La Ballata di Sacco e Vanzetti, insiste con Al bar si muore (canzone bellissima e struggente, ascoltata oggi); con parole e gesti mette in gioco la propria militanza politica. Niente da fare, davanti a sé ha una platea che grazie a lui si sta liberando degli ultimi cascami degli anni Sessanta.

Ululati, gestacci, pomodori, zolle di terra, sacchetti con escrementi umani è tutto ciò che Morandi riesce a raccogliere quella sera, in  un evento che segnerà un punto di non ritorno nella sua carriera. A seguire dovrebbero arrivare i Vianella con le loro canzoni in neo-romanesco, ma i due (Edoardo Vianello e la moglie Wilma Goich) si affacciano appena sul palcoscenico e capiscono prontamente che non è aria.

A questo punto il Cantagiro è virtualmente terminato, e sono appena le ventidue. Si apre un lento sgocciolare di minuti, durante il quale il pubblico si ammassa sotto il palco (qualcuno anche sopra). Dietro le quinte è un frenetico parlamentare, perché i “Led Zeppelin” vorrebbero suonare il prima possibile, per poi andarsene a una festa privata che alcune ragazze di Milano hanno organizzato in loro onore. Solo che è oggettivamente troppo presto: fuori dal Vigorelli c’è ancora  una fila lunghissima di persone che aspetta di comprare il biglietto d’ingresso (non dimentichiamo che Robert Plant e soci erano attesi per le 24:00!). La situazione si “sblocca” magicamente quando Peter Grant, manager degli Zeppelin, minaccia gli organizzatori italiani con un coltello in mano. Ed è così che i Led Zeppelin fanno il loro trionfale ingresso in scena con più di un’ora d’anticipo, provocando l’entusiasmo di chi è all’interno del Velodromo e il disappunto di chi è ancora fuori in attesa. Il gruppo attacca con Immigrant Song ed esegue una successione impressionante di brani-killer, comprese due canzoni (Rock’n’Roll e Black Dog) che faranno parte del nuovo album (il mitico “Led Zeppelin IV”) in uscita a novembre.

A questo punto la folla all’esterno comincia a premere contro il cancelli, che sono presidiati dalla celere  (i concerti di musica pop venivano visti a quell’epoca come una questione di ordine pubblico!). La polizia risponde ai tentativi di sfondamento sparando lacrimogeni, ma tira un vento contrario e il fumo finisce all’interno del velodromo. In più, quando si crea un varco e la gente comincia a entrare, un poliziotto spara un lacrimogeno che plana dentro al Vigorelli, provocando un fuggi fuggi verso gli spalti più lontani. Persino la band si rende conto che c’è qualcosa che non va. Attaccano e interrompono Whole Lotta Love per ben due volte: la seconda volta, va via la corrente durante l’assolo di batteria di John Bonham. Dopo venti minuti di musica il gruppo abbandona frettolosamente la scena, lasciando il caos dietro di sé. La folla impaurita e/o inferocita lancia di tutto e sciama ovunque, compreso il palco (dove qualcuno tenta di appropriarsi di pezzi della strumentazione) e i bagni (in cui vengono smontate tubature, rubinetti e lavandini allo scopo di procurarsi degli oggetti contundenti). Mentre qualcuno grida al sabotaggio da parte dei fascisti, anche il reparto della celere schierato all’interno del velodromo riceve l’ordine di entrare in azione. I poliziotti si fanno strada per andare a dare manforte ai colleghi di fuori, dove sta oramai infuriando la battaglia; strada facendo altri lacrimogeni vengono sparati sulla folla. Sul posto nel frattempo sono arrivati altri reparti antisommossa e l’intera area è circondata. E da lì in poi a parlare saranno i manganelli.

Le cronache del giorno dopo descrivono un panorama di devastazione in tutta l’area del concerto, con incendi e danni anche alle case vicine, provocati dall’uso indiscriminato dei lacrimogeni. Si sprecano ovviamente le analisi sociologiche pret-a-porter: sulla gioventù, la musica  e tutto il resto. Quello che appare evidente a più di cinquant’anni di distanza è che non era possibile cercare una coesistenza pacifica tra gli stanchi rituali della musica leggera e il magma ribollente delle culture giovanili. Averci incongruamente provato servì soltanto a scavare un solco definitivo fra questi due mondi (e la ferita si rimarginerà soltanto negli anni Ottanta).

La stagione dei grandi concerti rock in Italia continuerà, tra alti e bassi, fino al 1975 (Lou Reed preso a sassate) e al 1977 (Santana preso a molotov): la contestazione di frange dell’autonomia si radicalizza con motivazioni che oramai sono molto lontane dalle ingenue contrapposizioni di quel luglio1971. Ciò provocherà l’esclusione pressoché completa dell’Italia dai grandi tour internazionali. Si riprenderà ufficialmente due anni dopo, con i  concerti italiani di Iggy Pop e Patti Smith. A proposito: gli anni Ottanta iniziano ufficialmente il 9 settembre 1979 a Bologna, proprio con il concerto della cantautrice americana. Politicamente, invece, gli anni Settanta finiscono così come erano iniziati: 2 agosto 1980, Bologna, Stazione Centrale.

Ma questa è un’altra storia…