PAPA GIUCCULATERA

di Emilio Rubino

Il titolo non sta a indicare la marca di un piccolo elettrodomestico, o meglio di un utensile casalingo di uso comune, bensì rappresenta un appropriato nomignolo rivolto a un sacerdote neritino vissuto nella prima metà del Novecento. La sua minuscola statura, neppure un metro e mezzo di altezza, dava l’impressione di trovarsi davanti a quel cosetto metallico che, messo sul fuoco, produce una calda e profumata bevanda, che riscalda le membra e il cuore.

Bastava usare questo soprannome per individuarlo subito, mentre, utilizzando il solo patronimico, difficilmente sarebbe stato identificato.

Il nomignolo “Papa Giucculatera” non era per niente offensivo della persona, ma necessario per qualificare quell’uomo che, intabarrato nel nero abito talare, dava l’immediata impressione, o meglio riportava subito alla mente quel piccolo aggeggio casalingo.

Da seminarista, sempre per la sua modesta statura, era considerato dai suoi coetanei come un giocattolino o, peggio ancora, come un cagnolino con cui trastul- larsi e che trasmetteva tanta tenerezza e affetto.

Con il trascorrere degli anni e dopo aver preso gli ordini sacerdotali, il nostro “pretuccio” acquistò la consapevolezza di essere diverso dagli altri, poiché era cresciuto solo in età ma non certamente in altezza e nel fisico. Era rimasto tale e quale, così com’era da bambino: piccolino, bassino, insignificante. Il che, per lui, rappresentava un vero handicap, non solo perché tra la folla in chiesa e nelle processioni, piccoletto com’era, scompariva alla vista di tutti, ma soprattutto perché, nel celebrare la Messa, l’altare della chiesa di San Domenico, ove era stato assegnato, lo nascondeva quasi interamente ai fedeli. Riusciva a leggere il grosso messale solo stentatamente, poiché era posto su un piedistallo molto più alto di lui. Insomma “Papa Giucculatera”, da poco arrivato in quella chiesa, stava vivendo un profondo dramma. Grazie al perspicace intuito del sacrestano, fu rimosso il grosso ostacolo mettendo, alla base del piedistallo, un apposito scannetto che, finalmente, consentiva al pretuccio di celebrare in santa pace le funzioni religiose. Doveva, però, prestare la massima attenzione nel porre i piedi al centro dello scannetto per non correre il rischio di perdere l’equilibrio e rovinare per terra.

Anche nei rapporti interpersonali egli provava non poche difficoltà; infatti, nel guardare in faccia le persone, era costretto a sollevare il capo e… i piedi, mentre i suoi interlocutori rivolgevano lo sguardo all’ingiù.

Tutto ciò lo indispettiva assai, anche perché aveva spesso notato sul viso dei parrocchiani un malizioso risolino di scherno, a dileggio della sua piccola statura, come se volessero insinuare che fosse piccolo… in ogni sua parte fisica.

Anche per strada capitava, a volte, di incontrare qualcuno che, avendo il pensiero rivolto a ben altre cose, tirava dritto senza degnarlo di un semplice sguardo. Il prete, sbagliando, riteneva che la gente lo ignorasse per la sua inconsistenza fisica. Insomma, la sua era ormai una vera fissazione, una malattia che s’aggravava ogni giorno di più, perché ogni giorno riteneva di scoprire negli altri il ghigno della derisione e dello scherno.

Proprio per questo, Papa Giucculatera era sempre arrabbiato con tutti, maggiormente con i santi della chiesa che permettevano una simile insolenza a suo danno.

Per non cadere anche noi nella lugubre tristezza che caratterizzava la sua vita, raccontiamo un episodio che ebbe ad interessarlo direttamente.

Egli era proprietario di un podere appena fuori Nardò, su cui aveva edificato una graziosa casetta. Tale proprietà confinava con un certo don Ciccio e, sempre sullo stesso lato, con un bravo contadino. Proprio ai margini della zona di don Ciccio cresceva una vecchia pergola che ogni anno fruttificava in gran quantità. Don Ciccio faceva dono di quei succulenti grappoli a sua figlia, che, puntualmente, nel mese di settembre veniva a trovare il genitore a Nardò. Don Ciccio si recava spesso al podere a osservare quei bei grappoli d’uva e li “cresceva con gli occhi”, come si usa dire dalle nostre parti. Un bel giorno ebbe l’amara sorpresa di non vederli più: qualcuno aveva fatto man bassa.

E chi poteva essere stato, se non quel rude contadino confinante?

Non avendo le prove, si limitò a mantenere una certa distanza da lui e a non rispondergli neppure quando, incontrandolo, quell’uomo gli rivolgeva un compassato e doveroso saluto.

Il buon contadino colse con amarezza tale offensivo silenzio e ben presto intuì che il motivo dello strano comportamento di don Ciccio era rappresentato verosi- milmente dal furto dell’uva.

Mal tollerando l’incresciosa situazione, il contadino decise di affrontare don Ciccio e di raccontargli ogni cosa.

“Io so perché non rispondi al mio saluto, ma sappi che non sono stato io a rubarti quell’uva. Io so chi è stato…”.

“E allora, che aspetti, dimmelo! – incalzò veemente don Ciccio.

Il contadino allora si sfogò, raccontandogli d’aver visto un meriggio Papa Giucculatera arrampicarsi faticosamente sul muro di confine e, credendosi non visto, raccogliere furtivamente quasi tutti i grappoli d’uva, ormai maturi.

In preda ad una rabbia inconcepibile, don Ciccio stava lì lì per andare in escandescenze, ma si sforzò di restare calmo. Del resto, che poteva mai fare nei confronti di un prete-ladro e, per giunta, per pochi grappoli d’uva? Se avesse denunziato il furto ai gendarmi, avrebbe squalificato il prete e, soprattutto, avrebbe sollevato un polverone inaudito in tutta la città. Perciò, pensò bene di vendicarsi nel momento opportuno. D’altra parte, la vendetta è un piatto che si serve sempre freddo.

Ormai l’estate se n’era quasi andata e il tempo ora prometteva, quasi ogni giorno, pioggia e vento. Una mattina don Ciccio incontrò per strada il prete, il quale, simulando indifferenza e volgendo gli occhi al cielo, nero come non mai, disse innocentemente: “Compare, pensi che piova?”.

E don Ciccio, con il viso pieno di livore e rabbia, gli rispose: “Mi auguro proprio di sì!… Ho pregato tanto in questi giorni perché piovesse…”.

“Bravo… bravo, don Ciccio! Bisogna sempre avere il pensiero rivolto a Nostro Signore” – gli rispose il pretuccio, senza sapere che si stava cacciando in un mare di guai – “…Pregherò anch’io per te, in modo che esaudisca le tue preghiere”.

“Ma io mi sono rivolto a San Gregorio e non a Nostro Signore!…”.

“Beh, se dall’alto dei cieli sono in due a intervenire, sta’ certo che ogni richiesta sarà accolta” – aggiunse amorevolmente il prete.

“Mi raccomando, prega quanto più puoi: ho bisogno che si avveri la mia supplica!” – gli ribatté furbescamente don Ciccio.

“Puoi star sicuro, grazie alla mia intercessione tutto si avvererà!”.

“Speriamo… speriamo di cuore!”.

“Ora, posso conoscere il vero motivo che ti spinge a chiedere la pioggia?… ormai piove quasi ogni giorno!… Don Ciccio, non stiamo mica in estate!… perché tanto pregare?” – gli domandò dubbioso il sacerdote.

“È poca, molto poca l’acqua venuta giù in questa settimana!”.

“Ma che dici, don Ciccio!… le campagne sono quasi allagate e tu ti metti ancora a pregare?” – concluse a giusta ragione il pretuccio.

“Ho pregato con tutto il cuore San Gregorio perché scatenasse su Nardò, per ore e ore, un temporale d’inaudita violenza, in modo da far venire giù tanta di quell’acqua da superare un metro e cinquanta d’altezza, necessario a far affogare tutte le mezze cannette della città!”.

Papa Giucculatera capì l’antifona, piegò la testa e divenne più pallido che mai, al pensiero che quel metro e mezzo d’acqua lo avrebbe ricoperto interamente… e, forse anche, condannato per l’eternità dalla scure infallibile di Nostro Signore.