1. Molteplicità degli approcci alla nozione di “arte”

Che cos’è l’arte? La domanda ha attraversato la storia del pensiero. I tentativi di formulare una risposta che sia completa e resista alla critica hanno coinvolto punti di vista differenti: dalla riflessione filosofica sull’estetica (dal greco αἴσϑησις, cioè sensazione, capacità di sentire, sensibilità, percezione) all’esclusione dalla definizione di arte dell’estetica stessa, intesa come possibilità di definire una categoria del “bello” per l’arte. In quest’ultima ottica si colloca la posizione di Hegel[1], per il quale si può dire che qualcosa sia arte se possiede un contenuto che sia presentato in maniera particolare e con modalità appropriate al contenuto stesso. Il punto è, però, cosa voglia dire “particolare” e quali siano le “modalità appropriate”, entrambi concetti normativi che richiedono d’essere esplicitati perché in sé stabiliscono una “norma”, cioè uno o più criteri di selezione. La posizione di Hegel ha influenzato tra altri il critico d’arte e filosofo Danto[2] e la critica da lui ispirata.

  1. La prospettiva di Arthur Danto

Per Danto, infatti, l’opera d’arte è il prodotto di un’intenzione, ed è quindi “a proposito di”. Questo carattere risente del contesto storico-culturale in cui l’opera è ideata e realizzata. L’opera ha bisogno di una narrazione che ne sveli la proprietà intima d’essere una struttura metaforica. Per realizzarsi richiede il contributo di chi fruisce l’opera stessa; quindi sulla reazione del fruitore insiste a sua volta lo stile adottato nell’opera. La moltiplicazione delle possibilità tecniche di riproduzione visuale dell’ambiente che circonda gli esseri umani, e degli esseri umani stessi, ha diversificato e frammentato le finalità dell’opera d’arte e quindi le intenzionalità. Non vi è l’unico fine di rappresentare ambienti (paesaggio, ritratto) e/o idee (la pittura e la scultura su temi religiosi o di mitologia classica o sociali). Il compito del critico è allora, per Danto ed epigoni, quello di scoprire e chiarire l’intenzionalità del singolo artista, piuttosto che avere un atteggiamento teso a definire tendenze storiche e a individuare l’essenza dell’arte stessa, rifiutando di fatto la ricerca di una teleologia dell’arte, cioè di una finalità per l’arte e, quindi, per l’artista.

  1. Mutamenti nel ruolo della critica d’arte

La critica diventa, così, parte integrante dell’opera d’arte. Il critico non esprime una esplicita valutazione comparativa di valore, abbandonando la funzione classificatoria in termini di “bellezza” estetica, ma non evita di manifestare giudizi in quanto deve esprimersi su quanto un’opera sia “a proposito di” e quanto sia pertinente la sua modalità espressiva. D’altra parte, però, se la critica è parte dell’opera, con quali intenzioni (e interessi) è espressa? Non a caso, in proposito, Fumaroli[3] parlava di “critico prezzolato”.

Danto, allora, finisce col sostenere che sono le istituzioni preposte a interessarsi d’arte (musei, accademie, gallerie…) a dover giudicare quali siano le opere d’arte. Al critico spetta il compito di giustificare quelle scelte, di spiegare, cioè, come quelle opere incorporino i loro significati. D’altra parte, però, chi costituisce un’istituzione perché possa (o debba) interessarsi d’arte, oppure sceglie le persone che se ne devono occupare, ha, sia pur in maniera vaga, un’idea di cosa debba intendersi per arte, e questa idea influenza le sue scelte. Demandare alla scelta delle entità preposte istituzionalmente all’arte non risolve allora il decidere ciò che si possa dichiarare arte.

Per di più, se si adotta in maniera radicale il punto di vista di Danto, si può giungere all’estremo di una visione relativista come quella espressa da Formaggio[4] negli anni Settanta del Novecento: “l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”. L’arbitrarietà insita nella definizione di Formaggio esclude finalità e utilità per l’opera d’arte. In questo egli entra in contrasto con le premesse del punto di vista di Danto, perché l’essere “a proposito di” qualcosa e “adeguato” all’intenzionalità dell’artista è una finalità. L’adeguatezza implica l’utilità dell’opera ad esprimere le intenzioni dell’artista. L’opera d’arte allora non è un gesto vacuo.

Se, d’altra parte, tutto ciò che gli essere umani chiamano arte fosse arte, come avrebbe voluto Formaggio, allora in potenza tutto potrebbe essere arte e quindi nulla sarebbe arte, perché non ci sarebbe alcun criterio di distinzione da ciò che arte non è. Danto stesso spostò progressivamente la sua “teoria dell’arte” in una posizione basata su minori richieste che un’opera debba soddisfare. Nell’elaborazione ulteriore del suo pensiero sostenne infatti che, per essere d’arte, un’opera deve solo avere un significato e deve essere indisgiungibile dal mezzo (e dallo stile) attraverso cui è espressa. Allora, se escludiamo la posizione “radicale” di Formaggio e ci limitiamo a una versione moderata della posizione di Danto come egli stesso finì per suggerire, il lasciare che il lavoro del critico sia limitato alla spiegazione dell’appropriatezza delle scelte delle istituzioni preposte all’arte presume che un’opera, perché sia detta d’arte, debba essere esposta in una di queste istituzioni. Ne segue la domanda che ha motivato la scrittura di queste pagine: può allora esserci arte ascosa non giudicata dalle istituzioni preposte all’arte, cioè non esposta in luoghi largamente frequentati, oppure dichiarata tale e poi tenuta a disposizione del singolo collezionista? Il critico si deve occupare di essa? O meglio, deve il critico cercarla?

  1. Prendendo posizione

Anticipo che la mia risposta alla prima domanda è affermativa. Così lo è anche alla seconda, anzi aggiungo che il critico ha il dovere di occuparsi anche di essa, non tanto per ragioni mercantili, quanto perché la stessa ricerca di cosa sia l’arte e della nozione stessa di storia dell’arte lo necessita. La mia può sembrare una posizione idealista, e invece si radica su nient’altro che il desiderio di conoscere: scoprire per sapere di un’esistenza, non perché di essa ci si debba servire. E qui ritorna la gratuità dell’arte in sé, aspetto non in contrasto con l’idea che l’arte abbia (o debba avere) una finalità.

Per motivare questa posizione vorrei muovere da quanto inizialmente ha fatto emergere sia le due precedenti domande sia la risposta che ho appena sintetizzato: una riflessione personale su una parte delle produzioni artistiche di František Kupka (Opočno, Cechia, 1871 – Puteaux, Francia, 1957) e di Luigi Mariano (Galatina, Italia, 1922-1999), per evidenziare in particolare come la forma circolare si propone in entrambe le opere e ha differenti significati.

  1. František Kupka e Luigi Mariano: un parallelo

Geometrie circolari sono ricorrenti in alcune opere astratte di Kupka. Analoghe strutture geometriche si ritrovano in molte xilopitture[5] di Mariano, testimoni di un suo personalissimo periodo di “astrattismo”, sebbene sfalsato nel tempo: Kupka infatti raggiunse l’astrattismo a partire dal 1910/1911, mentre Mariano ideò le xilopitture tra la fine degli anni ’60 e gli anni ‘70.

I due artisti hanno, per ora, diversa esposizione. Per il primo abbiamo una casa-museo a lui dedicata a Praga, oltre a retrospettive in luoghi iconici e la presenza di opere in musei rilevanti; la produzione del secondo è diventata progressivamente ascosa.

Dopo gli studi a Praga, dal 1894 Kupka si stabilì a Parigi, con tutto ciò che un centro d’arte come Parigi può implicare anche solo in termini di possibilità. Mariano invece, dopo gli studi a Urbino, tornò nel suo luogo d’origine. Entrambi insegnarono in Accademie di Belle Arti. Mariano fu primariamente direttore di Istituto d’Arte (Nardò, Poggiardo, Lecce in sequenza temporale). Entrambi rifiutarono gli eccessi che sono spesso funzionali alla promozione della propria produzione, né indulsero nell’esposizione di sé. Le collocazioni geografiche diverse e la mancanza delle possibilità odierne di rapida comunicazione fecero il resto.

  1. Materia che diventa concetto astratto

Ma torniamo alle forme astratte, per così dire. Variano le intenzionalità dei due artisti, entrambi interessati ai rapporti di colore, all’esuberanza stessa del colore. Kupka ha, però, un’intenzionalità di apparente matrice spiritualista, che risente del suo accostarsi a correnti esoteriche orientaleggianti, ma che è anche influenzata da interessi scientifici, soprattutto per la dinamica dei corpi. Questo incontro di fattori (scientifico e spiritualista, anzi perfino esoterico) è però piuttosto intricato e talvolta solo suggerito a posteriori.

Di contrasto, se Kupka è incline all’esoterismo, una via per placare l’ansia di controllo sugli eventi con l’illusione che una qualche ritualità possa determinarne l’imprevedibile divenire, Mariano ha un’intenzionalità molto più chiaramente ancorata alla storia e alla materia. Il legno su cui egli incide per le xilopitture, dopo un periodo precedente di incisione figurativa con temi precisi che riguardano gli atleti e il rifugio dalla guerra, è il legno d’ulivo, legno che caratterizza la sua terra d’origine. La sua è una scelta identitaria in qualche misura, nel senso che contestualizza la sua opera mostrando il retaggio legato alla terra d’origine e alla cultura contadina, e lo fa non in termini di codici o di segmenti estratti per convenienza di esposizione pubblica, ma in termini sostanziali. Inoltre le composizioni e le successive incisioni durante il processo di stampa delle xilopitture, combinate con il colore, intendono rappresentare, non di rado con rossi accesi, l’impatto sociale delle convulsioni della storia italiana (ma non solo) nel tempo in cui le xilopitture sono state ideate, il periodo del terrorismo politico negli anni Settanta del Novecento, come si evince da sue stesse annotazioni.

Allora, mettendo in ordine, nelle opere di Mariano, e non solo nelle xilopotture, in accordo  con i criteri di Danto troviamo adeguatezza del mezzo espressivo all’intenzione, novità tecnica di stile, astrazione che parte da un aspetto materico in sé figurativo, come sono gli “anelli” di tronco d’albero da Mariano utilizzati. Pertanto le xilopitture di Mariano soddisfano interamente quei criteri. Non dovremmo allora considerarle arte per il fatto che si mantengono ascose, cioè non esposte in luoghi iconici, come anche è ascoso il resto della sua produzione su cui varrebbe la pena tornare a discutere? E inoltre, al di là dei criteri di Danto, quindi dell’intenzionalità e della interpretazione storico-sociale, le xilopitture di Mariano offrono una riflessione teoretica sull’astrattismo in sé, evidenziano come ogni ricerca di figurazione astratta si muove dalla esperienza sensoriale dell’artista, avendo una radice “materica” prima di ambire a essere solo forma evocativa.

  1. Uno sguardo oltre le esperienze astratte di Kupka e di Mariano

L’incisione e il colore vivido astraggono dalla componente materica (vivida è tutta la coloristica dei due, Kupka e Mariano, forse con rimembranze del movimento Fauve). Quello di non inseguire l’esposizione e il mercato dell’arte fu per Mariano un atteggiamento maturato a metà del suo percorso artistico. Nella prima parte della sua attività, infatti, dopo aver attenuto, ancora ventunenne, la cattedra di “Figura” in Urbino, cattedra precedentemente tenuta da Francesco Carnevali[6], aveva esposto alla Biennale di Venezia del 1948 con tre opere del suo primo periodo figurativo (atleti, rimembranze degli studi urbinati; il rifugio dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale), poi alla Quadriennale di Roma del 1950, e in varie gallerie prestigiose, come quella della Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia. In realtà, sia pur nel ritiro dal mercato dell’arte, Mariano ebbe nel 1982 un’ampia retrospettiva con 90 opere nel Museo Sigismondo Castromediano di Lecce. In quell’occasione le xilopitture furono esposte, ma poi non si sforzò più di organizzare altre mostre in luoghi istituzionali.

Il suo primo periodo figurativo, quello che ha tracce nella Biennale, ha due influenze: una (primaria) quattrocentesca, sebbene reinterpretata da coloristiche e tematiche moderne, l’altra art-nouveaux. Quest’ultima influenzò anche Kupka, che ebbe per suo conto anche influenze dal Futurismo, soprattutto nella ricerca di figure umane in movimento, tali quasi da apparire evanescenti. Al contrario, in Mariano le figure umane sono immote, evidenziano forme geometriche primarie. Per contrasto, poi, Mariano dà grande rilievo alle mani, sempre affusolate, sempre espressive, loro sì in movimento. Le figure assorte di Mariano hanno funzione architettonica: strutturano lo spazio mentre suggeriscono una storia. Ciò che pare interessare a Mariano sono i rapporti geometrici più di una narrazione (ma lo stesso avviene nelle xilopitture con l’aggiunta dell’esplicito interesse per il colore). In altri termini, mentre per Kupka era il movimento, o meglio, la suggestione del movimento, a rimandare a un “oltre” astratto, in Mariano la stessa figura umana diventa un ente geometrico spaziale astratto. Questa sua inclinazione alla geometria spaziale si stempera in due grandi paesaggi del ciclo delle “stagnole” (in cui la pittura a olio si accompagna all’inserzione di stagnole) di fine degli anni ’50 inizio degli anni ’60, un ciclo mosso da marcate suggestioni dall’art-nouveaux. Queste ultime sono altresì evidenti in un delicato dipinto degli anni ’60 che rappresenta la moglie, Rosa Dell’Anna, il cui insegnamento di storia della filosofia ha di certo arricchito il clima culturale in cui si è sviluppata quell’arte.[7] È un ritratto che coinvolge due terzi della figura intera ed è quasi in scala 1:1, un ritratto in cui si rivede una lettura di Klimt[8]. E Klimt ebbe anche influenza su Kupka per intento costruttivo e coloristico nella composizione.

Nel periodo tardo della sua produzione Mariano riprende la figura, prima l’olio e poi l’acquerello, e in quella i rapporti geometrici e quelli di colore diventano preponderanti e adeguati ai temi: la vita contadina e figure femminili negli olii, l’illustrazione dei Vangeli negli acquerelli. È tutta la sua opera ad essere sostenuta da un costante istinto alla contestualizzazione storico-sociale. Per Kupka, invece, la più stretta vicinanza al mercato dell’arte sembra più orientarlo verso il confronto con le “tendenze” del momento, il che implica un qualche distacco da quella contestualizzazione a cui facevo riferimento per Mariano. La valutazione del contesto in cui un’opera si sviluppa partecipa della natura dell’opera stessa e diventa parte delle fondamenta che sostengono il discorso critico su un’opera, o su un filone, e sull’intera produzione di qualcuno che infine possa essere dichiarato artista.

  1. Una nuova (ma forse antica) direzione per il critico

Il dovere del critico non è allora solo quello di giustificare le scelte delle istituzioni preposte all’arte, semmai è quello di analizzare tutto ciò che, esposto o ascoso, possa suscitare o abbia suscitato un’esperienza estetica in qualcuno, non limitando a quest’esperienza il valutare che un qualcosa sia un’opera d’arte, come invece, da formalista, avrebbe voluto Bell[9]. L’arte infatti può nascondersi dietro una porta chiusa, come essere esposta nelle sale degli Uffizi o altrove. L’arte può infine, a tempo debito, uscire da quella porta chiusa e trovare la sala di una istituzione preposta all’arte che la accolga. Alla fine, se non è imposta la dimenticanza dalle circostanze, è sempre il tempo che permette il giudizio, quello che esprime ogni critico anche quando dichiara di non farlo, anche quando sbircia soltanto dietro una porta chiusa, o cammina distratto tra le sale del Louvre, inseguendo pensieri di luoghi lontani.

 

[1] Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda 1770 – Berlino 1821), figura centrale dell’Idealismo, sviluppatosi come risposta romantica all’Illuminismo francese (a proposito di questo si veda I. Berlin, “Le radici del Romanticismo”, Adelphi, Milano, 2023). N.d.T.

[2] Arthur Coleman Danto (Ann Arbor 1924 – New York 2013), figura centrale della critica d’arte americana. N.d.T.

[3] Marc Fumaroli (Marsiglia, 1932 – Parigi, 2020), critico letterario, storico dell’arte, saggista, professore di “Retorica e società in Europa fra il XVI e il XVII secolo” al Collège de France dal 1986 al 2002. Di lui in proposito si veda “Parigi-New York e ritorno: viaggio nelle arti e nelle immagini. Diario 2007-2008”, Adelphi, Milano, 2011. N.d.T.

[4] Dino Formaggio (Milano, 1914 – Illasi, 2008), filosofo e critico d’arte italiano. N.d.T.

[5] “Xilopittura” è un termine coniato dallo storico dell’arte Pasquale Rotondi (Arpino, Italia, 1909 – Roma, 1991) per caratterizzare l’unicità e la novità tecnica di un ciclo d’opere di Luigi Mariano: si tratta di incisioni sul legno le cui stampe si ottengono da inchiostrature successive inframmezzate da ulteriori incisioni. L’opera finale, sia pur stampata su “carta di Cina”, è infine irriproducibile perché le incisioni tra una inchiostratura e l’altra sono ovviamente irreversibili.

[6] Francesco Carnevali (Pesaro, 1892 – Urbino, 1987), artista e scrittore. N.d.T.

[7] Come è indicato in “Luigi Mariano, la materia e il colore”, P. M. Mariano e G. Rotondi Terminiello Ed., Blauer Wald, 2014. Il tenore culturale in cui si è sviluppata l’opera di Luigi Mariano è chiaramente deducibile da un’intervista a Rosa Dell’Anna, pubblicata su “Il Titano”, 12, 9-12, 2019.

[8] Gustav Klimt (Baumgarten, 1862 – Vienna, 1918), pittore che ha caratterizzato il movimento artistico della cosiddetta “Secessione Viennese”. N.d.T.

[9] Arthur Clive Heward Bell (East Shefford, Berkshire, 1881 – Londra, 1964) è stato un critico d’arte britannico, fu fautore di un formalismo radicale per cui il giudizio che qualcosa sia arte è svincolato da qualsiasi riflessione sull’intenzionalità e sul contesto storico-culturale, ma è solo associato alla possibilità di produrre un’esperienza estetica. È una posizione relativistica ed estetizzante. N.d.T.